Raffaele Cannovo
Il seguente articolo trae spunto dal VI congresso dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa APRE, tenuto a Roma il 14 dicembre 2012, per avviare una riflessione sul rapporto tra la psicoanalisi, intesa come psicoterapia e attività scientifica, e il diritto, inteso come attività di regolamentazione della vita sociale. Un rapporto funzionale tra le due farebbe da spinta per valorizzare la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, problema che sta diventando pressante con gravi ricadute negative, nei diversi ambiti del sistema socio-politico-economico del nostro Paese.
La psicoanalisi, fin dalla sua nascita, si è presentata come attività che, prescindendo dagli strumenti e tecniche impiegati, faceva ricerca sul pensiero umano; da ciò conseguiva sviluppo tecnico/teorico e, in definitiva, nuova conoscenza. Partendo da questo presupposto il ruolo della psicoanalisi nel contesto sociale è chiaramente più culturale che giuridico, laddove si volesse polarizzare a scopo chiarificativo la cultura e il diritto. Se la psicoanalisi da un lato compie opera di riconoscimento ed individuazione di dinamiche intrapsichiche ed interpsichiche, per espandere la consapevolezza delle persone al fine del superamento dei disagi psicosociali; dall’altro per il diritto la faccenda è ben diversa; innanzitutto, il diritto prevalentemente si rivolge al rapporto tra le persone, più che a quello con se stessi, per cui l’ambito è più sociale che non personale; la psicoanalisi invece ha forse anteposto la relazione al singolo solo in anni recenti (la questione è troppo ampia per essere affrontata in questa sede). Nello specifico, il diritto va a ratificare quella parte della conoscenza che si dà per scontato, che sia vera e giusta, per dare un orientamento o, anche, una regola specifica su come comportarsi nel sociale, la cui violazione può avere come contropartita qualcosa che va dal rimprovero, alla condanna limitativa della libertà personale, a seconda del reato commesso. Se nella psicoanalisi si può parlare di “regole”, queste, qualora violate, non prevedono sanzioni (certamente non intese come nell’ambito giuridico); in quanto, per loro natura, difficilmente conoscenze derivate dalla psicoanalisi possono raggiungere un grado di certezza tale da assurgere ad idea di verità e giustizia.
Sembra evidente la grande differenza applicativa di psicoanalisi e diritto, il cui punto di equilibrio si ritrova laddove c’è da regolamentare attività non soggette a frequenti modifiche, come ad esempio la gestione della percorrenza di strade ed autostrade: non c’è molto da discutere in questo caso, va rispettato il codice della strada. Sarebbe però un grave errore pensare che la psicoanalisi non abbia nulla da dire in questo settore, in quanto il suo lavoro risulta fondamentale nello spiegare la “ratio” di una certa regola, evitando di dare per scontato che la funzione della stessa sia immediatamente comprensibile ai più; oltretutto è molto diverso il comportamento di una persona che segue le regole per obbligo rispetto a chi lo fa perché le sente utili alla comunità e per se stesso. Si pensi poi se tutto quello che è abitudine si volesse trasformare in legge per definirne meglio l’applicazione pratica, sarebbe un’impresa tanto colossale quanto inutile, un po’ quello che si tentò di fare ad inizio secolo ‘900 con il Circolo di Vienna, quando si pensava di poter separare una metafisica filosofica utile, dalle speculazioni improduttive. Alcuni comportamenti vanno lasciati alla cultura, se non funzionano, l’intervento necessario è culturale, non si può risolvere tutto emanando leggi. Anche Manzoni nell’opera che lo ha reso immortale, “I promessi sposi”, critica le autorità della dominazione spagnola nel nord Italia del 1600, che pensavano di far rispettare quelle leggi, puntualmente violate, inasprendole, anziché tentare di mettere in atto strategie diverse dalla punizione.
Le leggi danno per scontato che le cose debbano essere fatte in un certo modo, nel momento in cui dovessero peccare di chiarezza, o comunque rimanere piuttosto complesse, il risultato sarebbe quello di allontanare la base sociale dalla vita pubblica. D’altro canto la psicoanalisi, potrebbe far tanto, se riuscisse a fare interfacciare il tecnicismo della legalità e la popolarità delle regole, sfruttando la profonda propensione all’analisi dei significati, che la contraddistingue come disciplina.
Le regole dovrebbero affondare le loro radici nella cultura popolare, al fine di assumere quelle forme capaci di essere sentite come proprie dalle persone, ciò creerebbe l’identità culturale del luogo, come anche della nostra nazione ancora oggi fortemente divisa tra nord e sud. Di fatto, all’indomani dell’unità d’Italia, il famoso proclama di Massimo d’Azeglio (abbiamo fatto l’Italia ora dobbiamo fare gli italiani) è rimasto tutt’ora disatteso.
Le leggi, a mio modo di vedere, sono un po’ come le teorie psicologiche: a volte ce ne innamoriamo, ma quando una teoria psicologia è portata all’estremo è sbagliata. Daniel Stern (tra i massimi esponenti della psicologia dello sviluppo) nella sua concezione delle teorie sostiene: quando osserviamo un bambino è un conto, quando scriviamo di quel bambino osservato è un altro, descriviamo qualcosa di diverso, cioè “il bambino clinico”. Inevitabilmente, il risultato di quanto osservato è sempre qualcosa di diverso da quanto visto. È questo l’errore che Peterfreund (influente psicologo dello sviluppo) rinfaccia al padre della psicoanalisi, Peterfreund sostiene infatti che il bambino che descrive Sigmund Freud è soggetto a una distorsione: “adultomorfizzazione”, concetto che si può condividere o meno, pur rimanendo valida l’idea di distorsione indotta dalle parole, questo anche quando si provano a delineare grandi principi. Leggi e regolamenti non fanno eccezione a questo tipo di problema.
Condivido in pieno l’idea presentata nel congresso circa la responsabilità che la psicoanalisi ha di intervenire nel contesto sociale a tutti i livelli, al fine di “influenzare” con la sintonizzazione affettiva la direzione che la nostra società ha preso. Ritengo che l’uso che si fa oggi del diritto sia oltremodo eccessivo: all’insorgere di qualunque problema si ricorre, perentoriamente e repentinamente, alle vie legali per risolverlo. La psicoanalisi dovrebbe porsi come obiettivo l’arginamento di questa deriva così spiccatamente “legalista”, che fa da paravento ad un oscuro sottofondo narcisistico, recuperando il valore della cultura e contrapponendolo in maniera netta alla legalità; tutto questo, non allo scopo di primeggiare, ma di far emergere un confronto che gioverebbe ad entrambe, nell’ottica di una migliorata comprensione del senso e, quindi, di un migliorato utilizzo delle stesse; così facendo avremmo due entità nettamente distinte nel modo di operare, ma molto cooperative circa gli obiettivi.