Tradurre i fenomeni – La semiotica della percezione di Merleau-Ponty

Giuseppe D’Acunto


In una nota del capitolo I dell’«Introduzione» alla Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty, poco dopo aver affermato che ogni percezione segna «una nuova nascita della coscienza», precisa che il suo prendere di mira il pensiero oggettivo o causale è allo scopo non semplicemente di confutarlo, ma di «compreder[n]e le difficoltà»1. Se saremo indotti a ritrovare dietro di esso [il pensiero oggettivo o causale] l’esperienza, questo passaggio sarà motivato solo dalle sue proprie difficoltà 2. Non diversamente, nell’opera precedente a quella appena menzionata, La struttura del comportamento, in merito al realismo, egli aveva affermato che esso è sì «un errore come filosofia, perché traspone in tesi dogmatica una esperienza che […] deforma o che rende

con ciò stesso impossibile», ma è «un errore motivato», ossia «si fonda su un fenomeno autentico, che la filosofia ha il compito di esplicitare»3. Nell’uno e nell’altro caso, quel che è richiesto è, perciò, un lavoro sistematico di revisione delle categorie ontologiche tradizionali. Lavoro cui va sottoposta, innanzi tutto, la Gestalttheorie, la quale, per quanto ci fa prendere coscienza delle «tensioni che, come linee di forza, attraversano il campo visivo», mette capo, nonostante ciò, ad una «restaurazione del realismo e del pensiero causale», perché non promuove un rinnovamento di quelle categorie destinate a dischiuderci la logica che governa le relazioni percettive. [Essa] non si avvede che se si vogliono tradurre esattamente i fenomeni è necessaria tutta una riforma dell’intelletto e che, per realizzarla, si deve rimettere in questione il pensiero oggettivo della logica e della filosofia classiche, sospendere le categorie del mondo, mettere in dubbio, nel senso cartesiano, le pretese evidenti del realismo e procedere a una autentica “riduzione fenomenologica”4 . Dopo le loro descrizioni dei fenomeni e del mondo percepito, i gestaltisti, infatti, restaurando la nozione classica dell’oggettività e inquadrando il mondo delle forme «in un “essere” nel senso classico della parola», non ne traggono le conclusioni filosofiche conseguenti, così che il vero, in ultima istanza, per loro, non è altro che «il mondo fisico come lo si è sempre concepito»5. Ora, è proprio mettendo in atto una “riduzione fenomenologica” che la Fenomenologia della percezione continua l’opera iniziata ne La struttura del comportamento, nel senso che già in quest’ultima (capitolo IV: «Le relazioni tra l’anima e il corpo e il problema della coscienza percettiva»), i fenomeni, quali si davano nel segno di una «riduzione della scienza», erano indentificati e raggiunti muovendo da una «descrizione diretta della percezione»6. Dove, però, le due opere in questione si distinguono è che, mentre, ne La struttura del comportamento, i fenomeni percettivi sono un qualcosa rispetto a cui si è spettatori, nella Fenomenologia della percezione, invece, ci si «install[a] in essi» e, a partire da qui, si conduce un’analisi del «rapporto singolare tra il soggetto, il suo corpo e il suo mondo»7. Si è appena detto della “riduzione fenomenologica”. Ebbene, per questa via tocchiamo il cuore stesso del pensiero di Merleau-Ponty, il quale assegna ad essa il difficile compito di portare alla luce quella «zona dell’essere in cui soggettività e oggettività si avvolgono l’una nell’altra e […] sono inestricabili»8. In tal senso, la Fenomenologia della percezione qualifica l’«indeterminato» come un «fenomeno positivo»: come quell’«atmosfera» che, “avvolgendo” il darsi dell’evento percettivo, è la cifra inconfondibile del nostro originario essere-nel-mondo. Nel mondo preso in sé tutto è determinato. […] Il senso che essa [la percezione] racchiude è [invece] un senso equivoco, si tratta di un valore espressivo piuttosto che di un significato logico9. La prima pretesa evidenza del senso comune che va contestata, il primo travestimento del realismo che va smascherato dalla “descrizione fenomenologica” riguarda la sensazione intesa come dato chiaro e immediato della coscienza. La percezione è più originaria della sensazione, in quanto, affinché io possa sentire qualcosa, questo qualcosa deve essermi già dato preliminarmente, deve essere «già […] spettacolo dinanzi a me anche senza localizzazione precisa»10. In altri termini, il «“qualcosa” percettivo» non ha mai una fisionomia netta e ben definita, ma «è sempre in mezzo ad altre cose e fa sempre parte di un “campo”»11, ossia si dà nel segno delle relazioni di contrasto figura-sfondo e presentificazione-occultamento. Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro gli altri, o dietro a me12. Ciò fa sì che ogni percezione sia sempre «già pregna di un senso», sia carica di «significati che l’abitano»13: quel che si “annuncia” in essa è, infatti, ogni volta di più di ciò che vi è puntualmente contenuto14. E questo perché, quando qualcosa mi si fa presente, mi rappresenta anche qualcos’altro, che mi è dato non «come una “parte reale” della mia percezione, ma soltanto […] come una “parte intenzionale” [di essa]»15. Richiamandosi all’esempio fornitoci dalla visione, Merleau-Ponty parla di un «atteggiamento naturale» di essa in cui il soggetto, facendo «causa comune» con il suo sguardo, nonché aderendo e abbandonandosi a ciò cui assiste, giunge così ad “abitare” l’oggetto16. Qui, «le parti del campo sono collegate in una organizzazione» tale che questa si dà come una «strutturazione totale della […] visione». La qualità sensibile puntuale si produce, invece, quando il soggetto, cessando di «vivere la visione», recide questo «commercio naturale» di essa con il mondo, per cui, volgendosi verso lo sguardo stesso, si chiede «che cosa ved[a] esattamente». Tale qualità, perciò, non è che la risposta alla domanda posta dallo sguardo riflessivo in questione, il «risultato di una visione seconda o critica che cerca di conoscersi nella sua particolarità». In questo atteggiamento, nello stesso tempo in cui il mondo si polverizza in qualità sensibili l’unità naturale del soggetto percipiente è rotta, e io vengo così a ignorarmi come soggetto di un campo visivo17. Merleau-Ponty configura la distinzione fra percezione e sensazione anche in termini semiotici. Da un lato, la prima è definita come un «testo naturale» e come un «linguaggio muto» parlato da oggetti che ci “vogliono dire” qualcosa (gli oggetti che cadono nel nostro campo visivo, ad esempio, «“vogliono dire” una maggior [o minor] distanza» da noi)18. Qui, è all’opera una «coscienza che non possiede una piena determinazione dei suoi oggetti» (una «coscienza non-tetica»), che è governata da una «logica vissuta» e a cui è immanente un «significato […] che non è chiaro per sé e non si conosce se non grazie all’esperienza di certi segni naturali». Dall’altro, le sensazioni sono definite come dei «messaggi» che gli organi di senso, preposti a riceverle, devono decifrare, «in modo da riprodurre in noi il testo originale» 19. In precedenza, abbiamo visto come Merleau-Ponty faccia uso della formula «tradurre esattamente i fenomeni», nel senso di dare un’espressione congrua alle relazioni percettive. Ebbene, ciò è indice del fatto che egli pensa il rapporto fra il percipiente e il percepito sul modello semiotico della traduzione. Traduzione intesa, però, non come la riproduzione di una lingua originale in una lingua-copia, di un messaggio in una sensazione che lo reduplica, ma come il prodursi, in un solo atto, in ogni nuova percezione, del testo originario della “lingua” parlata da essa20. In tal senso, si può dire che, da parte della percezione, «il testo del mondo esterno non è ricopiato, bensì costituito». [E]ssa [la percezione] non si dà come un evento nel mondo, al quale si possa applicare, per esempio, la categoria di causalità, ma come una ri-creazione o una ri-costituzione del mondo in ogni momento. Nella percezione, a differenza della sensazione, dunque, il segno sensibile e il significato non si lasciano distinguere, anzi coincidono. Nella percezione effettiva e presa allo stato nascente prima di ogni parola, il segno sensibile, il suo significato non sono separabili nemmeno idealmente21. È così che la distinzione fra percezione e sensazione può anche essere prospettata nel segno di un’alternativa che ha un lungo passato nella storia della filosofia del linguaggio: l’alternativa fra naturalismo e convenzione. Il concetto opposto a quello di segno naturale è, per Merleau-Ponty, un segno che è costituito attraverso la Sinngebung [l’imposizione di un senso] (un caso particolare della quale è la convenzionalità)22. Mentre il segno naturale è una proiezione all’esterno di quel «movimento […] d’espressione» che, irradiandosi dal corpo, fa sì che i significati siano a tal punto immanenti agli oggetti del nostro campo percettivo da poter «esistere come cose, sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi», la Sinngebung è, invece, quell’atto di una «coscienza costituente universale» che, consistendo in un’«associazione esteriore di contenuti», presuppone, sempre come già avvenuta, la messa a distanza rispetto a noi del mondo. Essa è, perciò, quell’«atto di significazione» per cui «non c’è segno naturale», quell’operazione, attiva proprio a partire dalla sensazione, che la configura sempre come un «costruire, costituire, effettuare attualmente la sintesi dell’oggetto». In tal senso, lo spirito si erge a soggetto della sensazione: qui, vedere o udire significa «staccarsi dall’impressione per investirla col pensiero, […] cessare di essere per conoscere», così che «l’oggetto si determina solo come un essere identificabile […] ed esiste esclusivamente per un soggetto che effettui questa identificazione». In definitiva, mentre, nella sensazione, ciò che io presto al sensibile proviene dall’atto del pensiero con cui lo investo di un senso, nella percezione, invece, se il sensibile «mi restituisce ciò che gli ho prestato», è solo perché «è dal sensibile stesso che io lo derivavo»23. Tornando al rapporto, che innerva la percezione, fra il segno sensibile e il significato, va detto ancora che, fra l’uno e l’altro, sussiste una relazione di immanenza reciproca: non solo il senso è immanente al segno, ma anche il segno è immanente al senso. E questo perché ciò che caratterizza, propriamente, il senso è la struttura del rinvio: un rinvio che si dispiega non solo nella sfera di competenza percettiva di ogni organo sensibile particolare, ma anche entro il campo delle relazioni sinergiche che distinti organi sensibili intrattengono fra loro. Da notare è che Merleau-Ponty fa ricorso al concetto di traduzione anche per quanto riguarda il carattere di immediatezza che presenta il fenomeno dell’«equivalenza intersensoriale», carattere che interpreta chiamando in causa il modello semiotico della lettura, nel senso che «l’equivalenza degli “organi di senso” e la loro analogia si legge sulle cose e può essere vissuta prima di essere concepita». Io non traduco “nel linguaggio della vista” i “dati del tatto”, o viceversa; non raggruppo le parti del mio corpo a una a una. Questa traduzione e questo raggruppamento sono fatti una volta per tutte in me: sono il mio corpo stesso. […] Qui i “dati visivi” appaiono solo attraverso il loro senso tattile, i dati tattili solo attraverso il loro senso visivo, ogni movimento locale solo sullo sfondo di una posizione globale, ogni evento corporeo, a prescindere dall’“analizzatore” che lo rivela, solo su uno sfondo significativo in cui […] la possibilità di una equivalenza intersensoriale [è] immediatamente fornita24. Tutto ciò significa che ogni percezione non si dà mai indipendentemente dalla «costellazione», o «catena»25 di rimandi, entro la quale appare, ma sempre e solo nel segno di essa. Il “reale” è quel contesto in cui ogni momento è non solo inseparabile dagli altri, ma in un certo qual modo sinonimo degli altri, in cui gli “aspetti” si significano vicendevolmente in una equivalenza assoluta; è la pienezza insuperabile26. E proprio questa «equivalenza assoluta» e originaria che vige fra il segno e il significato fa tutt’uno con l’evento del loro “mettersi in movimento” e dialettizzarsi: il senso di una cosa percepita non è altro, infatti, che differimento, dilazione, «scarto nei confronti del livello di spazio, di tempo, di mobilità e in generale di significazione in cui siamo insediati»27. Se un fenomeno […] si offre solamente a uno dei miei sensi, allora è un fantasma, e si avvicinerà all’esistenza reale unicamente se diviene capace di parlare agli altri miei sensi […]. Nelle cose c’è una simbolica che collega ogni qualità sensibile alle altre. […] Lo svolgimento dei dati sensibili sotto il nostro sguardo o sotto le nostre mani è come un linguaggio che si insegna da sé, il cui significato è secreto dalla struttura stessa dei segni: ecco perché si può dire alla lettera che i nostri sensi interrogano le cose e che esse rispondono28. Ora, il fatto che il significato, di cui qui si parla, sia «secreto dalla struttura stessa dei segni», vuol dire che è proprio la relazione di «scarto» che vige fra segno e significato ciò che rende possibile il riferimento all’oggetto. Il che permette di stabilire una corrispondenza puntuale fra sensazioni e fonemi, nel senso che, «nella percezione, le sensazioni hanno la stessa funzione ricoperta nel linguaggio dai fonemi», i quali, soltanto «nei loro rimandi scambievoli, danno vita al riferimento al significato»29. Il segno poi in Merleau-Ponty, ha non solo una dimensione sintattica “immanente”, data dal fatto che esso è percepito, ma anche una dimensione sintagmatica “trascendente”, che gli viene dal rapporto che intrattiene con altri segni30. Tornando al motivo per cui il linguaggio è un qualcosa che «si insegna da sé», affermazione con cui Merleau-Ponty vuole indicare che il tratto inconfondibile di esso è proprio quello di non riallacciarsi «a nessuna convenzione, a nessuna eredità intersoggettiva»31, egli afferma che, poiché «l’oggetto percepito è animato di una vita segreta», la percezione che lo “abita”, «come unità, […] si disfà e si rifà continuamente». Il che lo configura come quel «movimento effettivo» con cui essa, riaffermando, in ogni momento, i suoi atti, lascia sorgere e dispiegarsi di fronte a sé l’oggetto, inteso come un «organismo di colori, odori, suoni, apparenze tattili che si simbolizzano e si modificano reciprocamente e si accordano vicendevolmente secondo una logica reale»32. Alla ricerca di quello «“strato originario” del sentire che precede la divisione dei sensi» – che si dà come un vivere «l’unità del soggetto e l’unità intersensoriale della cosa» e che noi ritroviamo «a condizione di coincidere veramente con l’atto percettivo e di abbandonare l’atteggiamento critico»33 – Merleau-Ponty lo identifica, appunto, con il corpo, inteso come una «simbolica generale del mondo» e come un «sistema sinergico»34: un «sistema già fatto di equivalenze e di trasposizioni intersensoriali», in cui, cioè, i sensi, «si traducono vicendevolmente senza aver bisogno di un interprete, si comprendono vicendevolmente senza dover passare attraverso l’idea». Ed ecco messa a punto, così, la nozione di «schema corporeo», intesa come un «lessico della corporeità in generale»35: una nozione che si rifà non solo alla tesi di Herder, secondo cui l’uomo è un «perpetuo sensorio comune»36, ma anche allo “schematismo” di Kant, se è vero che il corpo rappresenta la «dimensione costitutiva» di quell’«“arte recondita” che fa sorgere un senso nelle “profondità della natura”»37. Con la nozione di schema corporeo, non è solo l’unità del corpo a essere descritta in modo nuovo, ma anche, attraverso di essa, l’unità dei sensi e l’unità dell’oggetto. Il mio corpo è il luogo, o meglio l’attualità stessa del fenomeno dell’espressione (Ausdruck), in esso l’esperienza visiva e l’esperienza auditiva, per esempio, sono l’una pregnante dell’altra, il loro valore espressivo fonda l’unità antepredicativa del mondo percepito e, attraverso di essa, l’espressione verbale (Darstellung) e il significato intellettuale (Bedeutung). A proposito di questa distinzione fra Ausdruck, Darstellung e Bedeutung, Merleau-Ponty afferma di averla prelevata dal volume III delle Filosofia delle forme simboliche di Cassirer38. Egli articola così il rapporto fra i tre termini in questione. Assegna allo Ausdruck, in quanto significato incarnato, un ruolo fondativo rispetto alla sfera della Bedeutung, in quanto significato concettuale, precisando che mentre del primo si dà percezione attuale, della seconda, invece, no. Motivo per cui ad essa non può essere riconosciuta un’esistenza attuale. La Bedeutung poi è posta sullo stesso piano della Darstellung, in quanto, per “concetto”, Merleau-Ponty intende non solo «ciò che esiste per mera necessità logica», ma anche «ciò che viene semplicemente riconosciuto o designato»39. Nel compiersi del passaggio dallo Ausdruck alla Bedeutung prende forma, in tal modo, l’atto della designazione, inteso come espressione verbale (Darstellung) di un significato. Tale atto si presenta come un «movimento astratto» che, svincolandosi dal movimento intenzionale concreto della percezione, «non coglie l’oggetto», ma, indicandolo, ne restituisce solo l’essenza, data dalla sua «condizione di alienazione rispetto al soggetto»40. Accade qui che la sfera del significato, in quanto reificazione del percepito, non coincidendo più con la sfera del senso, in quanto unità pre-obiettiva del vissuto, si rende autonoma rispetto a quest’ultima. Proprio come l’atto di nominare, l’atto di mostrare presuppone che l’oggetto, anziché essere accostato, afferrato e inghiottito dal corpo, sia mantenuto a distanza […]. Parimenti, il movimento astratto […] delinea nello spazio un’intenzione gratuita che si dirige verso il corpo proprio e lo costituisce come oggetto anziché attraversarlo e raggiungere le cose per suo tramite. Il movimento astratto è quindi abitato da una capacità di oggettivazione, […] che consiste nel trattare i dati sensibili come rappresentativi l’uno dell’altro, e come rappresentativi tutti insieme di un “eidos” […]. Se un essere è coscienza, è necessario che esso non sia altro che un tessuto di intenzioni. Se cessa di definirsi con l’atto di significare, questo essere ricade nella condizione di cosa41. Qui, «l’atto di significare» è identificato al tal punto con quell’orientamento intenzionale con cui la coscienza vivente esercita una “presa” diretta sull’oggetto che, venuto meno l’uno, si disgrega anche l’altro. È così che non si dà più un processo di “emergenza” del significato dal corpo, ma di «rigetto o espulsione» del primo da parte del secondo, attraverso un movimento, autoreferenziale e oggettivante, «eguale» ma «contrario a quello intenzionale». Il che ci conferma del fatto che l’intenzionalità, per Merleau-Ponty, dà non tanto l’oggetto come presenza, cosa che può fare solo la percezione, quanto la direzione verso di esso, «la vettorialità, il criterio per capire quale dei tanti oggetti forniti dalla percezione viene attualmente significato»42. In merito a questa «critica della funzione categoriale», Merleau-Ponty pensa che essa abbia la funzione di «rivelare, dietro all’uso empirico della categoria, un uso trascendentale», di ritrovare «dietro al giudizio di inerenza il giudizio di relazione, dietro la sussunzione, come operazione meccanica e formale, l’atto […] con il quale il pensiero investe l’oggetto del senso che si esprime nel predicato». Per lui, ciò che qui è in gioco è, infatti, il problema di «comprendere il modo in cui «il pensiero […] si lega con se stesso e realizza la propria sintesi». E questo perché l’essenza della coscienza è non solo «spontaneità», ma anche «sapere contratto» e «sedimentazione», nel senso che essa ha la naturale tendenza, oltre che a darsi come coestensiva al mondo, a «far essere di fronte a se stessa i propri pensieri come delle cose», a contare sui concetti e sui giudizi acquisiti come su «cose che sono là e si danno globalmente, senza che in ogni momento abbiamo bisogno di rifarne la sintesi». Ora, questa dialettica fra «spontaneità» e «sedimentazione», fra creatività immediata e movimento di «continua ripresa del fatto», è vista, da Merleau-Ponty, come un’articolazione del rapporto che, più in generale, vige fra silenzio ed espressione linguisticamente articolata e, più in particolare, fra «cogito tacito» e «cogito parlato», fra l’io come autopresenza silenziosa e l’io riflessivo e autocosciente, il quale converte la propria coscienza di sé «in enunciato e in verità d’essenza». Un rapporto – collocato dalla fenomenologia husserliana sotto il segno della Fundierung – in cui, se, da un lato, il fondato non può mai riassorbire il fondante, dall’altro, però, quest’ultimo è primo solo perché «si manifesta proprio attraverso il fondato»43. È così che per, Merleau-Ponty, il significato del motto fenomenologico che prescrive un “ritorno alle cose stesse” sta nella decisione di lasciarsi guidare da queste ultime, proprio nel modo in cui ci si danno e si manifestano, facendo sì che esse, letteralmente, “prendano la parola”44: parola che, perciò, è da sempre già iscritta nella polpa viva dell’esperienza prelinguisticapreriflessiva. preriflessiva. nella polpa viva dell’esperienza prelinguistica e preriflessiva.


1 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 45, n. 5.
2 Ivi, p. 118.
3 M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento (1942), tr. it. di G. D. Neri, Bompiani, Milano 1963, p. 347.
4 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 86-7.
5 M. MERLEAU-PONTY, Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche (1946), in ID., Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche / La natura della percezione, a cura di R. Prezzo e F. Negri, Medusa, Milano 2004, pp. 17-74: p. 38.
6 G. L. BRENA, La struttura della percezione. Studio su Merleau-Ponty, Vita e Pensiero, Milano 1969, p. 42.
7 M. MERLEAU-PONTY, Autopresentazione (1952), tr. it. di G. D. Neri, in «aut aut», 1989, n. 232-233, pp. 5-12: p. 6.
8 A. BONOMI, Esistenza e struttura. Saggio su Merleau-Ponty, il Saggiatore, Milano 1967, p. 196. Sull’“avvolgimento” come «principio cardinale» della «comprensione dell’esistenza e della vita», da parte di Merleau-Ponty, cfr., inoltre, J.-P. SARTRE, Merleau-Ponty, a cura di R. Kirchmayr, Cortina, Milano 1999, p. 112, il quale così prosegue: «Siamo nell’essere, esso ci avvolge, è in noi, fondamentale e contingente, si supera verso il gesto e la parola. In noi si fa carne […] e quando percepiamo il mondo con il nostro corpo, lo facciamo carne, ci facciamo carne a nostra volta» (p. 113). È così che, se il senso della “riduzione fenomenologica” consiste, per Merleau-Ponty, nel portare alla luce quella che è la zona “promiscua” dell’essere, essa si configura, allora, come un’«esperienza continua mai concludibile» e non come un «gesto metodologico fondativo». Cfr. I. AGUILAR, La fenomenologia della temporalità di Maurice Merleau-Ponty, in AA. VV., L’altro e il tempo. Studi di fenomenologia, a cura di E. Ferrario, Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 165-84: p. 172. Sull’interpretazione della “riduzione fenomenologica”, nell’ultimo Merleau-Ponty, come una «riscrittura del mito della caverna», cfr., infine, T. TOADVINE, Chiasm and chiaroscuro: the logic of the epoché, in «Chiasmi international», 2001, n. 3, pp. 225-40: p click to read. 235.
9 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 38-9. Sulla Lebenswelt come dimensione dell’indeterminatezza e del «pressappoco», nonché come regno di una «causalità [non] esatta», si era già pronunciato E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), a cura di W. Biemel, tr. it. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, pp. 60, 293, 372. Sul fatto che la percezione, «[c]alata in una dimensione di promiscuità, […] è sempre in forma impersonale», cfr., inoltre, B. FORTIS, Merleau-Ponty:percezione, visibilità, pensiero estetico, in AA. VV., Divenire di Merleau-Ponty. Filosofia di un soggetto incarnato, a cura di R. Lanfredini, Guerini e Associati, Milano 2011, pp. 117-29: p. 121.
10 Ivi, p. 35. In merito a questo carattere derivato della sensazione, già ne La struttura del comportamento, cit., si poteva leggere quanto segue: «Ben lontana dall’essere un elemento primitivo ed elementare della coscienza, la sensazione, cioè l’apprensione di una pura qualità, è un modo tardivo ed eccezionale di organizzazione della coscienza umana» (p. 87, n. 1). Sul fatto che Husserl sarebbe stato il primo a riconoscere la «specificità della percezione», in quanto «intuizione donatrice originaria», nonché la «sua irriducibilità alla sensazione», e su Merleau-Ponty come colui che è «riuscito a restituire completamente il suo senso» a questa idea husserliana, cfr. R. BARBARAS, La percezione. Saggio sul sensibile, a cura di G. Carissimi, Mimesis, Milano 2002, pp. 7 e 12.
11 Ivi, p. 36.
12 Ivi, pp. 114-5. A proposito della struttura figura-sfondo, in R. BARBARAS, La percezione., cit., si afferma che, se il «“dato” [che è originariamente percepito] è il contrasto», ne discende che «[p]rima è dunque la differenza e non i suoi termini» (p. 46). Sul rapporto figura-sfondo, in Merleau-Ponty, inteso come dialettica fra rivelato e nascosto, cfr. anche H. I. DREYFUS – S. J. TODES, The three worlds of Merleau-Ponty, in «Philosophy and Phenomenological Research», 1962, n. 4, pp. 559-65: p. 564.
13 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 36-7.
14 Dal punto di vista fenomenologico, una tale caratterizzazione della percezione – ogni «parte» della quale «annuncia più di quanto contenga» (ivi, p. 36), è perfettamente in linea con la configurazione di essa come «fenomeno». Ricordiamo, in proposito, la definizione di «fenomeno nel senso genuino e originario», fornitaci da Heidegger nel § 7a di Essere e tempo: «l’annunciante emanazione di qualcosa che nell’apparenza (Erscheinung) si nasconde». Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo (1927), a cura di F. Volpi, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2005, p. 45. Infine, una tale configurazione del «fenomeno», nella Fenomenologia della percezione, coincide con la definizione di «cosa» che ci viene da La struttura del comportamento: ciò che si offre attraverso (par) le sue «“manifestazioni (Erscheinungen)” e […] al di là di esse». Cfr. La struttura del comportamento, cit., p. 301.
15 Fenomenologia della percezione, cit., p. 47.
16 A proposito di questa capacità del corpo umano di “abitare” percettivamente gli oggetti del mondo-ambiente, W. MAIER, Das Problem der Leiblichkeit bei J.-P. Sartre und M. Merleau-Ponty, Niemeyer, Tübingen 1964, afferma che è proprio nella messa a punto di una tale «categoria dell’abitare» che consiste l’«autentica prestazione filosofica di Merleau-Ponty […] nell’ambito della filosofia francese» (p. 58).
17 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 305-6. Per misurare l’influsso, su questo punto particolarmente evidente, di Bergson su Merleau-Ponty, cfr. ciò che il secondo dice del primo nel breve saggio: Divenire di Bergson in M. MERLEAU-PONTY, Segni (1960), a cura di A. Bonomi, tr. it. di G. Alfieri, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 239-51. Qui, definendo l’intuizione metafisica della durata come l’«apprendimento di un modo generale di vedere» e come il «principio di una specie di “riduzione”», Merleau-Ponty chiama «sapere assoluto» una tale inerenza del soggetto al tempo, inteso come un «essere nel senso vivo e attivo della parola»: un «essere nascente», «intero» (pp. 241-2) o «integrale» (p. 244). Su Merleau-Ponty interprete di Bergson, si veda E. LISCIANI PETRINI, La passione del mondo. Saggio su Merleau-Ponty, ESI, Napoli 2002, pp. 15-47, nonché il cap. III di R. RONCHI, Bergson filosofo dell’interpretazione, Marietti, Genova 1990, pp. 83-149. Qui, a proposito della “riduzione” che Merleau-Ponty vede attuata da Bergson, se ne parla come di un qualcosa che, per il primo, rappresenta una «valida alternativa a quella trascendentale di Husserl», nel senso che, mentre quest’ultima, sospendendo il nostro legame naturale col mondo, si presenta come una «theoria dell’essenza del mondo-della-vita», l’altra, invece, scopre nella durata quell’«apertura originaria che ogni prassi logico-teoretica deve sempre presupporre senza mai poterla risolvere in oggetto della sua pura visione, in “essenza”» (pp. 129-30).
18 A proposito di questa definizione della percezione nei termini di un «linguaggio muto», S. BUCHER, Zwischen Phänomenologie und Sprachwissenschaft: zu Merleau-Ponty Theorie der Sprache, Nodus Publikationen, Münster 1991, si chiede che cosa Merleau-Ponty intenda dire, propriamente, con essa. «La mutezza, in quanto è un qualcosa di non udibile, potrebbe essere una metafora che si riferisce al modo di fungere inavvertito della percezione» (p. 118).
19 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 86-7 e 49.
20 Sulla percezione in quanto “traduzione” della coappartenenza originaria di io e mondo, cfr. anche M. MERLEAU-PONTY, L’union de l’âme et du corps chez Malebranche, Biran et Bergson (1947/48), a cura di J. Deprun, Vrin, Paris 1968, p. 95. Su questo punto, cfr. B. WANDENFELS, Vérité à faire. La questione della verità in Merleau-Ponty, in AA. VV., La prosa del mondo. Omaggio a Maurice Merleau-Ponty, a cura di A.-M. Sauzeau Boetti, Quattro Venti, Urbino 1990, pp. 81-90, il quale afferma che se «il testo originario dell’esperienza è accessibile solo in traduzione», ciò vuol dire che «non c’è un testo originario di per sé» (p. 87). Infine, ciò che Merleau-Ponty intende qui per “traduzione”, ci sembra molto vicino alla “teoria della raffigurazione” del Tractatus di Wittgenstein. Per quest’ultimo, infatti, l’immagine (Bild), in quanto proiezione è, contemporaneamente, un «fatto (empirico)» e una «forma (trascendentale)», ossia un rapporto fra elementi che si danno come termini indistinguibili di una stessa relazione iconica: è una «mediazione rappresentativa» e, insieme anche, una «configurazione attuale di senso». Cfr. R. FABBRICHESI LEO, I corpi del significato. Lingua, scrittura e conoscenza in Leibniz e Wittgenstein, Jaca Book, Milano 2000, pp. 19 e 21.
21 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 41, 283 e 76.
22 S. BUCHER, Zwischen Phänomenologie und Sprachwissenschaft, cit., pp. 96-7. Sulla nuova concezione del concetto, della verità e del pensiero, propria della riflessione di Merleau-Ponty, come ciò che la colloca «al di là della Sinngebung della concezione trascendentale dell’intenzionalità», cfr. P. GAMBAZZI, L’occhio e il suo inconscio, Cortina, Milano 1999, p. 227.
23 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 202-3, 547, 289 e 291.
24 Ivi, pp. 184 e 214.
25 M. MERLEAU-PONTY, Linguaggio, Storia, Natura. Corsi al Collège de France, 1952-1961, a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1995, pp. 25-6. Circa l’uso, da parte di Merleau-Ponty, di questi due termini, S. BUCHER, Zwischen Phänomenologie und Sprachwissenschaft, cit., rileva che, mentre il primo sta ad indicare che gli “aspetti” di ciò che si dà percettivamente sono «l’uno accanto all’altro», il secondo, invece, che essi sono «l’uno dopo l’altro» (p. 124, n. 116).
26 Fenomenologia della percezione, cit., p. 421.
27 Linguaggio, Storia, Natura, cit., p. 25.
28 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 416-7.
29 S. BUCHER, Zwischen Phänomenologie und Sprachwissenschaft, cit., p. 127.
30 Cfr. R. L. LANIGAN, Speaking and semiology. Maurice Merleau-Ponty’s phenomenological theory of existential communication, Mouton, The Hague-Paris 1972, p. 92.
31 In merito a tutto ciò, S. BUCHER, Zwischen Phänomenologie und Sprachwissenschaft, cit., ne conclude che, secondo Merleau-Ponty, «nella percezione, non si dà alcuna sedimentazione che renda possibile l’acquisizione permanente di un sistema di segni» (p. 123).
32 Fenomenologia della percezione, cit., p. 76. Su questo «movimento effettivo», che anima la percezione, come la figura stessa dell’intenzionalità merleau-pontyana, strutturalmente diversa, in ciò, dall’intenzionalità husserliana, la quale si presenta, invece, come «un atto» che obbliga la coscienza «a “uscire” da sé per proiettarsi verso l’oggetto», cfr. G. DEROSSI, Maurice Merleau-Ponty, Edizioni di Filosofia, Torino 1965, p. 21. Circa i rapporti fra intenzionalità merleau-pontyana e intenzionalità husserliana, va poi ricordato che la prima, a differenza della seconda, si articola attraverso un doppio movimento: uno di uscita fuori di sé della coscienza, cui fa riscontro l’altro di ritorno a sé di essa (modellato sul cogito cartesiano). Cfr. E. CENTINEO, Una fenomenologia della storia. L’esistenzialismo di M. Merleau-Ponty, Palumbo, Palermo 1959, pp. 82-3.
33 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 306 e 318. Chi definisce questo «strato originario», in Merleau-Ponty, come una zona di «neutralità del sensibile» – quella in cui la «percezione è naturalmente sinestesica perché è innanzi tutto pre-estesica» – è M. DUFRENNE, L’occhio e l’orecchio, a cura di C. Fontana, il Castoro, Milano 2004, p. 130. Sulla scoperta di questa «sfera anonima», da parte di Merleau-Ponty, come «il punto più avanzato del [suo] tentativo di rifondare la nozione di soggetto», cfr. anche I. MATOS DIAS, Maurice Merleau-Ponty: une esthésiologie ontologique, in AA. VV., Recherches sur la phénoménologie de Merleau-Ponty, a cura di R. Barbaras, PUF, Paris 1998, pp. 269-88, p. 277.
34 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 316 e 313.
35 Linguaggio, Storia, Natura, cit., p. 128.
36 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 314. Moltissimi spunti, ripensabili in rapporto a Merleau-Ponty, vengono dalla lettura di I. TANI, L’albero della mente. Sensi, pensiero, linguaggio in Herder, Carocci, Roma 2000. Qui, a proposito della radice dei processi di significazione, si parla del corpo, in Herder, come della «primaria attività […] di pertinentizzazione e semiotizzazione dell’esperienza» (p. 33) e, di conseguenza, del linguaggio come della «modalità più articolata e manifesta di una più vasta capacità naturale di significare» (p. 11). Ogni senso, ogni interazione del corpo con l’ambiente, organizza una «“protosemantica” naturale» (p. 100), che è quel principio che garantisce, appunto, la semanticità del linguaggio. «La semiosi dei sensi è un processo di interpretazione di tipo pragmatico che, in base a motivazioni non solo cognitive, ma anche emotive e affettive, seleziona certi caratteri che già emergono, in quanto pertinenti alla nostra costituzione organica, dallo sfondo indifferenziato» (p. 134). I sensi, pertanto, «sono già di per sé in grado di schematizzare» (p. 153), mentre il linguaggio esercita una «schematizzazione di secondo grado […] sulla base della prima elaborazione semiotica dei sensi» (p. 161).
37 Fenomenologia della percezione, cit., p. 76. Lo “schematismo” kantiano è un motivo che Merleau-Ponty declina nel segno del tema husserliano della “teleologia della coscienza”, ossia dell’“intenzionalità fungente”, intesa come «l’unità naturale e ante-predicativa del mondo e della nostra vita» (p. 27). Su questo punto, cfr. E. ROCCA, L’essere e il giallo. Intorno a Merleau-Ponty, Pratiche, Parma 1993, pp. 40-2. Sul gesto filosofico di Merleau-Ponty di ricondurre la kantiana facoltà del giudizio a quell’unità di senso di cui è portatrice l’intenzionalità husserliana, «operante nell’ambito della aisthesis» e definita, infatti, come «un Logos del mondo estetico», cfr., inoltre, M. CARBONE, Il sensibile e l’eccedente. Mondo estetico, arte, pensiero, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 98. Nella riflessione dell’ultimo Merleau-Ponty, tale gesto metterà capo ad una tematizzazione della natura come di quello «strato» in cui «lo spirito è come celato nel funzionamento concordante dei corpi in seno all’essere grezzo». Cfr. Linguaggio, Storia, Natura, cit., p. 91.
38 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 314 e 325, nota 63.
39 G. DEROSSI, Maurice Merleau-Ponty, cit., p. 28.
40 Ivi, p. 43.
41 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 175-6.
42 G. DEROSSI, Maurice Merleau-Ponty, cit., pp. 60 e 61, nota 11.
43 Fenomenologia della percezione, cit., pp. 183, 184, 184-5, 182, 517 e 506. R. RONCHI, Bergson filosofo dell’interpretazione, cit., afferma che «con la Fundierung fenomenologica Merleau-Ponty pensa […] qualcosa di molto vicino alla differenza ontico-ontologica heideggeriana» (p. 142, n. 76). Attraverso di essa, egli si sforzerebbe di pensare l’origine del senso non a partire da un «fondamento positivo assoluto». Cfr. F. ROBERT, Fondement et fondation, in «Chiasmi international», 2000, n. 2, pp. 351-70: p. 352.
44 Sull’evidenza come «prima nozione» e sulla datità come «diritto originario [dei fenomeni] di manifestarmisi», cfr. C. SINI, Introduzione alla fenomenologia come scienza, Lampugnani Nigri, Milano 1965, pp. 21-2. 45 Fenomenologia della percezione, cit., p. 17.
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