Giuseppe D’Acunto
In una nota del capitolo I dell’«Introduzione» alla Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty, poco dopo aver affermato che ogni percezione segna «una nuova nascita della coscienza», precisa che il suo prendere di mira il pensiero oggettivo o causale è allo scopo non semplicemente di confutarlo, ma di «compreder[n]e le difficoltà»1. Se saremo indotti a ritrovare dietro di esso [il pensiero oggettivo o causale] l’esperienza, questo passaggio sarà motivato solo dalle sue proprie difficoltà 2. Non diversamente, nell’opera precedente a quella appena menzionata, La struttura del comportamento, in merito al realismo, egli aveva affermato che esso è sì «un errore come filosofia, perché traspone in tesi dogmatica una esperienza che […] deforma o che rende
con ciò stesso impossibile», ma è «un errore motivato», ossia «si fonda su un fenomeno autentico, che la filosofia ha il compito di esplicitare»3. Nell’uno e nell’altro caso, quel che è richiesto è, perciò, un lavoro sistematico di revisione delle categorie ontologiche tradizionali. Lavoro cui va sottoposta, innanzi tutto, la Gestalttheorie, la quale, per quanto ci fa prendere coscienza delle «tensioni che, come linee di forza, attraversano il campo visivo», mette capo, nonostante ciò, ad una «restaurazione del realismo e del pensiero causale», perché non promuove un rinnovamento di quelle categorie destinate a dischiuderci la logica che governa le relazioni percettive. [Essa] non si avvede che se si vogliono tradurre esattamente i fenomeni è necessaria tutta una riforma dell’intelletto e che, per realizzarla, si deve rimettere in questione il pensiero oggettivo della logica e della filosofia classiche, sospendere le categorie del mondo, mettere in dubbio, nel senso cartesiano, le pretese evidenti del realismo e procedere a una autentica “riduzione fenomenologica”4 . Dopo le loro descrizioni dei fenomeni e del mondo percepito, i gestaltisti, infatti, restaurando la nozione classica dell’oggettività e inquadrando il mondo delle forme «in un “essere” nel senso classico della parola», non ne traggono le conclusioni filosofiche conseguenti, così che il vero, in ultima istanza, per loro, non è altro che «il mondo fisico come lo si è sempre concepito»5. Ora, è proprio mettendo in atto una “riduzione fenomenologica” che la Fenomenologia della percezione continua l’opera iniziata ne La struttura del comportamento, nel senso che già in quest’ultima (capitolo IV: «Le relazioni tra l’anima e il corpo e il problema della coscienza percettiva»), i fenomeni, quali si davano nel segno di una «riduzione della scienza», erano indentificati e raggiunti muovendo da una «descrizione diretta della percezione»6. Dove, però, le due opere in questione si distinguono è che, mentre, ne La struttura del comportamento, i fenomeni percettivi sono un qualcosa rispetto a cui si è spettatori, nella Fenomenologia della percezione, invece, ci si «install[a] in essi» e, a partire da qui, si conduce un’analisi del «rapporto singolare tra il soggetto, il suo corpo e il suo mondo»7. Si è appena detto della “riduzione fenomenologica”. Ebbene, per questa via tocchiamo il cuore stesso del pensiero di Merleau-Ponty, il quale assegna ad essa il difficile compito di portare alla luce quella «zona dell’essere in cui soggettività e oggettività si avvolgono l’una nell’altra e […] sono inestricabili»8. In tal senso, la Fenomenologia della percezione qualifica l’«indeterminato» come un «fenomeno positivo»: come quell’«atmosfera» che, “avvolgendo” il darsi dell’evento percettivo, è la cifra inconfondibile del nostro originario essere-nel-mondo. Nel mondo preso in sé tutto è determinato. […] Il senso che essa [la percezione] racchiude è [invece] un senso equivoco, si tratta di un valore espressivo piuttosto che di un significato logico9. La prima pretesa evidenza del senso comune che va contestata, il primo travestimento del realismo che va smascherato dalla “descrizione fenomenologica” riguarda la sensazione intesa come dato chiaro e immediato della coscienza. La percezione è più originaria della sensazione, in quanto, affinché io possa sentire qualcosa, questo qualcosa deve essermi già dato preliminarmente, deve essere «già […] spettacolo dinanzi a me anche senza localizzazione precisa»10. In altri termini, il «“qualcosa” percettivo» non ha mai una fisionomia netta e ben definita, ma «è sempre in mezzo ad altre cose e fa sempre parte di un “campo”»11, ossia si dà nel segno delle relazioni di contrasto figura-sfondo e presentificazione-occultamento. Vedere significa entrare in un universo di esseri che si mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro gli altri, o dietro a me12. Ciò fa sì che ogni percezione sia sempre «già pregna di un senso», sia carica di «significati che l’abitano»13: quel che si “annuncia” in essa è, infatti, ogni volta di più di ciò che vi è puntualmente contenuto14. E questo perché, quando qualcosa mi si fa presente, mi rappresenta anche qualcos’altro, che mi è dato non «come una “parte reale” della mia percezione, ma soltanto […] come una “parte intenzionale” [di essa]»15. Richiamandosi all’esempio fornitoci dalla visione, Merleau-Ponty parla di un «atteggiamento naturale» di essa in cui il soggetto, facendo «causa comune» con il suo sguardo, nonché aderendo e abbandonandosi a ciò cui assiste, giunge così ad “abitare” l’oggetto16. Qui, «le parti del campo sono collegate in una organizzazione» tale che questa si dà come una «strutturazione totale della […] visione». La qualità sensibile puntuale si produce, invece, quando il soggetto, cessando di «vivere la visione», recide questo «commercio naturale» di essa con il mondo, per cui, volgendosi verso lo sguardo stesso, si chiede «che cosa ved[a] esattamente». Tale qualità, perciò, non è che la risposta alla domanda posta dallo sguardo riflessivo in questione, il «risultato di una visione seconda o critica che cerca di conoscersi nella sua particolarità». In questo atteggiamento, nello stesso tempo in cui il mondo si polverizza in qualità sensibili l’unità naturale del soggetto percipiente è rotta, e io vengo così a ignorarmi come soggetto di un campo visivo17. Merleau-Ponty configura la distinzione fra percezione e sensazione anche in termini semiotici. Da un lato, la prima è definita come un «testo naturale» e come un «linguaggio muto» parlato da oggetti che ci “vogliono dire” qualcosa (gli oggetti che cadono nel nostro campo visivo, ad esempio, «“vogliono dire” una maggior [o minor] distanza» da noi)18. Qui, è all’opera una «coscienza che non possiede una piena determinazione dei suoi oggetti» (una «coscienza non-tetica»), che è governata da una «logica vissuta» e a cui è immanente un «significato […] che non è chiaro per sé e non si conosce se non grazie all’esperienza di certi segni naturali». Dall’altro, le sensazioni sono definite come dei «messaggi» che gli organi di senso, preposti a riceverle, devono decifrare, «in modo da riprodurre in noi il testo originale» 19. In precedenza, abbiamo visto come Merleau-Ponty faccia uso della formula «tradurre esattamente i fenomeni», nel senso di dare un’espressione congrua alle relazioni percettive. Ebbene, ciò è indice del fatto che egli pensa il rapporto fra il percipiente e il percepito sul modello semiotico della traduzione. Traduzione intesa, però, non come la riproduzione di una lingua originale in una lingua-copia, di un messaggio in una sensazione che lo reduplica, ma come il prodursi, in un solo atto, in ogni nuova percezione, del testo originario della “lingua” parlata da essa20. In tal senso, si può dire che, da parte della percezione, «il testo del mondo esterno non è ricopiato, bensì costituito». [E]ssa [la percezione] non si dà come un evento nel mondo, al quale si possa applicare, per esempio, la categoria di causalità, ma come una ri-creazione o una ri-costituzione del mondo in ogni momento. Nella percezione, a differenza della sensazione, dunque, il segno sensibile e il significato non si lasciano distinguere, anzi coincidono. Nella percezione effettiva e presa allo stato nascente prima di ogni parola, il segno sensibile, il suo significato non sono separabili nemmeno idealmente21. È così che la distinzione fra percezione e sensazione può anche essere prospettata nel segno di un’alternativa che ha un lungo passato nella storia della filosofia del linguaggio: l’alternativa fra naturalismo e convenzione. Il concetto opposto a quello di segno naturale è, per Merleau-Ponty, un segno che è costituito attraverso la Sinngebung [l’imposizione di un senso] (un caso particolare della quale è la convenzionalità)22. Mentre il segno naturale è una proiezione all’esterno di quel «movimento […] d’espressione» che, irradiandosi dal corpo, fa sì che i significati siano a tal punto immanenti agli oggetti del nostro campo percettivo da poter «esistere come cose, sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi», la Sinngebung è, invece, quell’atto di una «coscienza costituente universale» che, consistendo in un’«associazione esteriore di contenuti», presuppone, sempre come già avvenuta, la messa a distanza rispetto a noi del mondo. Essa è, perciò, quell’«atto di significazione» per cui «non c’è segno naturale», quell’operazione, attiva proprio a partire dalla sensazione, che la configura sempre come un «costruire, costituire, effettuare attualmente la sintesi dell’oggetto». In tal senso, lo spirito si erge a soggetto della sensazione: qui, vedere o udire significa «staccarsi dall’impressione per investirla col pensiero, […] cessare di essere per conoscere», così che «l’oggetto si determina solo come un essere identificabile […] ed esiste esclusivamente per un soggetto che effettui questa identificazione». In definitiva, mentre, nella sensazione, ciò che io presto al sensibile proviene dall’atto del pensiero con cui lo investo di un senso, nella percezione, invece, se il sensibile «mi restituisce ciò che gli ho prestato», è solo perché «è dal sensibile stesso che io lo derivavo»23. Tornando al rapporto, che innerva la percezione, fra il segno sensibile e il significato, va detto ancora che, fra l’uno e l’altro, sussiste una relazione di immanenza reciproca: non solo il senso è immanente al segno, ma anche il segno è immanente al senso. E questo perché ciò che caratterizza, propriamente, il senso è la struttura del rinvio: un rinvio che si dispiega non solo nella sfera di competenza percettiva di ogni organo sensibile particolare, ma anche entro il campo delle relazioni sinergiche che distinti organi sensibili intrattengono fra loro. Da notare è che Merleau-Ponty fa ricorso al concetto di traduzione anche per quanto riguarda il carattere di immediatezza che presenta il fenomeno dell’«equivalenza intersensoriale», carattere che interpreta chiamando in causa il modello semiotico della lettura, nel senso che «l’equivalenza degli “organi di senso” e la loro analogia si legge sulle cose e può essere vissuta prima di essere concepita». Io non traduco “nel linguaggio della vista” i “dati del tatto”, o viceversa; non raggruppo le parti del mio corpo a una a una. Questa traduzione e questo raggruppamento sono fatti una volta per tutte in me: sono il mio corpo stesso. […] Qui i “dati visivi” appaiono solo attraverso il loro senso tattile, i dati tattili solo attraverso il loro senso visivo, ogni movimento locale solo sullo sfondo di una posizione globale, ogni evento corporeo, a prescindere dall’“analizzatore” che lo rivela, solo su uno sfondo significativo in cui […] la possibilità di una equivalenza intersensoriale [è] immediatamente fornita24. Tutto ciò significa che ogni percezione non si dà mai indipendentemente dalla «costellazione», o «catena»25 di rimandi, entro la quale appare, ma sempre e solo nel segno di essa. Il “reale” è quel contesto in cui ogni momento è non solo inseparabile dagli altri, ma in un certo qual modo sinonimo degli altri, in cui gli “aspetti” si significano vicendevolmente in una equivalenza assoluta; è la pienezza insuperabile26. E proprio questa «equivalenza assoluta» e originaria che vige fra il segno e il significato fa tutt’uno con l’evento del loro “mettersi in movimento” e dialettizzarsi: il senso di una cosa percepita non è altro, infatti, che differimento, dilazione, «scarto nei confronti del livello di spazio, di tempo, di mobilità e in generale di significazione in cui siamo insediati»27. Se un fenomeno […] si offre solamente a uno dei miei sensi, allora è un fantasma, e si avvicinerà all’esistenza reale unicamente se diviene capace di parlare agli altri miei sensi […]. Nelle cose c’è una simbolica che collega ogni qualità sensibile alle altre. […] Lo svolgimento dei dati sensibili sotto il nostro sguardo o sotto le nostre mani è come un linguaggio che si insegna da sé, il cui significato è secreto dalla struttura stessa dei segni: ecco perché si può dire alla lettera che i nostri sensi interrogano le cose e che esse rispondono28. Ora, il fatto che il significato, di cui qui si parla, sia «secreto dalla struttura stessa dei segni», vuol dire che è proprio la relazione di «scarto» che vige fra segno e significato ciò che rende possibile il riferimento all’oggetto. Il che permette di stabilire una corrispondenza puntuale fra sensazioni e fonemi, nel senso che, «nella percezione, le sensazioni hanno la stessa funzione ricoperta nel linguaggio dai fonemi», i quali, soltanto «nei loro rimandi scambievoli, danno vita al riferimento al significato»29. Il segno poi in Merleau-Ponty, ha non solo una dimensione sintattica “immanente”, data dal fatto che esso è percepito, ma anche una dimensione sintagmatica “trascendente”, che gli viene dal rapporto che intrattiene con altri segni30. Tornando al motivo per cui il linguaggio è un qualcosa che «si insegna da sé», affermazione con cui Merleau-Ponty vuole indicare che il tratto inconfondibile di esso è proprio quello di non riallacciarsi «a nessuna convenzione, a nessuna eredità intersoggettiva»31, egli afferma che, poiché «l’oggetto percepito è animato di una vita segreta», la percezione che lo “abita”, «come unità, […] si disfà e si rifà continuamente». Il che lo configura come quel «movimento effettivo» con cui essa, riaffermando, in ogni momento, i suoi atti, lascia sorgere e dispiegarsi di fronte a sé l’oggetto, inteso come un «organismo di colori, odori, suoni, apparenze tattili che si simbolizzano e si modificano reciprocamente e si accordano vicendevolmente secondo una logica reale»32. Alla ricerca di quello «“strato originario” del sentire che precede la divisione dei sensi» – che si dà come un vivere «l’unità del soggetto e l’unità intersensoriale della cosa» e che noi ritroviamo «a condizione di coincidere veramente con l’atto percettivo e di abbandonare l’atteggiamento critico»33 – Merleau-Ponty lo identifica, appunto, con il corpo, inteso come una «simbolica generale del mondo» e come un «sistema sinergico»34: un «sistema già fatto di equivalenze e di trasposizioni intersensoriali», in cui, cioè, i sensi, «si traducono vicendevolmente senza aver bisogno di un interprete, si comprendono vicendevolmente senza dover passare attraverso l’idea». Ed ecco messa a punto, così, la nozione di «schema corporeo», intesa come un «lessico della corporeità in generale»35: una nozione che si rifà non solo alla tesi di Herder, secondo cui l’uomo è un «perpetuo sensorio comune»36, ma anche allo “schematismo” di Kant, se è vero che il corpo rappresenta la «dimensione costitutiva» di quell’«“arte recondita” che fa sorgere un senso nelle “profondità della natura”»37. Con la nozione di schema corporeo, non è solo l’unità del corpo a essere descritta in modo nuovo, ma anche, attraverso di essa, l’unità dei sensi e l’unità dell’oggetto. Il mio corpo è il luogo, o meglio l’attualità stessa del fenomeno dell’espressione (Ausdruck), in esso l’esperienza visiva e l’esperienza auditiva, per esempio, sono l’una pregnante dell’altra, il loro valore espressivo fonda l’unità antepredicativa del mondo percepito e, attraverso di essa, l’espressione verbale (Darstellung) e il significato intellettuale (Bedeutung). A proposito di questa distinzione fra Ausdruck, Darstellung e Bedeutung, Merleau-Ponty afferma di averla prelevata dal volume III delle Filosofia delle forme simboliche di Cassirer38. Egli articola così il rapporto fra i tre termini in questione. Assegna allo Ausdruck, in quanto significato incarnato, un ruolo fondativo rispetto alla sfera della Bedeutung, in quanto significato concettuale, precisando che mentre del primo si dà percezione attuale, della seconda, invece, no. Motivo per cui ad essa non può essere riconosciuta un’esistenza attuale. La Bedeutung poi è posta sullo stesso piano della Darstellung, in quanto, per “concetto”, Merleau-Ponty intende non solo «ciò che esiste per mera necessità logica», ma anche «ciò che viene semplicemente riconosciuto o designato»39. Nel compiersi del passaggio dallo Ausdruck alla Bedeutung prende forma, in tal modo, l’atto della designazione, inteso come espressione verbale (Darstellung) di un significato. Tale atto si presenta come un «movimento astratto» che, svincolandosi dal movimento intenzionale concreto della percezione, «non coglie l’oggetto», ma, indicandolo, ne restituisce solo l’essenza, data dalla sua «condizione di alienazione rispetto al soggetto»40. Accade qui che la sfera del significato, in quanto reificazione del percepito, non coincidendo più con la sfera del senso, in quanto unità pre-obiettiva del vissuto, si rende autonoma rispetto a quest’ultima. Proprio come l’atto di nominare, l’atto di mostrare presuppone che l’oggetto, anziché essere accostato, afferrato e inghiottito dal corpo, sia mantenuto a distanza […]. Parimenti, il movimento astratto […] delinea nello spazio un’intenzione gratuita che si dirige verso il corpo proprio e lo costituisce come oggetto anziché attraversarlo e raggiungere le cose per suo tramite. Il movimento astratto è quindi abitato da una capacità di oggettivazione, […] che consiste nel trattare i dati sensibili come rappresentativi l’uno dell’altro, e come rappresentativi tutti insieme di un “eidos” […]. Se un essere è coscienza, è necessario che esso non sia altro che un tessuto di intenzioni. Se cessa di definirsi con l’atto di significare, questo essere ricade nella condizione di cosa41. Qui, «l’atto di significare» è identificato al tal punto con quell’orientamento intenzionale con cui la coscienza vivente esercita una “presa” diretta sull’oggetto che, venuto meno l’uno, si disgrega anche l’altro. È così che non si dà più un processo di “emergenza” del significato dal corpo, ma di «rigetto o espulsione» del primo da parte del secondo, attraverso un movimento, autoreferenziale e oggettivante, «eguale» ma «contrario a quello intenzionale». Il che ci conferma del fatto che l’intenzionalità, per Merleau-Ponty, dà non tanto l’oggetto come presenza, cosa che può fare solo la percezione, quanto la direzione verso di esso, «la vettorialità, il criterio per capire quale dei tanti oggetti forniti dalla percezione viene attualmente significato»42. In merito a questa «critica della funzione categoriale», Merleau-Ponty pensa che essa abbia la funzione di «rivelare, dietro all’uso empirico della categoria, un uso trascendentale», di ritrovare «dietro al giudizio di inerenza il giudizio di relazione, dietro la sussunzione, come operazione meccanica e formale, l’atto […] con il quale il pensiero investe l’oggetto del senso che si esprime nel predicato». Per lui, ciò che qui è in gioco è, infatti, il problema di «comprendere il modo in cui «il pensiero […] si lega con se stesso e realizza la propria sintesi». E questo perché l’essenza della coscienza è non solo «spontaneità», ma anche «sapere contratto» e «sedimentazione», nel senso che essa ha la naturale tendenza, oltre che a darsi come coestensiva al mondo, a «far essere di fronte a se stessa i propri pensieri come delle cose», a contare sui concetti e sui giudizi acquisiti come su «cose che sono là e si danno globalmente, senza che in ogni momento abbiamo bisogno di rifarne la sintesi». Ora, questa dialettica fra «spontaneità» e «sedimentazione», fra creatività immediata e movimento di «continua ripresa del fatto», è vista, da Merleau-Ponty, come un’articolazione del rapporto che, più in generale, vige fra silenzio ed espressione linguisticamente articolata e, più in particolare, fra «cogito tacito» e «cogito parlato», fra l’io come autopresenza silenziosa e l’io riflessivo e autocosciente, il quale converte la propria coscienza di sé «in enunciato e in verità d’essenza». Un rapporto – collocato dalla fenomenologia husserliana sotto il segno della Fundierung – in cui, se, da un lato, il fondato non può mai riassorbire il fondante, dall’altro, però, quest’ultimo è primo solo perché «si manifesta proprio attraverso il fondato»43. È così che per, Merleau-Ponty, il significato del motto fenomenologico che prescrive un “ritorno alle cose stesse” sta nella decisione di lasciarsi guidare da queste ultime, proprio nel modo in cui ci si danno e si manifestano, facendo sì che esse, letteralmente, “prendano la parola”44: parola che, perciò, è da sempre già iscritta nella polpa viva dell’esperienza prelinguisticapreriflessiva. preriflessiva. nella polpa viva dell’esperienza prelinguistica e preriflessiva.