Maria De Carlo
L’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già
domani ciò che si è frapposto potrebbe ritrarsi
Martin Buber
Come porsi di fronte al male? L’uomo è invitato a una “ritirata strategica”, così come titola un racconto chassidico: Rabbi Abraham disse: «Dalle guerre di Federico, re di Prussia, ho imparato un nuovo modo di servire. Per attaccare il nemico, non è necessario aggredirlo frontalmente. Infatti, se uno si ritira, può circondarlo mentre avanza e attaccarlo alle spalle, costringendolo quindi alla resa. Quel che si deve fare non è attaccare direttamente le forze del male, ma ritirarsi vicino alla sorgente del potere divino, e di lì accerchiare il male, piegarlo e trasformarlo nel suo contrario»”[1].
Si tratta dello stesso monito che secondo gli studiosi viene da tutta la Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) e si può racchiudere nel comandamento: “Sta lontano dal male e fa il bene”. Religione ed etica vanno a braccetto per Buber, che vede il presupposto di questa unione nella “concezione secondo cui l’uomo, in quanto creato da Dio, è stato da lui posto in una indipendenza che permane inalterata da allora, e secondo cui l’uomo in questa indipendenza sta di fronte a Dio. Così l’uomo partecipa in assoluta libertà e spontaneità al dialogo fra i due, che forma l’essenza dell’esistenza”75 e così in questa piena indipendenza, l’uomo viene posto di fronte a due vie76: sta a lui scegliere.
Questa scelta tanto più sarà libera e autentica quanto non farà leva sulle sole forze dell’uomo. Per il pensiero ebraico la non-direzione, il male, può essere ricondotto a Dio solo attraverso la Torah: “Se Dio creò le inclinazioni malvage, creò anche la Torah come suo rimedio”. I saggi dicono che la Parola, la preghiera e l’azione sono le tre colonne che sorreggono il mondo[2]. Per l’ebreo la Torah è la via, il cammino per la liberazione da ogni forma di idolatria e di schiavitù poiché essa favorisce l’unificazione dell’individuo “verso il bene”. Un cammino che inizia dal cuore dell’uomo colpito (se si lascia colpire) dalla domanda di Dio, quella stessa che è rivolta ad Adamo: “Dove sei?”. Ma Adamo, tuttavia, si nasconde “per non dover rendere conto, e per sfuggire alla responsabilità della propria vita”[3], scrive Buber nel Cammino dell’uomo, evidenziando come il nascondersi dell’uomo a Dio porta inevitabilmente al nascondimento di se stessi.
Ma il cammino verso la scelta è possibile solo con la presa di coscienza del suo essere nascosto. Dunque è possibile solo attraverso il ritorno, che è al centro di tutta la concezione ebraica del cammino dell’uomo. Ciò significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo – in cui era sempre lui stesso la meta prefissata – trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare”[4]. Ed è un ritorno decisivo “solo se conduce al cammino”. Esiste infatti – spiega Buber – anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole”[5]. Ecco allora che per dirigersi verso il bene, verso Dio, secondo il proprio cammino, è necessario conoscere il proprio essere: “la conoscenza della propria qualità e della propria tendenza essenziale”. riecheggia in queste parole, nel socratico “conosci te stesso”[6]. E l’uomo conosce “il proprio sentimento più profondo solo nella forma della passione particolare, nella forma della “cattiva inclinazione” che vuole sviarlo” e, afferma l’autore, se la natura dell’uomo lo indirizza verso ciò che lo colma, “l’essenziale è che l’uomo diriga la forza di quello stesso sentimento, di quello stesso impulso, dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto: così troverà il proprio cammino”82. Libertà e responsabilità, dunque, sono le compagne dell’uomo che ha deciso di mettersi in cammino verso la direzione83.
la condizione dell’uomo, che è complessa, produce quella storia – dalla piccola alla grande – che necessita sempre di essere capita, reinterpretata e redenta. Non c’è storia senza l’uomo, non quello astratto, irreale, ma l’uomo concreto che cerca di affermarsi nella quotidianità del suo vissuto e lo fa non da solo, ma nella relazione con gli altri – nelle parole fondamentali delle coppie io-tu, io-esso. Infatti i grandi movimenti o le grandi strutture dipendono da questo uomo segnato dall’istinto del male e del bene in un ciclo continuo della storia dove l’uomo è chiamato a fare scelte. Il luogo della direzione non è astratto e non è intimistico, il compimento della propria esistenza avviene nel mondo e precisamente “là dove ci si trova”84. C’è un richiamo all’esistenza autentica, immediata, nei rapporti quotidiani con le persone e con le cose, da parte del filosofo, in un dialogo reciproco, altrimenti avremmo perduto l’occasione di un’esistenza compiuta: “Secondo il Baal-Shem, nessun incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un significato segreto. Gli uomini con i quali viviamo o che incrociamo in ogni momento, gli animali che ci aiutano nel lavoro, il terreno che coltiviamo, i prodotti della natura che trasformiamo, gli attrezzi di cui ci serviamo, tutto racchiude un’essenza spirituale segreta che ha bisogno di noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compimento”85.
Buber ci presenta una visione non frammentaria ma “intera” dell’esistenza dove gli avvenimenti non vanno attribuiti a fattori esterni all’uomo – Auschwitz e non Lisbona86, direbbe Jonas -, ma segnati invece dalle sue scelte compiute a seconda della direzione o non-direzione. Per questo l’uomo è chiamato alla responsabilità.
Il male, allora, è potenza che può essere messa a servizio del bene attraverso un processo di ascesa: il Rabbi disse: «Sta scritto: ‘Muoviamoci, partiamo, io camminerò al tuo fianco’. Così parla anche in gran segreto a ogni uomo l’inclinazione al male. essa cela infatti una tendenza al bene e vuole trasformarsi in esso con lo spingere l’uomo a vincerla e a farla diventare buona. Questa è la richiesta segreta che l’inclinazione al male fa all’uomo che tenta di sedurre, dicendogli: ‘Suvvia, abbandoniamo questa miserevole condizione e mettiamoci al servizio del Creatore, sicché anch’io possa elevarmi e salire assieme a te grado dopo grado, seppure in apparenza sembri che mi opponga a te, ti disturbi e ti ostacoli’». Perché ci possa essere un’anima unificata è necessario il ritorno che, come si è detto, è parola chiave di tutto il pensiero ebraico sul cammino dell’uomo. il ritorno “ha il potere – afferma Buber – di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio”[7]. Nulla a che vedere con un mero intimismo, al contrario l’uomo solo riappropriandosi di sé, solo e soltanto superando quel conflitto interiore fra i tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo – quello del pensiero, della parola e dell’azione[8] – quest’uomo concreto, immerso nel reale, riesce a instaurare relazioni autentiche e immediate anche con gli altri, ed è nel mondo che si gioca la sua e l’altrui santificazione: “chi va verso il mondo, va verso Dio”, afferma Buber. essere presenti nel mondo è un concetto altrettanto forte nel pensiero buberiano: “Chi si limita a ‘vivere interiormente’ il proprio atteggiamento, chi lo attua solo nell’anima, per quanto possa essere pieno di pensieri, è senza mondo; e tutti i suoi giochi, i suoi artifici, tutte le sue ebbrezze, gli entusiasmi e i misteri che accadono in lui, non sfiorano neanche la superficie del mondo. Fintanto che ci si libera esclusivamente all’interno del proprio io, non si può amare né ferire il mondo, il mondo non ci concerne. Soltanto chi crede al mondo stabilisce un contatto con il mondo stesso; e chi ci s’impegna, non può neppure rimanere senza Dio. Amiamo il mondo reale, che non si lascia mai sopprimere: “amiamolo realmente in ogni suo orrore, osiamo stendere su di lui le braccia del nostro spirito: allora le nostre mani incontreranno le mani che lo sorreggono”[9].
Come si è posto in rilievo, proprio nella relazione dialogica – nell’io-tu – l’uomo si realizza. una relazione, questa, segnata dall’amore: “Per chi sta nell’amore e in esso guarda, gli uomini si liberano dal groviglio dell’ingranaggio; i buoni e i cattivi, i savi e i folli, i belli e i brutti, l’uno dopo l’altro diventano per lui reali, diventano un tu, cioè un essere liberato, fuori dal comune, unico ed esistente di fronte a lui. in modo meraviglioso sorge, di volta in volta, l’esclusività – e così l’uomo può operare, aiutare, guarire, educare, sollevare, redimere. l’amore è responsabilità di un io verso un tu”[10].
Qui non si tratta di mero sentimentalismo, l’amore è per Buber una realtà ontologica, è qualcosa che realmente accade nello spazio tra l’io e il tu.
[1] id., Racconti chassidici, cit., p. 79.
[2] “rabbi Mendel diceva: «tre sono le colonne che reggono il mondo: legge, servizio e buone azioni. Con l’avvicinarsi della fine del mondo, le prime due si ridurranno, mentre solo le buone azioni aumenteranno. e allora si avvererà quanto sta scritto: ‘Sion sarà riscattata dalla rettitudine’»”, ibidem, p. 98.
[3] id., Il cammino dell’uomo, cit., p. 21.
[4] Ibidem, cit., p. 51.
[5] Ibidem, cit., p. 23.
[6] Buber fa una distinzione tra individualità, che si allontana dall’essere, e persona. il “conosci te stesso” per la persona significa: “conosciti
[7] M. Buber, Il cammino dell’uomo, cit., p. 51.
[8] l’autore afferma che “ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. in questo modo, infatti, la situazione tra me e gli altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più; quanto a me, nel mio sfacelo interiore, ormai incapace di controllare la situazione, sono diventato, contrariamente a tutte le mie illusioni, il suo docile schiavo. Con la nostra contraddizione e la nostra menzogna alimentiamo e aggraviamo le situazioni conflittuali e accordiamo loro potere su di noi fino al punto che ci riducono in schiavitù”. una riflessione che rinvia ancora una volta a “cominciare da se stessi”, e Buber lo fa attraverso una storia significativa: “alcune persone eminenti di israele erano un giorno ospiti di rabbi
[9] id., Il principio dialogico, cit., p. 127.
[10] Ibidem, pp. 69-70.