Pasquale Amato
[…] nessuno che sia nel possesso della ragione raggiunge una divinazione ispirata e verace, ma o quando nel sonno è impedita la facoltà dell’intelletto, o quando ha perduto la ragione per malattia o per qualche furore divino. Ma è dell’uomo sennato il ricordare e considerare le cose dette in sogno o nella veglia dalla natura divinatrice e ispirata, e il discernere col ragionamento tutte le immagini vedute, ricercando come e a chi annunzino un male o un bene futuro o passato o presente. (Platone, Timeo)
Nel VI sec. a.C., a Mileto, si compie quello che Vernant definisce il «miracolo greco»: in una cultura il cui riferimento fondamentale è il mito, religioso e letterario, si determina un’apertura, un passaggio che introduce in una dimensione nuova, quella della razionalità. “Il pensiero razionale ha uno stato civile; se ne conosce la data e il luogo di nascita: è nel VI secolo prima della nostra era, nelle città greche dell’Asia Minore, che sorge una forma di riflessione nuova, interamente positiva, sulla natura. Burnet […] nota: «i filosofi ionici hanno aperto la via che la scienza, poi, non ha avuto da far altro che seguire»“ (J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, p. 249).
Il processo di razionalizzazione ha avuto il primo impulso: si cerca di darsi ragione delle cose. L’indagine si concentra sulla physis, sulla natura, ne ipotizza il principio, l’archè; si tenta una lettura smitizzante del mito; si affronta l’insicurezza esistenziale spostando l’angolo visuale, facendo scendere gli dèi dall’Olimpo, facendoli diventare, come dice Jaeger, «dèi particolari, dèi dell’istante», dèi del quotidiano. Ma il pensiero è ormai avviato: il logos si evolve, prende forza. Si concettualizza il divenire, il finito, l’infinito, si approfondisce l’aspetto aritmo-geometrico della realtà, si definisce l’universo come armonia del numero. Dal piano cosmologico il pensiero si sposta su quello ontologico: ci si comincia a chiedere cosa significhi qual è la verità dell’essere, in che relazione siano essere e pensare. L’uomo finora considerato parte del tutto, cosa tra le cose, si pone finalmente in una dimensione individuale, in un rapporto «io e mondo»: il pensiero lo distingue, lo pone in primo piano, lo stacca dal resto delle cose. È dell’uomo l’esigenza del conoscere, la potenza del conoscere. E dunque: la conoscenza sta nel pensare o nel percepire, nella àisthesis o nel noèin, nella conoscenza sensibile, che è doxa, o nella conoscenza intelligibile? E l’anima, la psyche, in che rapporto è con il corpo: ne subisce e ne soffre i confini, o il corpo è per l’anima uno strumento sensibile, che le permette di relazionarsi con le cose? E il divino, il teòs, come e dove va collocato? E quale impulso ha avviato il divenire; e a cosa tende, quale scopo ultimo persegue?
“La nascita della filosofia appare […] solidale di due grandi trasformazioni mentali: di un pensiero positivo, che esclude ogni forma di soprannaturale e rifiuta l’assimilazione implicita, stabilita dal mito, fra fenomeni fisici ed agenti divini; e di un pensiero astratto, che spoglia la realtà di quella potenza di cambiamento che le attribuiva il mito” (J.P. Vernant, op.cit., p. 258).
In questo progressivo delinearsi di un pensiero nuovo, che costituirà le basi della cultura dell’Occidente, anche la riflessione sul sogno assumerà un carattere speculativo teorico, non più leggendo tale fenomeno come evento soprannaturale. Non bisogna dimenticare, nonostante ciò, che per il pensiero antico il sogno “non cessò mai di essere collegato a una dimensione etica e religiosa, come espressione misteriosa di facoltà misteriose insite nell’anima umana” (AA.VV., Il sogno in Grecia, Laterza, p. XXVII).
Del Corno afferma che la storia del sogno nel mondo antico è contrassegnata da due tendenze distinte e tuttavia complementari: “la credenza che il sogno possa preannunciare il futuro mediante un’immagine simbolica, la quale richiede dunque un’interpretazione; e d’altro lato il proposito di definire la sua natura e la sua origine (sia pure ancora in via metaforica, e nei limiti della prerogativa più rilevante per la mentalità arcaica, appunto il carattere profetico)” (D. Del Corno, introduzione a Artemidoro, Il libro dei sogni, Bompiani, Milano, 1985, p. XII).
Interessante è anche la distinzione che H.J. Rose espone nel suo Primitive Culture in Greece e che Dodds cita: “H.J. Rose distingue tre punti di vista pre-scientifici circa il sogno: a) «considerare realtà oggettiva la visione di sogno»; b) «ritenerla… cosa vista dall’anima, o da una delle anime, mentre si trova temporaneamente fuori del corpo […]; c) «interpretarla mediante un simbolismo più o meno complicato»“ (Eric R. Dodds, Modello onirico e modello culturale, in AA.VV., op.cit., p. 4).
Volendo, ancora, sintetizzare i contenuti che tipicamente il pensiero greco antico ha elaborato nella sua riflessione sul sogno, Guidorizzi insiste su aspetti “alquanto lontani dalla moderna percezione dei sogni: l’incubazione; la funzione mantica del sogno; i sistemi più conformi alla cultura greca arcaica, come quella di «doppio», di sogno mitico, di dream-visitation” (G. Guidorizzi, in AA.VV., op.cit., p. XXXI).
Ma al di là di quelle che sono le classificazioni di chi ha approfondito questo argomento, è probabilmente necessario abbandonare l’idea di una sistematicità, nel senso di un’evoluzione cronologica della riflessione sul sogno nella Grecia antica, accontentandosi di individuare tipi interpretativi e aspettandosi, nel succedersi dei momenti, di ritrovare letture di notevole rigore razionale, a volte sorprendentemente vicine ad un approccio psicanalitico, affiancate a interpretazioni di tipo soprannaturale. Freud stesso, a proposito dei primi pensatori greci, sostiene che una straordinaria varietà di contenuti e di impressioni che il sogno produceva rendeva difficile la formazione di una valutazione unitaria, mentre causava la classificazione dei sogni in numerosi gruppi e suddivisioni a seconda della loro importanza e verosimiglianza. Naturalmente, la posizione assunta dai singoli filosofi antichi nei riguardi dei sogni era connessa entro certi limiti al loro atteggiamento verso la divinazione in generale” (S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Newton Compton Italiana, p. 44).
Lo studio della speculazione platonica sul sogno porta alla stessa considerazione di fondo: l’approccio all’onirico in Platone non permette di seguire un filo unitario. Il fenomeno sogno risulta collocabile nella continua problematicità contestuale delle sue opere: ogni volta Platone ci proporrà contesti diversi all’interno dei quali metterà in questione il significato precedentemente affidato al sogno. “Di fatto Platone tenta parecchi approcci senza cercare di ricondurli all’unità di una definizione rigorosa. Perciò occorre riconoscere senz’altro la realtà di una certa incoerenza del pensiero platonico a questo riguardo, se si vuole esaminare a fondo, senza tradirli troppo, gli aspetti e le funzioni che il sogno ricopre all’interno della sua filosofia” (E. Vegleris, Platone e il sogno della notte, in AA.VV., op.cit., p. 103).
Eugénie Vegleris ci offre una lettura che individua, nella problematicità della riflessione platonica, diverse modalità di approccio al fenomeno del sogno notturno.
L’approccio descrittivo si esprime nel considerare che l’”essenza del sogno sta nella confusione fra la realtà sensibile e la sua apparenza a causa della somiglianza di questa con quella” (E. Vegleris, ivi, p. 105). È importante sottolineare che Platone rivolge la sua attenzione, in questo senso, sia al sogno notturno sia allo stato di veglia, considerando “sogno diurno” la condizione di “chi da sveglio confonde la bellezza in sé con la cosa bella” (E. Vegleris, ibidem), cioè di chi si lascia ingannare dall’esperienza sensibile, dalle apparenze, e perciò non giunge alla conoscenza. “Dunque […] ònar […] può denotare l’opinione falsa” o più semplicemente il racconto che deforma la realtà. Ònar e oneiròttein sono impiegati d’altro canto per indicare l’approccio, ancora confuso e parziale, ad una realtà” (E. Vegleris, ivi, p. 103). “Sognare non vuole dire che uno, sia dormendo sia vegliando, crede che un oggetto somigliante a una cosa non è simile, ma identico a ciò cui somiglia?” (Repubblica, 476c). Il sogno è dunque, sia di notte sia di giorno, doxa, e in quanto tale può portare all’errore, ma può portare anche alla verità. Nel Teeteto Platone traccia un netto confine tra sonno e veglia: “E ci rimane a dire dei sogni e delle malattie […] se ci sono sensazioni fallaci, quelle che si generano nei casi sopra detti sono certamente le più fallaci di tutte” (Teeteto, 157e-158a). Ma leggendo dal Menone “- Dunque in chi non sa, intorno alle cose che non sa, vi sono opinioni veraci che ad esse si riferiscono? – Sembra. – E ora in lui, come un sogno, sono state suscitate queste opinioni” (Menone, 85c) , notiamo un accostamento tra “opinioni veraci” e sogno. E infine, nel Fedone: “nella mia vita passata, mi capitò, spesso, di sognare il medesimo sogno, ora sotto una forma ora sotto un’altra, che mi ripeteva sempre la medesima cosa: «Socrate, componi e pratica musica!» […] mi parve opportuno, nel caso che il sogno mi comandasse di fare proprio questa musica nel senso comune del termine, di non disubbidirgli e di farla, perché era più sicuro non andarmene prima di essermi liberato dallo scrupolo, facendo poesie e ubbidendo a quel sogno” (Fedone, 60e-61a). E in quest’ultimo passo forse è la chiave: Socrate, il vero filosofo, riesce a leggere i propri sogni fino a capire il messaggio che essi gli offrono.
La Vegleris ci fornisce ulteriori elementi nel porre in parallelo il sogno con le considerazioni platoniche sull’artista. Platone, nella Repubblica, considera l’opera d’arte come imitazione della realtà sensibile, e in quanto tale lontana di tre gradi dalle Idee (di cui la realtà sensibile è a sua volta imitazione): l’arte è dunque doxa. Ma anche il sogno è imitazione della realtà sensibile, e quindi anche lo stato onirico è uno stato doxastico, opinativo.
Opera d’arte e sogno, dunque, costituiscono messaggi che possono portare, solo attraverso la corretta interpretazione, all’essenza ideale di cui sono imitazione.
Eraclito aveva detto: “il mondo di chi è sveglio è comune a tutti gli uomini; ma il mondo di chi sogna è proprio del soggetto”, decretando cosi l’egocentricità del sogno. Platone, che accentua l’individualità del sogno, arriva, nella dimensione psico-fisiologica che la Vegleris individua in due ulteriori tipi di approccio, a conclusioni che potremmo riscontrare vicine ad una visione psicanalitica.
Nel descrivere, nel libro IX della Repubblica, l’uomo tiranno, all’interno di un discorso connesso con la definizione di una scala sociale riferibile a una distinzione della personalità naturale degli individui, porta a riconoscere che lo stato della irrazionalità appartiene a tutti: “Ciò che vogliamo constatare invece è che in ciascun individuo esiste una data specie di appetiti, tremenda, selvaggia e contraria alla legge: anche in taluni di noi che passano per persone molto moderate. E questo si rende manifesto appunto nel sonno” (Repubblica, 512b). Il bestiale, il ferino, il sensuale, il lussurioso, questi stati abnormi che delineano il momento dell’alogico appartengono a tutti noi, perfino al filosofo, anche se questi ha una maggiore padronanza di questo aspetto della personalità grazie alla cura della propria ragione.
E a questa irrazionalità, espressione dell’anima concupiscente, Platone assegna una collocazione fisiologica (il fegato). Nel ricostruire la dimensione del corporeo, in esso colloca le funzioni delle tre anime, assegna loro un luogo proprio, distinguendo un momento pineale (anima razionale), un momento pettorale (anima irascibile), un momento viscerale (anima concupiscente).
La ragione ha comunque il sopravvento sulle altre funzioni, e l’anima concupiscente, l’irrazionalità, non avrebbe altro modo di manifestarsi se non in sogno. “Si potrebbe quasi dire che l’anima concupiscente sogna continuamente, dando al fatto di sognare il senso più vasto di accettazione passiva di immagini confuse” (E. Vegleris, ivi, p. 115).
“Posta al di sopra dell’ombelico, l’anima concupiscente si trova separata dalle altre due dalla parete del diaframma” (E. Vegleris, ibidem), e “abitando quant’è possibile lontano dall’anima deliberante” (Timeo, 70e), quindi non ha rapporti con l’anima razionale. Ma Platone nel Timeo afferma che il fegato, luogo dell’irrazionale, viene irraggiato dalle “riflessioni” dell’intelletto e, conseguentemente, nascono quelle immagini oniriche che sono i riflessi della ragione sul desiderio.
Traducendo in termini più attuali, durante la veglia siamo in uno stato di autocontrollo razionale, ma nel sonno l’abbandono ci fa “venir fuori”. E quindi, Platone afferma, interpretando il sogno entro nell’individuale, approfondisco la conoscenza della personalità di un individuo, vado a leggere quegli aspetti dell’alogico che in ognuno sono presenti e che solo in sogno si manifestano.
Dal punto di vista fisiologico, ancora, rifacendosi alla tradizione medica ippocratica, lo stato fisico del corpo (l’aver mangiato troppo o troppo poco, l’essere particolarmente stanchi, l’aver mangiato “sardine salate” come diceva Freud) diventa una fonte di stimoli per l’attività onirica. Quindi, il sogno è lo specchio della psiche e, ancora una volta, Platone riconosce al filosofo quello stato privilegiato che gli permette, attraverso il canale del sogno, di raggiungere le “viscere” della personalità di un individuo.
Nel parlare di “sogno oggettivo” , anche noto come dream-visitation, Guidorizzi dice che è “il riflesso di uno schema di pensiero che considerava il sogno e le al tre manifestazioni psichiche (quali la paura o l’ira) fenomeni esogeni all’anima, che intervenivano dall’esterno a perturbarla” (G. Guidorizzi, in AA.VV., op.cit., p. XIII). In questo tipo di sogno una figura onirica, che può essere un dio, uno spettro, un èidolon (immagine), comunque “esiste oggettivamente nello spazio ed è indipendente dal sognatore” (E.R. Dodds, in AA.VV., op.cit., p. 5) e viene considerata un veicolo rappresentativo di un messaggio divino.
È chiaro che per Platone l’oggettività così intesa del sogno è ormai superata, né, forse, egli crede effettivamente al carattere soprannaturale, divinatorio del sogno, ma, come per Freud, per Platone un aspetto del sogno è quello di rappresentare un momento collettivo che porta il sociale ad entrare nell’individuo e a manifestarsi, poi, oniricamente. Quindi, se credenza sociale è che il sogno rappresenti il dio che si esprime, i soggetti vivono questo momento. Socrate stesso, nel passo dal Fedone già citato (60e-61a), ascolta messaggi divini in sogno, ma anche nell’Apologia, dove spiega la sua missione fra gli ateniesi dicendo “quanto a me io affermo: è un dovere che la divinità mi ha prescritto con oracoli, sogni, con ogni mezzo di cui un divino destino abbia mai usato per imporre una cosa a un uomo” (E. Vegleris, ivi, nota 40, p. 120).
Ma, in quello che la Vegleris definisce l’approccio metafisico, ancor più importante è il riferimento a Socrate che rappresenta, come personificazione della saggezza e della filosofia, quella consapevolezza, quelle facoltà conoscitive particolari che fanno dell’interprete dei sogni, non più un indovino (mantis) che in uno stato di inconsapevole abbandono traduce il messaggio onirico, ma un prophetài, non un “ciarlatano fuori del tempio” (Platone si riferisce evidentemente agli indovini dei templi come quello di Asclepio) , ma il filosofo, il profeta, depositario della necessaria consapevolezza.
È ora possibile fare un tentativo di sintesi, cercare un bandolo in questa matassa di modalità platoniche di lettura del sogno.
A tutti gli uomini appartiene il momento alogico; a pochi appartiene il momento della consapevolezza. Il sogno è una preparazione alla scoperta: la realtà intelligibile è coperta di veli, ogni tanto riusciamo a toglierne uno e la verità, come il sole nel mito della caverna, ci acceca. Il sogno è uno degli strumenti attraverso i quali captiamo messaggi che ci indicano, in maniera simbolica, la verità. È il segno di una vitalità che continua nel sonno, è uno stato privilegiato che offre la possibilità di leggere quel mondo dell’intelligibilità presente dentro il sé. Se abbiamo consapevolezza, se abbiamo dominio dei nostri istinti più bassi, possiamo avere la capacità di interpretare questi messaggi, che siano essi soprannaturali, che siano psicologici, che siano fisiologici.
Ma rileggiamo il Fedone. In questo dialogo, Platone, ponendo le basi dimostrative dell’immortalità e dell’immaterialità dell’anima in contrapposizione alla transitorietà del corporeo, prepara le argomentazioni che lo porteranno poi, nel Timeo, a riconoscere fisiologicamente una corporeità psichicizzata. In più, rinforzando la concezione del processo anamnestico, già descritto nel Menone, come processo di verifica e di recupero di quella conoscenza che è dentro di noi, pone le basi per una definizione dell’ònar come determinazione psichica che si manifesta attraverso funzioni corporee.
Il sogno, possiamo ora ben dire, è immagine di questa immaterialità di cui l’anima è espressione nel corpo. Il filosofo, che rappresenta il momento logico, la consapevolezza continua, la padronanza conoscitiva, ha il compito privilegiato di interpretare il sogno.
E Socrate, il Filosofo, si trova in questo dialogo ad affrontare l’interpretazione di sogni che lo spingono a fare musica (“nella mia vita passata, mi capitò, spesso, di sognare il medesimo sogno, ora sotto una forma ora sotto un’altra, che mi ripeteva sempre la medesima cosa: «Socrate, componi e pratica musica!»“ (Fedone, 60e-61a)); in un primo momento egli si crede esortato a continuare a fare filosofia (“Musica altissima, la filosofia, orchestrazione di problemi, dubbi, ragionamenti, soluzioni; diversa dalla poesia, musica del popolo, secondo Platone, favola o racconto, che diletta e accende passioni a scapito della verità” (M.F. Sciacca, Platone, Marzorati, Vol. I, p. 190, nota 5)), ma poi capisce che la musica a cui deve rivolgersi è la poesia (“mi parve opportuno, nel caso che il sogno mi comandasse di fare proprio questa musica nel senso comune del termine, di non disubbidirgIi e di farla, perché era più sicuro non andarmene prima di essermi liberato dallo scrupolo, facendo poesie e ubbidendo a quel sogno” (Fedone, 60e-61a).
Socrate, il filosofo, interprete privilegiato del sogno, di questo momento di passaggio tra il reale e il non reale, tra la doxa e la alètheia, tra il corporeo e l’immateriale, ha quella padronanza conoscitiva che gli permette di attraversare quella dimensione di inconsapevolezza e, insieme, di consapevolezza che il sogno rappresenta, ma infine si rende conto che la poesia, in quanto atto creativo, è un necessario momento di sperimentazione di quelle verità che appaiono non vere nel sogno.
Quindi la poesia e il mito, in quanto atti poietici, hanno un’importante funzione per la ricerca della verità: Platone, forse, ci vuole dire che “la filosofia, se vuole comprendere qualcosa delle realtà che sfuggono alla ragione, deve rinunciare al logos per ricorrere al mythos” (E. Vegleris, ivi, p. 113). E opportunamente la Vegleris aggiunge: “si potrebbe affermare che il sogno del saggio è il mito del filosofo” (E. Vegleris, ibidem).
Il sogno è dunque, per Platone, atto psichico che porta alla luce ciò che il filosofo intuitivamente sente dentro di sé. Tradotto nell’atto crea ti vo della poesia, esso permette una sperimentazione fattiva, importante e verificabile della verità.
Bibliografia
AA.VV., Il sogno in Grecia, Laterza, Bari 1988
Artemidoro, Il libro dei sogni, Bompiani, Milano 1985
Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, Newton Compton Italiana, Roma 1970
Platone, La Repubblica, fotocopie del corso
Platone, Teeteto, fotocopie del corso
Platone, Timeo, fotocopie del corso
Giovanni Reale, a c. di, Platone – Menone, La Scuola, Brescia 1986
Giovanni Reale, a c. di, Platone – Fedone, La Scuola, Brescia 1985
Michele Federico Sciacca, Platone, Marzorati, Milano 1967
Jean Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino 1978