a partire da una ateologia
Pasquale Amato
3. Finitudine e Colpa (III)
3.1. L’uomo fallibile (II)
3.1.1. La sintesi trascendentale
Il primo momento, la sintesi trascendentale, getta il ponte che abbiamo visto necessario alla trasposizione del patetico nel filosofico, prima individuando, come punto di avvio, l’indagine sulla conoscenza, quindi approfondendo la sproporzione tra conoscere e determinare implicita nel fatto che il potere di conoscere viene esercitato sulla cosa, così come è sulla cosa che la riflessione trascendentale rileva la possibilità della sintesi. Sono proprio le sue caratteristiche di «sintesi proiettata al di fuori, nel mondo, nella struttura dell’oggettività che essa rende possibile»[1] a ridurre la connotazione del potere della sintesi trascendentale ad una “coscienza” che non è, però, coscienza di sé.
La sintesi avviene ad opera dell’enigmatico termine medio della “immaginazione trascendentale”, in virtù della quale l’uomo opera mediazioni per giungere alla costituzione della cosa in quanto «può apparire e essere detta, può sollecitarmi nella mia finitezza e prestarsi al discorso dell’essere razionale»[2]. Questa coscienza che non è ancora coscienza di sé produce, secondo Ricœur, la sintesi del senso e dell’apparenza. La costituzione dei due termini passa attraverso la serrata disamina da parte di Ricœur della finitezza dell’uomo letta nel suo essere prospettiva, punto di vista soggettivo. La finitezza della prospettiva è violabile in forza della parola, della possibilità, cioè, «di dire il punto di vista»[3]. La parola, “finita” se considerata come significazione della percezione, diventa lógoV aristotelico, verbo, quando si rivela possibilità di affermare o negare, estensione della volontà di fare o non fare, fino a delineare i caratteri dell’affermazione umana che si esprime nella correlazione tra il verbo, oggettivo e significante, e l’affermazione, soggettiva e volontaria, cioè, come Ricœur ci ricorda, nella husserliana coppia noesis–noema. In altri termini, la dialettica tra finito e infinito si prospetta come sproporzione tra il limitato momento oggettivo del verbo, conforme ai confini dell’intelletto, e lo sconfinato momento soggettivo in cui la volontà è “padrona”, parafrasando Aristotele, anche di negare il vero oltre che affermarlo, o di negare il falso.
3.1.2. La sintesi pratica
Individuata l’«ossatura astratta del mondo della vita»[4], si può progredire nell’indagine accedendo alla questione della totalità, resa filosofica, e perciò problematica, dalla riflessione trascendentale. Oggetto della sintesi pratica non è più la cosa, ma la persona, le cui implicazioni di finitezza e infinità, il carattere e la felicità, sono comunque estensioni pratiche delle rispettive nozioni trascendentali di prospettiva e di senso.
La sintesi ci si ripropone in una sproporzione.
Il carattere, finitezza pratica, destino immutabile ed ereditato dalla persona, si pone come restrizione della possibilità di apertura illimitata ed universale dell’uomo: «il mio carattere è l’origine radicalmente non scelta di tutte le mie scelte»[5].
La possibilità, per il volere umano, di inventare l’idea di totalità, sottopone l’agire alla tensione estrema tra finitudine del carattere e infinito della felicità. Quello che non è dato in nessun atto, è solo indicato «in una coscienza di direzione»[6], in un istinto che mi proietta verso la totalità, che mi «assicura che io sono diretto verso quella stessa cosa che la ragione esige»[7], che mi garantisce la coincidenza tra la mia destinazione e la felicità.
Ora, così come la cosa si costituisce nella sintesi nascosta dell’immaginazione, la persona è luogo di sintesi tra carattere e felicità. È la persona «il Sé che mancava alla coscienza in generale, reciproco della sintesi dell’oggetto»[8], un sé veduto ma non vissuto ancora, «un progetto che io mi rappresento, mi oppongo e mi propongo […] che io chiamo l’umanità; non il collettivo di tutti gli uomini, ma la qualità umana dell’uomo»[9].
Il vissuto nel quale la persona si costituisce è individuabile, sostiene Ricœur, «in un sentimento morale specifico, che Kant ha chiamato rispetto»[10]. Il rispetto è l’intermediario paradossale che nella persona opera la sintesi di carattere e felicità; chiave di una inerenza doppia della persona con la propria sensibilità e con la propria ragione, il rispetto produce il paradosso di un’obbedienza e di una concomitante sovranità, un contrasto che costituisce la fragilità dell’uomo.
[1] ivi, p. 89.
[2] ivi, p. 112.
[3] ivi, p. 98.
[4] ivi, p. 121.
[5] ivi, p. 141.
[6] ivi, p. 148.
[7] ivi, p. 149.
[8] ivi, p. 149.
[9] ivi, p. 150.
[10] ivi, p. 153.