Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 8

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Finitudine e Colpa (II)

 

3.1. L’uomo fallibile (I)

Prima tappa del lavoro ricœuriano su Finitudine e Colpa è lo sviluppo degli spunti teorici che portano a definire il concetto di fallibilità. Siamo ancora, ci precisa Ricœur, entro i confini di una riflessione pura che tiene conto dello sfondo di sproporzione caratteristico dell’uomo, di una certa costituzionale «non coincidenza con se stesso»[1].

Muovendo dal «paradosso cartesiano dell’uomo finito-infinito»[2] e depurandolo dall’implicita obiettivazione, la ricerca individua la realtà umana dell’essere «più grande e più piccolo di se stesso»[3] in una posizione di intermediarietà e, dunque, non in una regione ontologica sita tra finitezza e infinito, ma nell’esistenza fatta di mediazioni in virtù della quale l’uomo «è misto»[4].

I concetti di fallibilità, di sproporzione, di intermediario, la cui concatenazione può essere elaborata solo su una piena considerazione della polarità finito-infinito, ci conducono verso una antropologia filosofica che, non potendo – come sappiamo – procedere dal semplice al complesso, deve poter attingere ad una visione che sia, di per se stessa, già una visione globale degli aspetti della sproporzione dell’uomo: la riflessione si presenterà allora come «elucidazione filosofica»[5] di una precomprensione, di una comprensione pre-filosofica. La riflessione deve procedere «per elucidazione seconda di una nebulosa del senso che comporta anzitutto un carattere prefilosofico»[6], e dunque la filosofia non è cominciamento radicale, se ci riferiamo alle origini, ma «può esserlo quanto al metodo»[7].

È una pre-filosofia dell’uomo fallibile quello che Ricœur chiama il «patetico della “miseria”»[8], indicando proprio nel pathos il motivo di fondo di questo pensiero che legge in chiave ontica la sproporzione e l’intermediarietà dell’uomo. La miseria rappresenta, per esempio nei miti di Platone, la perplessità costitutiva dell’anima che, non essendo l’Idea pur essendo quel che più si avvicina ad essa, «è in travaglio in quanto all’essere»[9] e cerca.

Rivolgersi al prefilosofico significa rivolgersi al mito, con la consapevolezza di dover poi procedere ad una «riduzione del patetico […] mediante una riflessione di tipo “trascendentale”»[10] che risalga alle condizioni di possibilità partendo, non da me, ma dall’oggetto. Il termine riduzione si riferisce, ci ricorda Ricœur, alla «ricchezza di senso a cui la riflessione non può giungere»[11] e che è propria, invece, della precomprensione e quindi del mito, nonostante – o in virtù del fatto che – il mito stesso sia «la miseria della filosofia»[12]. Ma non è abbastanza: il patetico della miseria, insiste Ricœur, è il limite cui la riflessione pura tende e che, irraggiungibile, la renderebbe comprensione totale.

L’analisi della fallibilità, che alla riflessione trascendentale – per la quale il miscuglio sarà sintesi – affianca una riflessione sull’azione e sul sentimento, consiste « nel colmare progressivamente il divario tra patetico e trascendentale, nel recuperare filosoficamente tutta la ricca sostanza che non passa nella riflessione trascendentale fondata sull’oggetto»[13]. L’obiettivo è il limite estremo cui la riflessione può condurre, in vista della seconda fase che si prospetta come tentativo di cogliere, nell’esegesi della simbologia del servo arbitrio, quel sovrappiù di senso offertoci dalla precomprensione.

È interessante e suggestiva la lettura che Ricœur propone del Convito, del Fedro e della Repubblica, i tre miti platonici nei quali egli sostiene sia già presente «tutta la precomprensione della “miseria”»[14]. Possiamo apprendere, in questi che sono racconti dell’anabasi, dell’ascesa travagliata dell’anima verso l’essere, come, da figure allegoriche che propongono l’animo come funzione di mezzo tra ragione e desiderio, si passi al mito vero e proprio, in cui il miscuglio offre lo spunto per raccontare la genesi dell’intermediarietà. Ed ecco, per esempio, che la “statica” del ó – l’animo – si trasforma nella “dinamica” del mito della biga alata, nel Fedro, in cui la “miseria” – che si delinea indifferenziatamente come finitudine e come colpa – è il nucleo di una fragilità insita nel miscuglio, nella commistione dell’anima, che ne determina poi la caduta. Il passaggio da “mito della fragilità” a “mito della caduta” richiama la visione del male come insorgenza, come salto, come caduta – appunto – da un’originaria condizione di innocenza dell’uomo.

Un ulteriore stimolo a «comprendere la fallibilità e, comprendendola, articolare in figure distinte la nebulosa della “miseria”»[15], ci viene dai due infiniti pascaliani, il tutto e il nulla, intesi come fine delle cose a cui tutto tende e nulla da cui è tratto l’uomo. Pascal ci aiuta a cogliere un’altra prospettiva della sproporzione attraverso questa incapacità di comprendere e «di inglobare il principio e la fine»[16], ma aggiunge anche l’elemento nuovo della dissimulazione, del divertissement, quella sorta di distrazione che scaturisce dalla sproporzione stessa e che porta l’uomo ad eludere, nel nascondere e nascondersi la propria condizione miserabile, il compito di conoscersi.

Il percorso che ci conduce al concetto di fallibilità attraversa due momenti di sintesi, trascendentale e pratica, il primo rivolto alla delineazione della struttura astratta sulla quale la tematica della sproporzione e dell’intermediario trova consistenza filosofica, l’altro teso a vivificare lo statico universo delle cose definito dal primo, colmando la mancanza di tutte le sovrastrutture e i valori di carattere pratico implicati nella nostra esistenza, con «tutti gli ostacoli, tutte le vie, tutti i mezzi, gli attrezzi, gli strumenti»[17] che costituiscono un mondo e lo rendono più o meno vivibile.


[1] ivi, p. 69.

[2] ivi, p. 70.

[3] ivi, p. 70.

[4] ivi, p. 71.

[5] ivi, p. 72.

[6] ivi, p. 73.

[7] ivi, p. 73.

[8] ivi, p. 73.

[9] ivi, p. 76.

[10] ivi, p. 73.

[11] ivi, p. 75.

[12] ivi, p. 75.

[13] ivi, p. 74.

[14] ivi, p. 75.

[15] ivi, p. 85.

[16] ivi, p. 83.

[17] ivi, p. 121.

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