Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 6

a partire da una ateologia

Pasquale Amato

2. Il volontario e l’involontario (IV)

2.2. Decidere, agire, consentire (III)

2.2.4. La negazione

Nel guardare all’uomo percepiamo una lacerazione sempre dolente che sembra corrispondere al momento in cui, pensando al mistero dell’unità di anima e corpo, lo scopriamo imprendibile. Ma che il nostro pensare sia la causa di questa profonda ferita in noi è una semplificazione del problema: una segreta lesione dell’essere è inscritta già nell’esistere dell’uomo.

La strada finora percorsa ci ha condotto alla soluzione di un problema, non di esistenza, ma soltanto di riflessione: cercare nella soggettività la comune misura fra libertà e necessità non è ancora la conciliazione cui aspiriamo. Non solo: la distinzione, che è anche spaccatura, tra anima e corpo, ci rinvia inevitabilmente alla negazione reciproca di libertà e necessità.

Il consentimento, che è accettazione di sé e della propria umana condizione, comprende sempre il momento della negazione. La filosofia deve essere, secondo Ricœur, «meditazione sul sì e non astiosa accentuazione del no»[1], eppure è necessario affrontare il momento negativo per poter coltivare la speranza di superarlo.

La volontà è anche nolontà, o, se si vuole, il Cogito è anche passione oltre che azione: due modi per dire che la coscienza, che è il rivelatore della negazione, scopre che la sua libertà è negata e negante già sul nascere. La libertà, infatti, subisce il non-essere della necessità e, nello stesso tempo, lo rifiuta.

La negazione subita determina la tristezza, nelle forme legate alla finitezza, all’oscurità dell’inconscio, alla contingenza della vita. Io soffro, in quanto uomo, il mio essere «prospettiva finita e parziale sul mondo e sui valori»[2]; accuso la condizione, costante nella sua precarietà, di «cavaliere sul punto d’essere disarcionato»[3] dal mio inconscio, umbratile e imprevedibile destriero; subisco la contingenza di una vita che «riassume tutto ciò che non ho scelto e tutto ciò che non posso cambiare»[4].

In più, convivo con la certezza di dover morire. Certezza che non mi si rivela, però, attraverso un sentire: la scopro, invece, conoscendone dall’esterno l’irrecusabilità.

L’idea della morte è, infatti, interamente appresa dall’esterno; il Cogito, non potendone fare esperienza, non ne contiene l’essenza: in rapporto alla mia vita, la morte è un’irruzione, è «l’accidente sopraggiunto, ove farò quel passo incommensurabile da qualcosa a niente»[5].

Ricœur paragona l’esperienza del morire alla «parola che ho sulla punta della lingua: sono sul punto di scoprirla, e sempre essa mi sfugge»[6]. Egli ci convince che, non avendo un equivalente soggettivo dell’idea della morte, la coscienza fonde la conoscenza di tale idea all’esperienza della contingenza, e dunque scambia la tristezza della contingenza (eminentemente soggettiva) con l’angoscia della morte (che ne è un equivalente oggettivo).

Il rifiuto voluto è, d’altra parte, il “no” come risposta della libertà: il suo desiderio di totalità nega i limiti del carattere; il desiderio della trasparenza totale si oppone alle tenebre dell’inconscio; il desiderio dell’auto-posizione è il rifiuto della passività della contingenza. Questi tre “no” sono i corni di un rifiuto dissimulato in un’affermazione prometeica di sovranità, la cui misura è dismisura.

Le pretese della libertà titanica sono le basi dell’idealismo, inteso come «filosofia della coscienza trionfante»[7]. Quando si riconosce il rifiuto sotto le spoglie illusorie del desiderio di auto-posizione, esso si trasforma immediatamente in disperazione. È allora che la negazione assume la posizione di sfida e disprezzo che porta a considerare assurda, vile e bassa la condizione umana.

A questo punto, nel constatare che il suicidio è l’unica azione totale di cui l’uomo sia capace, perché gli permette di sopprimere ciò che non può porre, Ricœur contrappone ad esso una forma alternativa e propositiva di rifiuto – rispetto al quale il suicidio è evasione – che si esprime con il «coraggio di esistere nell’assurdo e di fargli fronte»[8].

È di nuovo il consentimento che, pur riconquistato sul rifiuto, «non lo rifiuterà, ma lo trascenderà»[9].

 

2.2.5. La speranza

Ci piace, prima di concludere questa sintesi de Il volontario e l’involontario – letto e riletto con crescente meraviglia -, soffermarci sulle ventisei righe del paragrafo “Consentimento e speranza”, preparato dagli accenni allo stoico consentimento imperfetto e all’orfico consentimento iperbolico, l’uno indugiante sull’orlo dell’ammirazione, l’altro completamente immerso nella contemplazione ammirata di una natura cifra della Trascendenza.

Ricœur ha pressoché esaurito il suo intento; la descrizione pura del nostro essere liberi nella contingenza è stata sviluppata fino a condurre noi lettori nel vivo del discorso sul consentimento, l’implicazione umana più difficile da accogliere perché esigente di un’ardua capacità di equilibrio, di mediazione, di umile e, al tempo stesso, coraggiosa accettazione.

L’uomo Ricœur, ora, pur nei termini del filosofo che è, solidarizza con noi, dando voce al dubbio che sembra aver intuito nei nostri pensieri, facendolo suo: «Chi può dire sì fino in fondo e senza riserve?»[10].

Eppure, conoscevamo già la risposta: nessuno. Rimane la sofferenza, rimane il male, inintelligibili ma presenti a rendere impossibile questo sì pronunciato fino in fondo, questo abbraccio forte del consentimento e della necessità.

E allora l’invito è a capire che il consentimento, forse, è raggiungibile, non solo passando per la contemplazione, per l’ammirazione delle meraviglie della natura, ma anche coltivando la «speranza che attende un’altra cosa»[11].

Questa proposta comporta un modo nuovo di leggere il consentimento e la Trascendenza in esso implicata: il mondo, infatti, è tutt’altro che la Trascendenza, pur essendone un’analogia, e alla possibilità di ammirarlo va quindi affiancata la necessità della speranza. Ricœur ci offre, a rafforzare il senso, questa suggestione: «L’ammirazione, canto del giorno, va alla meraviglia visibile, la speranza trascende nella notte»[12].

 

2.3. Conclusione

La libertà dell’uomo, conclude Ricœur, è soltanto «umana e non divina, […]non si pone affatto assolutamente perché non è la Trascendenza. Volere non è creare»[13].

La descrizione della soggettività, finalizzata alla comprensione della reciprocità del volontario e dell’involontario, assume idee-limite di libertà che non sono un superamento della soggettività, ma si connotano come termini di contrasto. Ognuna di queste idee – che suppongono l’assenza di affettività, un corpo assolutamente obbediente, nessun limite del carattere – è però riconducibile all’idea-limite di una libertà che è creatrice, che è iniziativa assoluta e non-ricettività, che si autodetermina: è l’idea di Dio, grado-limite della libertà umana non creatrice.

La Trascendenza, in quanto vero Altro della soggettività, in quanto più che idea-limite, in quanto presenza, introduce nella teoria del soggetto la novità radicale della dimensione poetica.


Note

[1] ivi, p. 441.

[2] ivi, p. 442.

[3] ivi, p. 444.

[4] ivi, p. 445.

[5] ivi, p. 452.

[6] ivi, p. 455.

[7] ivi, p. 460.

[8] ivi, p. 461.

[9] ivi, p. 461.

[10] ivi, p. 475.

[11] ivi, p. 475.

[12] ivi, p. 475.

[13] ivi, p. 481.

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