Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 3

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Il volontario e l’involontario (I)

La riconversione ricœuriana si prospetta fin dall’inizio come riconquista totale del Cogito, inteso come esperienza che include volere e corporeità, intelligenza della libertà e natura necessaria. La prima tappa presenta, infatti, le strutture del volontario e dell’involontario considerate nella loro continua dialetticità, e le sottopone ad uno studio minuzioso che ne definisce le componenti come implicazioni di una libertà concretamente agita.

Obiettivo di questo esame è una comprensione delle articolazioni del volontario e dell’involontario attraverso una sorta di descrizione eidetica il cui metodo prende spunto dall’affermazione «Io mi comprendo innanzitutto come colui che dice “Io voglio”»[1]: la comprensione del volontario (funzioni di livello alto) conduce alla comprensione degli aspetti dell’involontario (funzioni di livello basso), grazie ad un capovolgimento della definizione psicologica di un soggetto che – in funzione di una spiegazione e non di una descrizione – partendo dalle sue componenti emotive considerate come funzioni di un primo livello, sovrappone ad esse funzioni di un livello più alto il cui insieme costituisce la volontà.

Una descrizione pura deve poter accedere a quella che Ricœur definisce l’ontologia fondamentale dell’uomo, cioè a quella condizione che corrisponde alla gamma di possibilità implicite nella nostra libertà (pur legata alla contingenza, pur limitata dal bisogno e dall’impotenza della finitudine, e tuttavia ispirata ad un infinito e verso di esso proiettata).

In altri termini, oggetto di studio sarà «l’io così come esso si dà, cioè come colui che incontra e subisce una necessità che egli non fa»[2].

Il compito è arduo e, come Ricœur ci fa osservare, paradossale: il nostro io, che tenta di far emergere le strutture originarie a partire dalle quali il conflitto tra volontario e involontario si articola, è lo stesso io in cui questa contesa è continuamente in atto; le strutture reciproche di volontario e involontario risultano «tanto di rottura quanto di congiungimento»[3]; esse non costituiscono un sistema, in quanto nessun processo logico permette di derivare l’una dall’altra.

Il culmine del paradosso sta nel contrasto della libertà e della inesorabile necessità, ed ecco che il mio intento analitico diventa un’ontologia del paradosso, possibile solo mirando al «mistero che io stesso sono»[4], al mistero di quel «patto originario della coscienza confusa con il mio corpo e il mondo»[5], non osservandolo come oggetto fuori di me, ma portandomi a coincidere con esso.

La speranza è, insomma, la tregua in una restaurazione che pacifichi «l’ontologia paradossale in una ontologia riconciliata»[6]: lo scopo di Ricœur è contribuire a che tale speranza sia viva.

 

2.1. La duplice astrazione

 

Ma perché sia possibile salvaguardare la intelligibilità delle funzioni volontarie e involontarie di cui l’uomo è originariamente equipaggiato, è necessaria una duplice astrazione: da una parte, la messa tra parentesi della colpa; dall’altra, la sospensione del discorso sulla Trascendenza.

La colpa produce, come sua estensione, la schiavitù delle passioni: la libertà schiava si riduce a doversi confrontare con una necessità non necessaria, fornendo un alibi all’io per revocare la propria responsabilità; ogni passione, in quanto vanità che rende indisponibile la libertà, è infelice, e apre un falso infinito, una tensione dell’anima verso un nulla progettato. Astrarre dalla colpa significa, dunque, escludere dall’analisi le complicazioni e l’inquinamento determinati dalle implicazioni di una libertà schiava delle passioni, attingendo così ai legami originari tra libertà e necessità, e, pur tenendo conto dei limiti insiti nella finitudine, facendo emergere «l’autentico infinito della libertà»[7] che, a detta di Cartesio, ci rende simili a Dio.

Ma, ancor più perentoriamente, Ricœur ci ricorda che, a differenza delle funzioni volontarie e involontarie, la colpa non è intelligibile. «La colpa è l’assurdo»[8]: è una caduta, un accidente che capita alla libertà, e, in quanto evento accidentale, una descrizione eidetica non può che prescindere da essa per non trasformarsi in una descrizione empirica.

Per tutelarsi dalla possibile obiezione che questo sia un pretenzioso tentativo di descrivere un’inaccessibile innocenza, Ricœur precisa opportunamente che le strutture di cui si elabora la descrizione «sono le possibilità fondamentali offerte ad un tempo all’innocenza e alla colpa»[9].

Se è vero, poi, che la colpa si comprende come innocenza perduta, come paradiso perduto, noi osserviamo che una mitica dell’innocenza fa da sfondo all’empirica della colpa, e possiamo dunque convenire che le funzioni volontarie e involontarie possono essere eideticamente descritte «come il registro comune di una natura umana che si modula in modo differente nell’innocenza mitica e nella colpabilità empirica»[10].

La proposta di un’empirica della colpa imprescindibile da una mitica dell’innocenza ci riconduce ora, in virtù di una intima affinità, al discorso sull’affermazione della Trascendenza.

Il perché della necessaria sospensione del discorso sulla Trascendenza appare chiaro nel momento in cui Ricœur ci mostra il legame sotterraneo tra l’immaginazione di un’innocenza perduta prima dell’inizio della storia e il mito escatologico della salvezza della libertà dell’uomo alla fine dei tempi: la liberazione finale da parte della Trascendenza si rivela la segreta speranza implicita nel mito dell’innocenza, perché «non vi è Genesi se non alla luce di una Apocalisse»[11].

La seconda astrazione, dunque, si mostra come una necessaria contropartita della prima: «prigionia e liberazione della libertà sono uno stesso ed unico dramma»[12].

Questi i presupposti per giungere ad una «prima rivoluzione copernicana»[13] che Ricœur sostiene possa restituire centralità all’uomo, inteso come soggetto integro nei suoi aspetti volontari e involontari, protagonisti della disputa paradossale all’origine della quale è necessario guardare per coglierne il mistero.

Bisognerà, successivamente, sciogliere le riserve, cancellare le parentesi tra le quali avevamo sospeso colpa e Trascendenza. Perché l’ontologia del soggetto sia compiuta, avverte Ricœur, si dovrà adottare un metodo nuovo, che permetta «l’accesso ad una sorta di “Poetica” della volontà, in accordo con le nuove realtà da scoprire»[14].

La descrizione tiene in sospeso la Poetica, astrae, cioè, dall’ordine della creazione; la poesia, invece, in quanto «arte di ammaliare il mondo della creazione»[15], sarà la chiave di questa «seconda rivoluzione copernicana»[16], che attribuirà il primato alla Trascendenza, pur non riducendo di nuovo l’essere ad oggetto.

[1] Ricœur P., Filosofia della volontà i. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, p. 9.

[2] ivi, p.35.

[3] ivi, p. 22.

[4] ivi, p. 23.

[5] ivi, p. 22.

[6] ivi, p. 23.

[7] ivi, p. 27.

[8] ivi, p. 28.

[9] ivi, p. 29.

[10] ivi, p. 29..

[11] ivi, p. 32.

[12] ivi, p. 32.

[13] ivi, p. 34.

[14] ivi, p. 33.

[15] ivi, p. 33.

[16] ivi, p. 35.

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