a partire da una ateologia
Pasquale Amato
- Finitudine e Colpa (VII)
3.2. La simbolica del male (II)
3.2.3. I miti del “Principio” e della “Fine”
Soltanto l’uomo moderno è nella condizione, forse privilegiata ma certo imbarazzante, di poter riconoscere come tale il mito. Egli vive il tempo che segue la “crisi” attraverso la quale mito e storia sono distinguibili, con il conseguente rischio, nota Ricœur, di cedere alla tentazione di una «radicale demitizzazione di tutto il nostro pensiero»[1]. L’alternativa alla demitizzazione è la demitologizzazione, il fare a meno del «falso logos del mito»[2], di quello pseudo-sapere (che si riscontra, ad esempio, nella lettura del mito come eziologia) rinunciando al quale è possibile riconquistare il mito come mythos.
Un’integrazione della dimensione mitica nel discorso filosofico richiede un disporsi all’esercizio esegetico e alla comprensione del mito come seconda stratificazione simbolica che va ad aggiungersi ai simboli primari.
Il mito stesso, in realtà, aveva fornito la materia da cui i simboli elementari erano stati estrapolati, e questo ci consente di comprendere come i simboli, primari e secondari, siano i mediatori attraverso i quali l’esperienza dell’impurità, del peccato, della colpevolezza si esprime: senza il linguaggio dei simboli tale «esperienza rimarrebbe muta, oscura, chiusa sulle sue contraddizioni implicite»[3].
Lo studio dei simboli mitici del male si articola nella messa in atto e nella verifica dei presupposti che Ricœur assegna alla loro specificità. Il primo riguarda l’archetipicità cui si eleva l’esperienza raccontata dal mito in modo da «includere l’umanità nel suo insieme in una storia esemplare»[4] il cui protagonista non sia più solo l’eroe, o il titano, o Adamo, ma l’“uomo” inteso come totalità, come esistenza, come «universale concreto»[5]. In tal senso, ricorda Ricœur, San Paolo dice che il peccato di Adamo è il peccato dell’uomo.
Il racconto mitico rende concreta l’universalità dell’uomo attraverso il movimento conferito all’esperienza che si rivela, non più riduzione al presente, ma sezione intermedia ed esemplare di una «storia essenziale della perdizione e della salvezza dell’uomo»[6], di un percorso compreso tra principio e fine del male.
La tensione a risolvere l’enigma di un uomo fondamentalmente innocente e destinato alla felicità, eppure esistenzialmente colpevole ed alienato, assegna al mito, secondo Ricœur, «una portata ontologica»[7] insita nel render conto del passaggio tra i due poli dell’enigma che, non essendo una transizione logica, può essere solo raccontato.
In questa «triplice funzione di universalità concreta, di orientamento temporale e infine di esplorazione ontologica»[8] è implicita l’irriducibilità del mito ad una semplice traduzione allegorizzante e la sua caratteristica di autonomia in forza della quale il mito «significa ciò che dice»[9].
Il tenace richiamo ricœuriano alla funzione simbolica di secondo grado del mito elude l’atteggiamento gnostico cui il mito stesso invoglia nell’esprimere quel problema del male che sembra essere «ad un tempo la più grande provocazione a pensare e l’invito più subdolo a sragionare»[10]. In questa continua sfida in cui la ragione sembra disporre di mezzi inadeguati ai suoi obiettivi, Ricœur sottolinea l’opportunità di porsi di fronte ad un mito che non sia storia o spiegazione, «ma apertura e scoperta»[11].
Per sua natura, «il mito è una parola e in esso il simbolo prende la forma del racconto»[12]: la fenomenologia della religione considera il racconto mitico come la formulazione verbale di un’esperienza vissuta prima di essere espressa, dando maggior peso all’azione rituale come rappresentazione più completa dell’azione totale in cui questa forma di vissuto si esprime; la simbolica del male, invece, tentando di risalire alla narrazione mitica partendo dalla coscienza pre-narrativa, certa che «in questo passaggio […] si concentra tutto l’enigma della funzione simbolica del mito»[13], considera la forma di vita cui la religione allude come esperienza non vissuta ma solo “significata” nel mito o nel rito. Alla fenomenologia della religione, ammette Ricœur, bisogna riconoscere il merito di aver individuato «una struttura mitica che sarebbe la matrice, propria ad una mitologia o ad un’altra, di tutte le figure e di tutti i racconti determinati»[14]. La significazione di fondo di tale struttura è una globalità, una pienezza, una totalità d’essere solo intenzionale, prospettata, e non data come vorrebbe la fenomenologia della religione, l’«intuizione di un elemento cosmico globale, dal quale l’uomo non sarebbe separato, […] [in una] pienezza indivisa, anteriore alla scissione del sovrannaturale, del naturale e dell’umano»[15].
Dunque, secondo Ricœur, «l’unità, la conciliazione e la riconciliazione devono essere dette e agite»[16] perché l’uomo del mito, che è già «l’uomo della scissione»[17], possa sopportare l’angoscia della perdita di quella integrità che il mito indica come «stabilita, perduta e ristabilita pericolosamente, dolorosamente»[18].
Il sacro, afferma Ricœur, è “fluttuante”: l’eterogeneità dei miti, l’arbitrarietà che sembra occultare la radice strutturale comune, è l’effetto del riferimento ad un’esperienza che, pur riguardando l’uomo, non è da esso vissuta. Il mito, nella sua molteplicità espressiva, manifesta «il carattere unicamente simbolico del rapporto dell’uomo con la totalità perduta»[19], carattere che risiede nell’esigenza di un corredo di analogie la cui fonte non può essere altro che la contingenza. In questo squilibrio «tra la pienezza puramente simbolica e la finitezza dell’esperienza che offre all’uomo degli “analoghi” del significato»[20] si attesta l’espressione di un sacro dai contorni sfumati, custodito da racconti che attingono alla contingenza per i propri elementi costitutivi.
Ma perché il racconto? Il paradigma drammatico da cui sorge il mito trova necessariamente riscontro in un racconto mitico i cui personaggi vivono avvenimenti drammatici. Anche se, sottolinea Ricœur, il tempo in cui il mito si colloca è «fin dal principio diversificato dal dramma originale»[21], è proprio quel tempo originale, con il suo carattere drammatico, a motivare, insieme alla necessità di segni contingenti, la forma di dramma propria del mito, il quale dunque rimanda simbolicamente ad una pienezza significata, non solo, ma «significata attraverso una lotta»[22].
L’esame fin qui condotto consente a Ricœur di sostenere che «totalità di senso e dramma cosmico costituiscono le due chiavi che ci serviranno ad aprire i miti del Principio e della Fine»[23], miti dei quali egli propone una tipologia articolata in quattro modelli di riferimento. L’avvertimento ricœuriano è che tale classificazione sia considerata non staticamente, ma in una dinamica che permetta di cogliere i “tipi” nel «gioco delle loro segrete affinità»[24] e che sia esercizio preparatorio ad «una “riassunzione” filosofica del mito»[25].
Origine e fine del male vengono dunque considerate in «quattro “tipi” mitici di rappresentazione»[26]: il “dramma della creazione”, che racconta la creazione come lotta di Dio contro il caos; il “mito della caduta”, in cui, a creazione avvenuta, si verifica l’evento irrazionale della “caduta” dell’uomo nel male; il “tipo tragico”, intermedio tra creazione e caduta, che rievoca la storia, propria della tragedia greca, dell’eroe inevitabilmente colpevole; il “mito dell’anima esiliata”, che si distingue per la scissione che opera nell’uomo tra anima e corpo, e che sviluppa il tema dell’«anima venuta da altrove e smarrita quaggiù»[27] caro ai filosofi greci.
Le teogonie sumero-accadiche del ii secolo a.C. si prestano ad una adeguata interpretazione del “dramma della creazione”. L’esegesi ricœuriana si concentra sull’Enuma elish[28], poema che racconta la cosmogonia come atto conclusivo della genesi del divino, per smentire, successivamente, l’ipotesi che accomuna alcuni frammenti inseriti nell’Epopea di Gilgamesh al mito biblico della caduta.
L’importanza dell’Enuma elish risiede, proprio perché considera la teogonia precedente alla cosmogonia, nella significazione di un originario principio del male, rappresentato dal caos, anteriore alla genesi del divino che interviene a stabilire, infine, l’ordine del cosmo. Questo mito babilonese della creazione si distingue infatti, secondo Ricœur, perché nel mostrare l’originarietà del male, esclude la costituzione di un mito della caduta, di un racconto mitico, cioè, che prospetti «una degradazione dell’ordine distinta dalla sua istituzione, in termini mitici, “posteriore” alla creazione»[29].
Il tipo “tragico” trae il suo nome dalla tragedia greca che, secondo Ricœur, pone il filosofo di fronte alla «manifestazione improvvisa e completa dell’essenza del tragico»[30] costituendo l’analogia a cui qualunque altra forma di tragedia rimanda. Il prototipo greco insegna l’impossibilità di rendere il tragico del mondo se non nei termini dello spettacolo: la speculazione sembra impotente al confronto con l’intollerabilità dello scandalo di una predestinazione al male di origine divina, e dunque lo spettacolo si rivela il solo tramite in grado di «proteggere la potenza del simbolo che risiede in ogni mito tragico»[31].
La tragedia si delinea nella plasticità del dramma alla fine di un processo di incorporamento di quei temi pre-tragici – anteriori alla forma spettacolare e già annunciati nei miti del caos – che si vanno a comporre nella «mancanza di distinzione tra divino e diabolico»[32] per fare da sfondo alla visione tragica del mondo.
Il Φόβος, «emozione tragica per eccellenza»[33], scatta, dice Ricœur, nel momento dello scontro fra i due elementi della predestinazione al male e della grandezza dell’eroe. Il vero protagonista, il fato, dopo averne messo alla prova la libertà e vinto la resistenza, inevitabilmente schiaccia l’eroe suscitando, prima, l’angoscia – il Φόβος -, poi quella compassione impotente che Ricœur definisce «la “pietà” del tragico, cioè […] una maniera di piangere insieme e di purificare il pianto stesso con la bellezza del canto»[34].
Questi elementi tragici, osserva Ricœur, sono le componenti essenziali delle tragedie di Eschilo, il quale però tende, nelle sue rappresentazioni, a mostrare una consunzione del tragico stesso. Nelle Eumenidi e in quel che si sa del Prometeo liberato è preannunciato, secondo Ricœur, quel “pentimento” divino in virtù del quale «Zeus, il tiranno, diviene Zeus, il padre di Giustizia»[35].
Questo «impulso verso la fine del tragico»[36] – assente nel tragico “puro” di Sofocle – trova il suo orizzonte nel mito cosmogonico, in cui, secondo Ricœur, il divino «perverrà al suo polo olimpico a spese del suo polo titanico»[37].
Il tragico, dunque, esprime l’implacabile predestinazione al male di cui il divino, e non l’uomo, è portatore; la salvezza come contropartita non è comunque estranea al senso del tragico, e si esprime, nel tragico stesso, nel «“soffrire per comprendere” che il coro celebra nell’Agamennone di Eschilo»[38].
In definitiva, l’uomo riesce, solo attraverso lo spettacolo, facendosi “coro”, ad accedere al senso tragico che Ricœur riassume nelle emozioni del Terrore, il Φόβος, timore tragico stimolato dalla presa di coscienza della «congiunzione tra la libertà e la rovina empirica»[39], e della Pietà, l’ἔλεος, la misericordia tragica; ma questi sentimenti rivelano anche, sottolinea Ricœur, «una modalità del comprendere»[40].
È veramente duro l’ammonimento ricœuriano che imputa alla dottrina cristiana l’errore perpetrato a danno delle anime dei credenti chiedendo loro di accettare in termini storici l’avventura di Adamo, per poi indurle in confusione associando il mito alla concettualizzazione agostiniana del peccato originale. Quello che avrebbe dovuto «risvegliare i credenti a una sovrintelligenza simbolica della loro condizione attuale»[41] è diventato, dice Ricœur, strumento di un sacrificio dell’intelligenza.
Nel sottolineare come l’Antico Testamento attribuisca poca importanza ad Adamo, al punto che neanche la Genesi sembra rappresentarlo come totalmente responsabile del male nel mondo, Ricœur pone in evidenza come il tema adamitico debba la sua esaltazione a San Paolo, il quale fa emergere la figura di Adamo personificata in virtù del contrasto con il Cristo: «è la cristologia che ha consolidato l’adamologia»[42], sostiene Ricœur, ed è Adamo che, pur non costituendo un modello, individualizza «di riflesso»[43] la figura di Gesù.
Seppure non centralissimo nell’esperienza giudeo-cristiana, il mito adamitico riveste comunque per noi importanza nel significare l’originarietà dell’innocenza dell’uomo rispetto alla quale la colpa insorge come “scarto”, come “caduta”, come transizione istantanea determinata dalla disobbedienza al divieto divino, e anche, in Eva, come “vertigine”, come “cedimento” alla seduzione del male. Ma cedere alla tentazione è cedere alle lusinghe del serpente che «è già là, è già astuto»[44], è quindi il disorientarsi nell’incontrare il male che, radicale ma non originale, è «un aspetto del microcosmo e un aspetto del macrocosmo, il caos in me, dentro di noi e al di fuori di noi»[45].
Il senso del mito adamitico è dunque contenuto nella transizione, resa in uno scarto e, al tempo stesso, in una vertigine, dall’innocenza originaria alla colpa. Il male si mostra sia interno all’uomo, come passività di fronte alla tentazione, come responsabilità personale, che esterno ad esso, come «il “sempre già qui” […] [che] è l’altro aspetto di questo male di cui tuttavia io sono responsabile»[46]. Pur essendo qualcosa che sempre precede l’uomo, il male viene incontrato e l’uomo lo «continua cominciando, ma cominciando a sua volta»[47].
Attraverso questo mito la confessione del penitente giudeo riguarda non soltanto le sue azioni ma la radice malvagia da cui le sue azioni derivano, una radice che è «ad un tempo individuale e collettiva, come una scelta che ciascuno faccia per tutti e tutti per ciascuno»[48].
Per cogliere la prospettiva biblica che dal peccato fa scaturire la salvezza, è necessario arrivare a Gesù, al “secondo Adamo” che simbolicamente «è più grande del primo»[49], e che si contrappone alla “abbondanza” del pessimismo del peccato come “sovrabbondanza” ottimistica della promessa di una salvezza il cui evento, in quanto «contenuto proprio del kerygma cristiano»[50], elude, ammette Ricœur, le possibilità della nostra ermeneutica.
I miti fin qui considerati, quando pure esprimano una lesione nell’umano, non arrivano mai a scindere l’uomo in due entità distinte, come invece accade nel “mito dell’anima esiliata”. Lo stesso racconto adamitico della caduta, in quanto mito antropologico riferito all’uomo come co-origine del male, è, più ancora degli altri, «un mito della “carne”, dell’esistenza indivisa dell’uomo»[51] e non un mito “psichico”.
Il nascere della filosofia, caratterizzato dalla rottura con la dimensione mitica, in realtà recupera radici prefilosofiche attingendo alla tradizione orfica, all’irreperibile παλάτος λόγος che Platone rievoca e del quale Ricœur ipotizza una “cristallizzazione” da parte della filosofia «per darsi un’autorità fittizia, l’autorità delle rivelazioni arcaiche»[52].
Nel mito orfico che invece conosciamo grazie ai neoplatonici – che forse, sospetta Ricœur, ne sono anche i creatori -, Zeus folgora i Titani per punirli di aver ucciso e poi divorato Dioniso. È dalle ceneri dei Titani che sorge l’umanità, mescolanza della malvagità titanica e della divinità dionisiaca ereditate da un assassinio “sovrumano”, da un male pre-umano che determina la confusione delle due nature.
Attraverso «un mito pre-filosofico, ma introvabile, e un mito perfetto, ma post-filosofico»[53], dunque, viene preparata la rappresentazione mitica che indica l’uomo come anima imprigionata in un corpo, come unione e, nel contempo, scissione tra «la sua immortalità di dio e la corruzione del suo corpo»[54].
È proprio l’idea del corpo come punizione ripetuta nel ciclo delle reincarnazioni che assegna, di rimando, una connotazione divina all’anima, considerata quindi, nel «mito filosofante»[55] dell’anima esiliata, come la vera essenza dell’uomo.
La salvezza, in questo ambito, è riposta nella sapienza filosofica, una sapienza che «non è più “pensare da mortale”, ma riconoscersi divino»[56]. La conoscenza risulta pertanto l’atto purificatore attraverso cui l’uomo tende a farsi altro dal proprio corpo e ad identificarsi con la propria anima che «è l’origine e il principio del distacco, del distanziarsi del λόγος lungi dal corpo e dal suo πάθος»[57].
L’esito dello studio ermeneutico fin qui condotto ci impone, ora, una presa di posizione: non si tratta, precisa Ricœur, di scegliere uno tra i miti esaminati per accantonare gli altri, né di vestire i panni di «Don Giovanni del mito»[58] e corteggiarli per appropriarci, volta per volta, di ognuno di loro. Noi, occidentali del ventesimo secolo, abbiamo risposto ad un invito: interpellati dai miti, verificata una possibile comprensione del loro linguaggio, li abbiamo interrogati. È in questo interrogare che si rivela obbligatoria la nostra presa di posizione, o meglio, la consapevolezza della nostra posizione. È il momento, dice Ricœur, di abbandonare l’illusione «di poter essere spettatori, senza peso, senza memoria, senza prospettiva, e poter guardare tutto con uguale simpatia»[59]; è il momento di “situarsi”, di dichiarare che il luogo da cui ci si pone in osservazione è «il luogo in cui ancora oggi viene proclamata la preminenza di uno di questi miti, il mito adamitico»[60].
La cultura cristiana cui apparteniamo ci suggerisce come tener conto di tale presupposto: il primato del mito adamitico richiede un’analisi che assuma come riferimento il modo di credere del cristiano. Comprendiamo così che il male, e dunque il peccato, per il cristiano ha solo indirettamente a che fare con la sua fede, che riguarda invece la speranza nella liberazione dal male: la mitologia del peccato è solo l’altra faccia, quindi, della parola salvifica. Questa considerazione è alla base di una prima distinzione ricœuriana tra la teologia, che assume la simbologia della dottrina del peccato valutandola in funzione della cristologia, e la filosofia, che si fa carico dell’indagine sul mito per verificarne il carattere rivelativo. Entrambe partendo dalle comuni convinzioni sulla preminenza del mito adamitico e sulla dinamica circolare in cui l’ermeneutica di tutti i miti viene risucchiata, si differenziano poi nel perseguire ciascuna i propri obiettivi.
Il filosofo “situato”, in quanto cristiano (se non altro culturalmente) è comunque interpellato, al di là delle implicazioni soteriologiche, dal mito della caduta: il racconto adamitico si offre all’ermeneutica come contenitore di una rivelazione da ricercare, sollecitando il filosofo ad una maggior comprensione di se stesso che passi attraverso il suo modo di credere e, anche, alla verifica della sua fede che si configura come “scommessa”.
L’ermeneutica dei simboli della colpa sfocia a questo punto, per inclinazione spontanea, nella rilevazione di una dinamica sul cui campo d’espressione i miti si compongono concentricamente intorno al mito adamitico, in una struttura che vede più prossimo il mito tragico, intermedia la cosmogonia, più lontano il mito dell’anima esiliata. Questo ciclo dei miti, alimentato dalle connotazioni che la statica ha posto in luce, fa emergere i legami significativi e le comuni trame simboliche dei tipi mitici, ma soprattutto si mostra come movimento di riassunzione che incorpora nel racconto mitico della caduta le espressioni essenziali offerte dalle altre simbologie.
La proiezione che ci permette soltanto di riassumere in uno tutti i miti non soddisfa certo completamente la nostra ragione: «l’universo dei miti rimane un universo spezzato»[61], commenta Ricœur, proprio perché l’ermeneutica dei miti non può rimpiazzare la sistematicità filosofica. Il nostro punto di vista, in quanto tale, ci consente una comprensione «in immaginazione e in simpatia»[62] della dimensione dinamica e circolare dei miti, senza possibilità di unificarla eleggendone nettamente uno tra tutti.
Da qui la spinta più forte, incalza Ricœur, a sollevare la questione di fondo sulle possibilità metodologiche di una filosofia che si affidi, ad un tempo, alla piena razionalità e all’irrazionalità enigmatica e multivoca dei simboli.
[1] ivi, p. 420.
[2] ivi, p. 420.
[3] ivi, p. 419.
[4] ivi, p. 420.
[5] ivi, p. 420.
[6] ivi, p. 421.
[7] ivi, p. 421.
[8] ivi, p. 422.
[9] ivi, p. 422.
[10] ivi, p. 423.
[11] ivi, p. 423.
[12] ivi, p. 424.
[13] ivi, p. 424.
[14] ivi, p. 425.
[15] ivi, p. 425.
[16] ivi, p. 426.
[17] ivi, p. 426.
[18] ivi, p. 428.
[19] ivi, p. 426.
[20] ivi, p. 427.
[21] ivi, p. 428.
[22] ivi, p. 428.
[23] ivi, p. 430.
[24] ivi, p. 433.
[25] ivi, p. 433.
[26] ivi, p. 431.
[27] ivi, p. 433.
[28] “Quando in alto…”, prime parole del poema. Cfr. ivi, p. 435.
[29] ivi, p. 443.
[30] ivi, p. 473.
[31] ivi, p. 475.
[32] ivi, p. 476.
[33] ivi, p. 480.
[34] ivi, p. 490.
[35] ivi, p. 491.
[36] ivi, p. 491.
[37] ivi, p. 491.
[38] ivi, p. 492.
[39] ivi, p. 494.
[40] ivi, p. 495.
[41] ivi, p. 504.
[42] ivi, p. 504.
[43] ivi, p. 504.
[44] ivi, p. 522.
[45] ivi, p. 525.
[46] ivi, p. 527.
[47] ivi, p. 525.
[48] ivi, p. 506.
[49] ivi, p. 542.
[50] ivi, p. 537.
[51] ivi, p. 551.
[52] ivi, p. 552.
[53] ivi, p. 552.
[54] ivi, p. 559.
[55] ivi, p. 577.
[56] ivi, p. 559.
[57] ivi, p. 572.
[58] ivi, p. 579.
[59] ivi, p. 579.
[60] ivi, p. 580.
[61] ivi, p. 622.
[62] ivi, p. 622.