Semantica Post-Pandemica

Filosofia dell’Ipernichilismo, Pandemia e fine dei tempi

Massimiliano Polselli

  1. Marx, Après moi le déluge

(DasKapital, Vol.I, Parte II,Cap.X, Sez.V)

Breve Prolusione

L’Ipernichilismo[1], categoria filosofica coniata per la prima volta da chi scrive[2], secondo la propria teorizzazione, determina lo slittamento della stessa categoria del Nulla, a mero insignificante Logico-Ontologico-Antropologico ed Etico, diffondendo così una sorta di banalità della Morte e appunto dello stesso Nulla, come ridicolizzazione del concetto del Male visto come virus pandemico.

Lo stesso”attacco” dei Trampisti al tempio della democrazia Americana e l’irruzione nel Congresso statunitense rivelano un momento simbolico, spartiacqueche evidenzia l’epifania di un fenomeno ben più complesso che certifica un senso di assoluto nonsense, oltre il Tragico, tra il pittoresco – lo sciamano che prende il posto sullo scranno più alto di Capitol Hill, e il surreale, quest’ultimo che affiora nella frase finale pronunciata dallo stesso Presidente Trump “ andate in pace ! “

Il non-senseha inoltre gettato le basi per la costituzione del fenomeno negazionista, in Italia[3]come nel mondo[4]L’ipermoderno portando e spostando da un fuori ad un dentro, cioè nel “cuore” dell’uomo, il compito di trovare il senso invece che nell’Essere, nello Stato o nel Nulla, dentro di sé, cioè in interiore homine, in realtà ha solo evidenziato l’impossibilità di trovare altro “senso” oltre tali realtà ideali, portando l’uomo in una nebbia impenetrabile. Nella società, così come nelle famiglie e ne lavoro, le occasioni di senso comune e privato si diradano sempre più erodendo la fiducia nei sistemi democratici. E tutto viene negato.

Mentre infatti la Negazione– che proviene dalla categorizzazione del Nulla in quanto sfera delle Libertà- innesca un processo individuale che rimanda ad un rifiuto psicologico e politico di accettare come vero un fatto assodato, sia attraverso un processo di rimozione-spostamento-proiezione[5] sia mediante simpliciter un atteggiamento scettico, il Negazionismocome ulteriore fenomeno dell’Ipernichilismo, non si limita a rimuovere la realtà, ma allo stesso tempo non ne ricostruisce neppure una alternativa, determinando come effetto un assoluto non-senso generando appunto l’Ipernichilismo.

Esso sfugge a qualsiasi senso determinato e razionale – Essere, Ragione – ma al contempo anche al senso più insensato che era rappresentato dalla categoria del Nulla: il Risultato è quanto meno sur-reale, poiché anche la stessa dimensione del Nulla (sia in chiave Logica che Ontologica ed Etico-Antropologica) si ritirerebbe in un indefinibile e, a stretto rigore, indicibile colpo di scena! Ossia il sorgere dell’Ipernichilismo come ciò che fagocita anche il Nulla. Da ciò nasce una modalità comunicazionale basata sul nonsense e sullo “smisurato”: stati d’animo sofferenti, gesti spettacolari come l’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti d’America, le fakenews, sono tutte spie non solo di un “impazzimento collettivo”, condizionato anche dalle paure e dalla pandemicfatigue, ma dall’impossibilità di dare un senso anche al “pericolo diffuso che è, letteralmente, nell’aria, comela fobia per la Morte intesa come Nulla, la quale però caratterizzandosi come “assolutamente altro”è essa stessa impossibile da denotare. Ovvero anche l’Idea medesima della morte è come se fosse prigioniera della stessa impossibilità, da parte dell’uomo, di divincolarsi da una estraniante ultimativitàda cui la stessa morte è ingabbiata. La stessa ideale impossibilità di andare oltre il Nulla e la nevrosi che questo scatena, è intravedibile anche nel comportamento delle forze dell’ordine a protezione del Campidoglio Americano: lo Stato delega, difronte ad una sorta di nevrosi collettiva e pseudo-rivoluzionaria di non-senso, la Polizia l’autorizzazione a svolgere funzioni contraddittorie rispetto al loro stesso compito, in chiave extra-legale, proprio a legittimare un operato “paradossale” rispetto alle norme d’ingaggio circa la difesa dell’ordine pubblico e dei suoi centri democratici. Il confine segnato dai compiti a difesa della legalità, vengono così di volta in volta ridisegnati in modo autonomo e casuale, denotando la frantumazione della filiera dei comandi e di pezzi dello Stato, che non ha in questo modo più alcun controllo su Nulla. Il Nulla di nuovo non è “più controllato”, organizzato. Mentre la società era, prima della pandemia, adatta ad organizzare la Morte come meccanismo sociale a fronte del naturale ricambio generazionale, ora questa ha indotto una generale confusione sull’impossibilità di gestire il lutto dei cittadini sia tecnicamente ( ospedali, Rsaetc ) sia sacralmente (cimiteri e obitori), sia antropologicamente ( solitudine delle vittime, abbandono sociale).

Con il termine Ipernichilismo[6] s’intende quindi quel risultato filosofico culturale e categoriale mediante il quale si definiscono gli esiti surreali e di “non sense” che discendono dall’epocapresente chiamata da alcuni ipermoderno.

Quest’ultima definizione non pare indicare solo la sistemica e globalizzata omnipervasività del capitalismo come svuotamento di ogni dinamica reale (relazioni sociali, politiche, mercantiliste e persino biologistiche: collettive e individuali), ma nel presente saggio si intende l’ipermoderno come significato radicale di una mutazione di senso ancora più stringente e sbalorditiva che condurrà in seguito al fenomeno Ipernichilista.

Tuttavia prima di sviluppare concretamente il concetto di Ipernichilismo, aggiornando la corrispettiva riflessione sull’Ipermoderno, occorre ben scandagliare alcuni passaggi decisivi del pensiero filosofico e in genere culturale che hanno reso improcrastinabile il sorgere dell’ipermoderno così come dell’Ipernichilismo.

 

I momento

Fase Post-Moderna: ‘800 -‘900

Del valore relativo dell’astratto:

Soggetto, Mondo, Dio

 

Dalla Negazione o del Nulla poetico al Nulla o alla Negazione Politica

Il processo fantasmatico di scarnificazione della Realtà mediante i mutamenti storici di produzione teorizzato da Marx ha la sua origine in verità dagli esiti moderni e premoderni del Nichilismo. Esso lo si trova annunciato e definito per la prima volta nella lettera che Jacobi scrive nel 1799 a Fichte[7] . Il riferimento rimanda alla costituzione del soggetto kantiano[8] a partire dal significato dell’arte moderna: essa è il risultato del procedimento di rappresentazione dell’opera d’arte come ricostruzione di una realtà o oggettività nullificata dall’Io.[9] Per tale motivo l’Io per redimersi da tale parricidio ripropone l’Arte. Tuttavia la Soggettività moderna riprodurrà la realtà, – mediante l’opera d’arte-, solo come frammento di realtà. L’esito di questo risultato è dato dal fatto che il Soggetto produce un “oggetto artistico” morto, in quanto esso nasce dalla doppia negazione. La prima è da attribuire al gesto artistico ed intellettuale che ha con sé lo stigma di un’autocoscienza idealmente datrice di realtà. La seconda negazione emerge dal giudizio dell’Io moderno sulla Realtà ridotta ad un puro Nulla[10].La riflessione da parte della soggettività moderna comincia dunque dal Nulla e termina nel Nulla[11].

Tale processo porterà alla nascita dell’inconscio nel senso che l’astrazione è elevata a Principio e quest’ultimo all’autoestraniazione dell’uomo, che si separa dalla effettuale appropriazione della propria “essenza umana”[12] . Da questo punto in poi gli effetti saranno una oggettivazione come isolamento e astrazione delle relazioni socio-culturali e politiche economiche, in quanto effetto “idealizzante” che appunto porta a principìi assoluti come: l’Idea per il Filosofo, Dio per il Religioso, il sistema politico-economico e sociale per il “Cittadino Borghese”. Sopraggiunge così il feticismo a causa dell’ipostatizzazione con la quale ciò che è solo frutto dell’immaginazione viene creduto autonomo e dotato di poteri propri che in seguito appare nelle vesti di un soggetto dominante ossia come un Dominus in guisa dell’Idea per il filosofo, di un Dio per il fedele, del Denaro e dello Stato per il cittadino borghese. Da ciò la necessità di riprodurre la separazione che il feticcio attiva mediante “le sembianze” di un fantasma. Ad esempio il Genio creatore per l’artista o il sistema universitario filosofico per un filosofo, o i culti e le chiese per il fedele, e per ultimo le banche e la ricchezza legata agli indici di borsa per i ricchi borghesi.

Tale logica che è derivata dall’idealismo produce, a partire dalla rappresentazione generale della cosa immaginata, un’essenza esistente e proprio per questo motivo vera e reale e quindi con la forma di un soggetto. Ad esempio in tal modo la Sostanza come categoria filosofica si reifica e diviene Soggetto Assoluto. I produttori stessi, cioè gli uomini, s’inchinano dinanzi ad una realtà piena di spettri e di fantasmi con un immaginario privo di corporeità, così da gettare un carattere mistico ed arcano al mondo, mutando le dinamiche reali in immaginarie. Ecco che le coscienze divengono creatrici e fruitrici di credenze inconsce. Appare un WeltdesScheins, un mondo fondato su un paradigma “mascherico”: per cui le coscienze sono solo personificazioni di questa oggettività spettrale. Maschere giuridiche, filosofiche, economiche che producono una realtà dell’enigma appunto geroglifica. Non è un caso che se quest’apparato fantasmatico sigilla l’epoca ipermoderna, ritorna in realtà come una specie di anima in pena dopo la sepoltura vietata dal Re Creonte di Tebe del corpo morto di Polinice di cui la sorella Antigone, rivendicandone la sepoltura,dà avvio alla nascita della Soggettività in termini pre-moderni. Ma appunto il concetto di soggettività nasce già come un “capitale morto”, che porterà con sé lo stigma della Nullificazione, della scissione dilacerante tra Soggetto e Mondo.

L’oggettività appare in tal modo svanita. Dall’Idealismo, con una soggettività assoluta, è possibile recuperare la “nostalgia” verso un incendiario “desiderio infinito”:

“un non so che come inviolabile mistero che definisce l’indefinibile; il Romantico non è il sentimento che si afferma aldilà della ragione un sentimento di particolare immediatezza, intensità o violenza e non è neppure il cosiddetto sentimentale, cioè un sentimento melanconico – contemplativo;è piuttosto un fatto di sensibilità,quando essa si traduce in uno stato di eccessiva o permanente impressionabilità, irritabilità e reattività.Da ciò l’amore dell’irresolutezza”.[13]

La più caratteristica parola dell’800 è “Sehn-Sucht” in quanto desiderio che non può mai raggiungere la propria meta perché non la conosce e non vuole o non può conoscerla: è il male (Sucht) del desiderio (Sehnen). Ma Sehnensignifica assai spesso un desiderio irrealizzabile, poiché indefinibile, un desiderare tutto e nulla ad un tempo[14].Da ciò la condizione dell’irraggiungibile perdita diviene Stimmungo caratteristica come tratto universale e status di una incomponibile Zerissenheit ossia lacerazione che apre anche al significato di conflitto, appartenendo al mondo stesso e al poeta che solo lui, insieme al filosofo, può condividerne e svelarne la natura.

Il poeta vive la condizione come nostalgia di un universo retto da leggi oggettive ed assolute e dall’altra intende la libertà come forza nullificante dell’Io. La Natura appare così insensata e priva di finalismo. Ne consegue una “morte di Dio” da intendere non nel senso nietzscheano ma nel senso che Dio è alla mercè dell’uomo fichtiano. La conseguenza di ciò è che in chiesa l’uomo moderno, come ebbe a dire il poeta Heine si mette in ginocchio ed assiste alla celebrazione dei sacramenti in onore ad un Dio morente. Si noti che Heine prefigura liricamente Nietzsch , ma che in realtà egli evoca alla fine un Realismo superando i lidi dell’Idealismo. Un Idea di Essere che accoglierà favorevolmente Heidegger.Mentre la morte di Dio in Nietzsche sarà ben più radicale con, per giunta, la destituzione anche dell’ ”Io “ come autocoscienza certa con sé  e permanente in sé temporalmente e conoscitivamente, a causa del toglimento netto di Dio. La quale negazione di Dio pressoHeine non avviene mai del tutto.

Nella modalità dell’Ipermoderno la realtà perde il segno della solidità, divenendo rarefatta ed onirica in una trasvalutazione di tutti i precedenti punti di riferimento moderni: ogni cosa diviene astratta, trasognata, illusoria[15] e di rimando la realtà perduta riporta, come in una carambola infinita, alle idee che però ancora una volta, per loro natura, sono astratte[16].

Non meno idealistico è il tentativo, sempre all’inizio del XIX secolo, da parte di alcuni poeti di tornare, com’è stato dapprima visto da Heine, ad un neorealismo. In tal senso l’idealismo comincia ad essere avvertito non più come salvifico bensì illusorio e fatuo. La sostituzione del mondo reale, surrogato da una realtà immaginifica in quanto prodotta dal soggetto, si rivela come un fallimento che occorre smascherare.

In primo piano viene posta l’Idea di “lacerazione” che ha come primo effetto la morte di Dio spingendo la teoria nichilistica verso il Nulla. Nel senso che se Dio è assente il padre putativo del Mondo diventa il Nulla. Ma poiché si è costretti ad affidare una paternità al Mondo, ecco che questo non può non essere il Nulla: ossia tale padre è la stessa “scissione”, “dilacerazione” sorta dopo l’elevazione del Soggetto ad Autocoscienza assoluta. La realtà diviene così la tomba dell’Essere in quanto il creato cade sotto il segno del nulla. Ma anche dinanzi a tale evento lo stesso Nulla si toglie manifestandosi come Mondo: in quanto negazione della negazione, ossia pura negazione, l’umanità è il risultato del suo movimento che come gocce di sangue è natadal Nulla.

Il nichilismo raggiunge un senso radicale poiché conduce sull’orlo del vuoto aldilà della vita e della morte gettando il Soggetto nel risultato di un ordine eterno dell’apparenza[17].

Ma l’altro effetto, eguale ed opposto, in seguito alla uccisione di Dio, consiste anche nella morte dell’Uomo. Infatti poiché il Soggetto si fondava precedentemente sul proprio essere assoluto, come appunto ad un Dio, ne consegue che venendo meno il concetto di Dio cessa di esistere anche l’Uomo-Assolutizzato. Stirner nella sua opera più rilevante[18] sottolinea come alla fine l’Io abbia fondato invero la propria causa sul Nulla, poiché se nella modernità l’uomo è divenuto come Dio, ora avendolo ucciso, l’uomo stesso che è anche dio, elimina se stesso.[19]

Il Mondo si dirige speditamente verso il Nulla logico ed Etico abbandonando per sempre il kantismo: la realtà cade sotto il segno del “mistero”, processo questo che coinvolgerà i singoli individui scoperchiando il vaso di Pandora dell’inconscio. L’analogia con il teatro delle marionette di Kleist sembra calzante: la marionetta del teatro povero da strada, dipendendo nei suoi movimenti e nei propri gesti da altri, conserva maggiore equilibrio rispetto all’uomo libero e senza Dio, poiché ora il Soggetto umano, vagando senza punti di riferimento nel mondo e nella storia, si rivela meno equilibrato e coordinato di una marionetta[20]

Anche la Musica servirà a fuggire dalle pene dell’esistenza. Tuttavia quando attraverso di essa l’artista sentirà di aver ri-creato un nuovo Universo, egli stesso cadrà in una sorta di sentimento di ΰβρις che lo renderà simile ad un Dio. Ma come un novello Prometeo egli si sentirà solo infine un soggetto impotente e misero. Il senso risiede nel fatto che i “mondi irreali” dall’artista compositore non riescono ad obnubilare la fallibilità e la caducità dell’uomo stesso e lo stesso principio di realtà anzi sta lì a ricordare che nonostante la magia della creazione artistico-musicale, la realtà si riaffaccia con il suo non-senso. L’esito di questo smacco consiste nello scorgere l’arte non come intuizione della Natura, ma manifestazione delle idee platoniche, in quanto perfette e trasognanti. A tal punto che Tieck  spiega la categoria del “meraviglioso”nell’universo dei personaggi shakespeariani: in quanto il bardo inglese, infatti, trae il suo universo poetico dal sogno e dal mondo onirico[21] . Si evince dunque che la soggettività fa ricorso all’arte ed in genere all’orizzonte artistico per supplire alla perdita del mondo. La modernità pare abbandonare un mondo unitario di significati e inaugura un orizzonte infinito come nel caso della poesia, grazie alla negazione del Tutto, e che ingloba come genere tutte le altre discipline, con una procedurabilità e dinamicità sempre in divenire. La caratteristica categoriale dell’Infinito è d’altronde non codificabile, presentandosi sempre in modo indefinito e inarrestabile.

Ne conseguirà che si assisterà a due corni del Nichilismo: la categoria del Nulla sarà introdotta prevalentemente dalla riflessione filosofica, di derivazione nichilistico-Fichtiana. Mentre la riflessione estetologica utilizzerà il concetto di Negazione, in riferimento ad un contesto d’insieme romantico-poetologico.[22]

Per quanto concerne la prima modalità, la riflessione del Nulla, si origina, come si è già potuto scorgere, dal principio dell’Io fichtiano: esso conduce appunto al Puro Nulla.   

Anche sul fronte etico, attraverso il puro principio di determinazione dell’agire, ossia mediante la Volontà, si giunge, con Schopenhauer al Nulla della Volontà ovvero della Noluntas, al fine di non essere più schiavi del mondo e dell’essere.[23]

Lo stesso concetto di bellezza dostojewskiano[24]nella frase del principe Myskin[25] denota che la bellezza, come elemento salvifico del mondo, passa attraverso una pretesa universale che a sua volta non può non fondarsi sull’esigenza normativa del fatto che tutti siano d’accordo nel definire qualcosa come “bello”[26].Questo determina una non coincidenza tra Libertà ed Evento che potenzia ancora più drammaticamente la scissione tra Natura e Storia ma che allo stesso tempo allontana dall’umanità la presupposta unità di attimo ed eternità che è raggiungibile solo con la morte.

Anche il paradigma della morte muta radicalmente accanto al concetto di Dio. Se infatti Dio non è più l’archetipo grammaticale  l’uomo post-moderno andrà aldilà di esso divenendo oltre-uomo[27]: egli oltre a compiere il deicidio, non temerà più la morte,l’aldilà, e neppure giudicherà più il mondo come un immenso sudario. Si fa strada che l’idea di Dio sorga da un equivoco che consiste in una logica della redenzione dislocata e differita inesorabilmente in un aldilà metafisico per un avvento del significato del Tutto mai realizzabile se non in un indefinibile spazio-tempo. La parusia e la salvezza è compito irrealizzabile di un Dio creduto eternamente differito in un’altra realtà. Ma se si guarda il Mondo esso è già redento poiché non ha bisogno di redenzione. Il mondo chiede una redenzione poiché non sa di essere già redento. Anche per l’uomo c’è un fraintendimento: egli è infelice poiché non sa di essere felice. Da qui l’indifferenzialismo morale. Il Soggetto che saprà di essere felice, quello stesso lo diventerà all’istante. Ecco che l’istante stesso diventerà estatico o kairologico con lo svuotamento di senso di Dio (kenosi divina). Ne consegue che il Tempo e lo Spazio non rimandano all’infuori di sé alcun senso e valore ma contengono in loro stessi il proprio significato. L’effetto è che Dio scompaia dall’orizzonte delle Idee, sostituito da un dire di “si” alla vita. Tale affermazione sarà così netta che ingloberà anche la morte.

Si ribadisce così che col venire meno di Dio si apre alla prospettiva di coincidenza di evento e senso: il significato è tutto nella vita e non più rinviato ad una ulteriorità inafferrabile all’infinito. Sul piano etico, non essendoci più alcun piano trascendentale e divino, nasce un indifferentismo moralein cui il Bene ed il Male coincidono.[28]

Ne consegue che affiora un sentimento per il quale il mondo sia armonico grazie all’esistenza di Dio. Da far suo l’uomo introduce un elemento disarmonico misconoscendo l’armonia del creato, adducendo svariati motivi tra cui la presenza di sofferenze e pene anche inspiegabili, come quelle che toccano gli individui inermi e giovanissimi. Il fallimento della Redenzione produce così leggende, mettendo sotto accusa un Dio che, senza uno spazio ed un orizzonte trascendente, sfrattato dall’ alto dei cielitorna con i piedi a terra tornando ad essere “tanti Cristi” dovendo prendersi su di sé le nuove tribolazioni dell’esistenza, non potendole più demandare in alcun modo al Dio metafisico.

Se a livello filosofico si è scritto precedentemente[29] il concetto di Nichilismo nasce con la lettera di Jacobi a Fichtenel1799, sul piano letterario è I.Turgenev a fondare il “nichilismo” nel romanzo “Padri e Figli” del 1862 pubblicato sul Messaggero Russo. In tale contesto emerge che il nichilista non accetta né riconosce alcuna autorità rinunciando alle tradizioni consolidate. Si profila così un prototipo di nichilista non più nel senso romantico o schopenhaueriano ma bensì come individuo che ha fede nel progresso scientifico simpatizzando con il positvismo, esaltandone i paradigmi di “azione e pragmatismo”. L’effetto è quello del sorgere da un lato di una coscienza votata ad un eccessivo entusiasmo, dall’altro si manifesta una personalità egoista,egoriferita attratta narcisisticamente dal proprio Ego, con l’incessante paradosso di dover costantemente porre in pericolo la propria esistenza.

Da questi ultimi esiti “volontaristici” nascerà in seguito il populismo russo come per Dobroliubov che interpreta un certo tipo di nichilismo attivo politico, tuttavia riferibile, colpevolmemte, solo all’interno della coscienza della classe contadina, rispetto all’immobilismo della classe colta. Ma ad emergere è sempre un nichilismo nel senso di materialismo positivistico e scientifico. I capisaldi di tale increspatura scientista del nichilismo si reggevano sulla riflessione di Darwin, Comte, Moleschet e Büchner, per mezzo dei quali si esaltano i concetti di Forza e Materia a scapito delle arti e della poesia. Inoltre verranno esaltati i principii di “utile” e del “calcolo” come pietre fondanti dell’intero mondo umano, in contraddizione con l’indifferentismo morale dello stesso nichilismo. Spesso questo approccio utilitaristico e calcolante del nichilismo approdava così, non alla meta di una emancipazione collettiva cioè di un intero “popolo” che, liberandosi da ogni tipo di catena trascendentale ed immanente, potesse riappropriarsi della libertà, ma giungeva ad un esito individualistico e solipsista. Dando vita ad una individualità che fosse in grado di fondarsi su sé stessa rinunciando al conformismo sociale, generando una sorta di spirito elitario. Ciò avrebbe condotto la società da una parte alla liberazione da parte degli individui da ogni forma di sentimentalismo romantico e poetico, a causa dell’adesione al positivismo, dall’altro alla costruzione di un individuo sostanzialmente razzista, fondato sulla selezione naturale darwiniana. Il singolo “utile” rispetto al tutto!

Ma la spinta rivoluzionaria ed anti-adattiva della società, alla metà del IX° sec., fece si ché tale ideologia fosse circoscritta a pochi rappresentanti della intellighenzia minoritaria ed emarginata. Tuttavia si riconobbe immediatamente una nuova mentalità culturale che diede origine al populismo. Esso avrebbe sovvertito, con valori nichilistici, lo zarismo, fino ad originare movimenti terroristici.Infatti il nichilismo avrebbe contribuito, da un lato alla fondazione di movimenti e organizzazioni rivoluzionari, dall’altro a individualità anarchico-refrattarie che negavano l’ordine sociale ed ogni forma di conformismo professando una negatività assoluta. Tutto ciò ebbe l’effetto di stabilire che i valori liberali, alla base delle società, erano visti come tradimenti dei principi popolari: da qui appunto la nascita dei populismi. In tal senso tutto sarà valutabile come lecito, pur di giungere alla Rivoluzione, con le parole d’ ordine: unione e insurrezione, come leggi storiche che rendono necessaria la rivoluzione.


[1]Ipernichilismo: concetto fondativo che serve a designare la nuova epoca storico-sociale e culturale post COVID19, coniato per la prima volta dalla Rivista Filosofica Scientifica digitale“Consecutio Temporum.it” (ISSN 2239-1061) nel numero 17 del mese di Luglio,2020.

[2]Idem.

[3]Aa.Vv. Il libro Nero del Coronavirus, Historica ed. 2020

[4]M.Lock, Covid-19 and The limits of Bolsonarism, VersobooksPublished, Aprile 2020

[5] Si vedano le pagine seguenti di questo stesso lavoro, circa il procedimento psico-logico-antropologico della riflessione Hegeliana riguardo la tecnica del Riconoscimento in Hegel: da Sez.IV – Parte Prima: Passaggio dal Postmoderno all’IperModerno: Il Nulla dopo Hegel; pag.22 e ss.

[6]Ipernichilismo: concetto fondativo che serve a designare la nuova epoca storico-sociale e culturale post COVID19, coniato per la prima volta dalla Rivista Filosofica Scientificadigitale“Consecutio Temporum.it” (ISSN 2239-1061) nel numero 17 del mese di Luglio,2020.                                                                                                                                       

[7] “Davvero mio caro Fichte non mi dispiace affatto che lei, o chi altro, voglia chiamare chimerismo quanto io con l’ingiuria di nichilismo, rivolgo contro l’ idealismo,. F.H. JACOBI, Lettera a Fichte (1799), tr. it. di A. Acerbi, Istituto It per gli Studi filosofici, Napoli 2011

[8] “L’idealismo moderno nella corsa affannosa nel dedurre dai principi kantiani ed hegeliani le ultime conseguenze, tende alla negazione di ogni realtà.”, N. Monaco, Teorie idealiste, (1923),in Riv. fil. Gregorianum, vol.4, Nr.3, pgg.431-464

[9] Nasce l’arte moderna per ricondurre a forma e a misura l’anarchico orizzonte della modernità, generando uno sperimentalismo estetico che grazie al Caos genera forme, andando oltre la vuota riflessione che Jacobi critica.

[10] La riflessione ponente comincia dal Nulla

[11] “Dapprima la riflessione è il movimento del nulla al nulla e così la negazione che si fonda con sé stessa.Questo fondersi con sé è in generale semplice uguaglianza con sé,l’immediatezza. Ma questo coincidere non è un passare della negazione nell’eguaglianza con sé come nel suo esser altro; anzi la riflessione è un passare come togliere del passare, poiché è un immediato coincidere del negativo con sé stesso.”; G.W.F. HEGEL, WissenchaftderLogik. Zweiter Band(1816), hrsg. von F. Hogemann und W. Jaeschke, Meiner, Hamburg 1981; tr.it. Scienza della logica, cit., vol.II p.445.

[12] K.MARX, Ӧkonomisch-philosophischeManuskripteausdemJahre 1844 (1844, pubbl.post. 1932) in MEW (KARL MARX e FRIEDRICH ENGELS), Werke,a c. dell’InstitutfürMarxismus-Leninismus, DietzVerlag,Berlin.

[13] L. MITTNER, Il Romanticismo tedesco, Einaudi,cit.,par.336 et al.

[14]Ivi, par.337 et al.

[15] Si veda come già W. Shakespeare abbraccia la narrazione dei suoi personaggi a partire da un fondamento onirico che lo porterà a scrivere che “siamo fatti anche noi della stessa sostanza dei sogni e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”, cit. W.Shakespeare , La tempesta, atto IV, scena I.

[16] Per approfondire il meccanismo sulla specifica genesi del procedimento della triade 1) oggettivazione 2) ipostatizzazione 3) proiezione del pensiero e della coscienza idealistica, si rimanda al mio saggio: Il Concetto del Nulla in Hegel : La negazione come principio del Tutto, Historica Ed.2017, Roma,p.90 e ss.

[17] In riferimento all’ “ordine eterno eterno dell’apparenza” generato dalla contraddizione come “astrazione realissima”, si rimanda al concetto e al ragionamento marxiano del “circolo del presupposto-posto del sistema capitalistico.

[18] M.STIRNER, L’Unico e la sua proprietà, ed. Adelphi

[19] Il percorso nichilistico si apre infatti gi con l’Illuminismo come ciò che progetta l’uccisione di dio che si compierà definitivamente nell’Ipermoderno.

[20] H.V. KLEIST, Il teatro delle marionette, Ed. Il Nuovo Melangolo, 2005

[21] L.TIECK, ShakespearesVorschule, Dresda,1826

[22] Quasi a voler sconfessare un certo tipo di marxismo-ortodosso che presenterebbe la seconda categoria, quella della Negazione rispetto a quella del Nulla, come meno astratta e più logicamente ed epistemologicamente solida. Ma il concetto di Negazione stesso verrebbe in realtà originato da riflessioni lirico – romantiche, conservando un retroterra in verità meno logico e solido rispetto alla categoria del Nulla.

[23] I.VECCHIOTTI, La dottrina di Schopenhauer, Roma, Ubaldini,1969

[24] Il riferimento è al racconto di DOSTOEVSKIJ: L’idiota, 1860. trad.F. Verdinois, Ed. Newton Compton,1991

[25]Ibid.

[26] Il riferimento filosofico va ascritto a Kant che nella Critica del Giudizio par 40 sez. I, Libro II, Deduzione dei Giudizi, ed. Laterza1992, parla di esigenza dell’accordo nella comunicabilità del giudizio di gusto su qualcosa che si giudica bello.

[27] Già lo stesso Dostoevskij nel racconto I Demoniincardina nel personaggio Kirilliovl’epifania letteraturale dello Übermensch di Nietzsche.:

[28] Si noti che in Nietzsche, rispetto alla lettura poetico-narrativa della letteratura ad egli coeva, resiste, a nostro giudizio, nel Superuomo un senso etico con l’annuncio di una nuova Tavola dei Valori.

[29] Gli esiti filosofici moderni e premoderni del Nichilismo si trovani annunciati e definiti per la prima volta nella lettera che Jacobi scrive nel 1799 a Fichte:“Davvero mio caro Fichte non mi dispiace affatto che lei, o chi altro, voglia chiamare chimerismo quanto io con l’ingiuria di nichilismo, rivolgo contro l’idealismo”,. F.H..JACOBI, Lettera a Fichte (1799), tr. it. di A. Acerbi, Istituto It. per gli Studi filosofici, Napoli 2011.

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Musil: una lettura del «Vinzenz»

Pasquale Amato

Una lettura del Vinzenz[1] non può prescindere dal riferimento costante alla tematica dell’“uomo senza qualità” sviluppata nel noto romanzo di Musil e affrontata anche nel dramma I fanatici. La farsa appare, infatti, come una sintesi drammaturgica del complesso romanzo musiliano.

Una possibile interpretazione può prendere il via da una notazione di Aloisio Rendi: «Insieme, Vinzenz e Alfa sono la coppia superiore […] dello spirito: egli è l’intelletto, essa è l’anima»[2].

Teniamo presente questa similitudine e, arrischiando una semplificazione, diciamo che le interazioni tra intelletto e anima (cioè tra Vinzenz e Alfa) determinano in un individuo le modalità di partecipazione alla vita comunitaria.

Accertata la propria inadeguatezza alla realtà del sistema sociale, Musil esprime la necessità di un momento, anche doloroso, di negazione della propria anima, quindi della componente emotiva, attraverso cui poter acquisire la consapevolezza dei limiti oggettivi entro i quali operare un’analisi valutativa, o anche rivalutativa, di tale realtà.

Ed ecco la rievocazione di questo momento di negazione e di scelta:

 

vinzenz (osservandola)  Sei cambiata pochissimo. Hai un’espressione un po’ diversa, oggi, ma tanto in te è sempre artificiale. Dio del cielo, che ragazza eri mai! Che splendida ragazza eri mai! Se chiudo gli occhi, mi sembra di vederti su quella banchina del porto: il vento si azzuffa con la tua gonna, le tue gambe si tendono e reggono ben alto il tuo braccio destro, il braccio tiene sopra di sé il tuo piccolo fazzoletto bianco, e su in cima par di vedere palpitare una fiamma color dell’aria. Era la nostra fiducia, che palpitava lì in cima, il nostro amore e i nostri sogni. Mi sembravi uno spavaldo guerriero.

alfa  E tu saresti dovuto tornare dopo tre settimane e non ti sei più fatto vedere per quindici anni.[3]

La struttura “Vinzenz/Alfa” si scinde, Vinzenz si separa da Alfa: l’intelletto (razionalità, logica) si libera dell’anima (emotività, passionalità, soggezione alla norma morale), la nega. Vinzenz prende quota rispetto agli eventi, dunque, assumendo una posizione di distacco, di sospensione. Il superamento dell’affettività lo conduce alla rivalutazione della realtà che, da entità definita, costituita, diventa elemento costituente di un tutto, segmento all’interno di una retta, attimo storicamente determinato nell’ambito della storia universale: è il manifestarsi della coscienza storica. Conseguentemente, Vinzenz ridimensiona quei “valori” borghesi che si accompagnano costantemente alle componenti emotive (egoismo, invidia, gelosia, …) identificabili coi fili che muovono i «burattineschi»[4] uomini importanti ai quali egli, privo di qualità a cui attentare, rimane indifferente.

Alfa, dal canto suo, si sforza di tenere a bada questi uomini importanti e Bärli e Halm – con le loro promesse di benessere, ricchezza, rispettabilità e successo – e l’amica, simbolo della stratificazione di atavici condizionamenti che chiamiamo “femminilità”.

Vinzenz (e Thomas ne I fanatici e Ulrich ne L’uomo senza qualità) non è un calcolatore, né un cinico. Egli esprime la sua «lotta interiore, silenziosa e invisibile»[5] per la libertà, con il rifiuto di utilizzare le proprie qualità in un’occupazione costruttiva all’interno di un’organizzazione sociale a cui si sente estraneo, in un mondo reale dove i pretenziosi “uomini importanti” non costituiscono un pericolo, anzi, possono talvolta essere sfruttati fino al ridicolo.

Il disimpegno di Vinzenz, la sua indifferenza, assumono comunque una connotazione critica attraverso il gioco sottile dell’ironia che caratterizza lo sviluppo della farsa, ma raggiungono un’espressione cinetica, risolvendo il sospetto di passività, solo con il recupero dell’anima (e quindi di Alfa), non più nella sua accezione romantica, ma nella sovrapposizione con ciò che definiamo fantasia o creatività.

bärli […]  Se conosce Alfa da tanto tempo, essa avrà certo detto anche a lei: «Badi che sta sbagliando ogni cosa». […]

[…]

bärli […]  Lo dice a tutti, badi bene, lo so con certezza: a ciascuno, al professore non meno che al musicista o a me. Alfa, dunque, mi disse: «Sta sbagliando ogni cosa. In fondo non è soddisfatto né della sua attività né dei suoi successi». Anzi, mi dice: «Quello di cui lei va fiero e per cui sacrifica la vita è una stupidaggine». Ma io sono di un’altra pasta di tutti quei signori. Io non mi faccio incantare; eppure mi accorgo subito che Alfa ha ragione. Ha ragione, le dico![6]

Alfa (anima-fantasia), dunque, funziona da starter che innesca il processo di razionalizzazione-liberazione: scuotendo chi la apprezza, lo ammonisce: “Quello per cui sacrifichi la vita è una stupidaggine”. Sicurezza economica, possesso, carriera, principi, dignità, tutto è una stupidaggine!

Ed è certamente quest’anima recuperata a stimolare il processo psicologico che converte l’ironia musiliana, presagio della tragedia del vivere, in una satira «smussata e attutita in un sorriso bonario e indifferente»[7] espressione della perplessità che la coscienza storica determina, della sospensione del giudizio di fronte al divenire della realtà e alla relatività esistenziale. Unico sostegno per la solidarietà e l’amore verso gli uomini, spesso inconsapevoli e perciò insopportabili compagni di viaggio attraverso questa tragica esistenza che è solo una tappa della storia universale, è forse ancora lei a suggerire questo frammento di dialogo tra Thomas e Regine:

regine  […] Pensavo che un giorno avrei acquistato il potere di rendere felice la gente, come una fata […]. Ma più tardi tutto si sfascia, per via degli altri. Li vedi precisamente come sono. E non li puoi più amare.

thomas  No. Eppure bisogna amarli, ogni tanto, se non si vuol diventare un essere evanescente come uno spettro. È un fatto.

regine  Così come si deve mangiare e dormire […][8]

Vinzenz e Alfa, Thomas e Regine, Ulrich e Agathe, nel loro confronto, nel loro rapporto dialettico senza sbocco, sembrano vivere un insolubile supplizio: a loro che hanno intrapreso «la via incerta e miserabile dello spirito»[9], Musil riserva il compito vano di risolvere «la contraddizione tra gli aspetti razionali e quelli irrazionali della realtà […] attraverso una sintesi totale che esprima il connubio di “anima e esattezza”»[10]. Egli tenta anche di sovvertire l’ordine delle cose: utilizzando l’esattezza matematica, simbolo della razionalità applicata all’esistenza, vorrebbe creare un regno dove Vinzenz e Alfa, intelletto e anima, possano governare insieme.

 

vinzenz  […] Quel regno, poi, lo governeremo secondo le leggi che avevamo ideato allora, prima che prendessi il piroscafo. Tu ne sarai l’imperatrice.

[…] Col nostro denaro possiamo farci innalzare dove vogliamo in politica, in arte, in morale, in tutti i campi della vita, e distruggere tutto ciò che non ci piace. Davvero è inimmaginabile![11]

 

Ma l’“inimmaginabile” prevedibilmente si rivela irrealizzabile. Due granelli di polvere non possono invertire il senso di rotazione degli ingranaggi di questo imponente, potente sistema. Vinzenz viene da esso espulso, emarginato, accusato di essere un imbroglione, un bugiardo che nega la realtà della regola sociale. Egli la nega, infatti: la collocazione delle strutture sociali nell’ambito indeterminato della storia universale ridimensiona l’idea di realtà a esse legato, evidenziandone la variabilità nella successione dei periodi storici, e conduce fatalmente alla relativizzazione.

thomas  […] la verità è che noi siamo al centro di un calcolo il quale contiene solo quantità indefinite e non si può risolvere se non ricorrendo a un’astuzia, cioè supponendo qualche valore costante. Una virtù suprema. Oppure Dio. O amare gli uomini. O odiarli. Essere religiosi o moderni. Appassionati o indifferenti. Bellicisti o pacifisti. E così via, in tutta questa fiera intellettuale che oggi tiene bottega aperta per tutte le esigenze dello spirito. Basta entrare, e si trovano subito sentimenti e convinzioni per tutta la vita e per ogni caso prevedibile. Difficile è soltanto trovare i propri sentimenti quando non si accettano altre premesse se non quella che la nostra anima, questa scimmia scappata dallo zoo, accovacciata su un blocco di argilla, trasvola sibilando l’ignota immensità di Dio.[12]

Ciò che l’oggettività storicamente costituita considera fuori della realtà, assume immediatamente una propria «possibilità»: gli imbrogli di Vinzenz, all’interno di una “etica della possibilità”, perdono la loro connotazione negativa, assolvendo Vinzenz stesso dalle accuse.

vinzenz  […] Il mio unico imbroglio è quello di non essere un imbroglione. […][13]

L’ironia di Vinzenz è dunque quella che relativizza tutto, compreso chi la esercita, non è l’ironia del saccente: Vinzenz si contrappone agli altri ma, nel contempo, vuole sottolineare che è come gli altri.

vinzenz  Non mento, Alfa, credimi. Credi anche tu ch’io sia stato in galera, che bazzichi assassini e donnacce, che giochi? Ebbene, voglio dirti la verità vera: in realtà io vivo come qualunque altro. Mi annoio, passo le mie ore libere al cinema, al varietà o mi faccio una modesta, borghese partita a skat, vado a teatro, alle mostre d’arte e mi annoio anche lì, vivo la mia vita come qualunque altra persona rispettabile, senza alcuna coscienza di esserne io stesso l’artefice, e senza melodia, direzione, ebbrezza, profondità. L’unico mio vantaggio è che non ho una vera professione, per cui mi rendo conto di queste cose un po’ più chiaramente di molti altri.[14]

«Costui ha in più, rispetto agli altri, il rendersi conto della propria irrealtà: al massimo è come una soluzione che sta lì lì per cristallizzarsi e non si cristallizza mai»[15]: in questa definizione riferita a Ulrich riconosciamo anche Vinzenz. Suo malgrado, questo qualcosa in più inibisce in lui la capacità di prendersi sul serio e quindi di entrare a far parte della categoria degli uomini importanti:

vinzenz  Volesse il cielo che avessi anche un minimo difetto. Sarei irresistibile! Avrei una mania, un hobby, una perversione segreta, una missione; sarei artista, amatore, furfante, avaraccio, burocrate, insomma un uomo importante e avrei quel che si dice la serietà della vita. Ma purtroppo sono irrimediabilmente sano. […] Io vedo tutto chiarissimo, intorno a me: un arcobaleno di serietà diverse. […][16]

Alfa, invece, la capricciosa, magica anima-Alfa, sta per essere riciclata e di nuovo imbrigliata nella rete dei valori borghesi le cui maglie sono gli “uomini importanti”; la sua presenza dà legittimità al potere affrancandone i detentori e sostenendone le regole con il sussidio della moralità. Perché tutto funzioni, però, è necessario assegnare ad Alfa una giusta collocazione: l’abbraccio casto e rispettabile di Halm sembra perfetto! Suffragato dal riconoscimento sociale su un certificato di matrimonio, sublimato in una relazione che si prefigura esclusivamente platonica, abbellito dall’abito dell’onorabilità, il rapporto tra Alfa e Halm racchiuderebbe gli ingredienti principali della norma morale borghese. Ma non è facile trattenere «l’affascinante, efebica Alfa»[17], «aleggiante essere di sogno, infido uccello magico»[18]. Capricciosa e intelligente, ella non accetterà imposizioni e con la sua scelta forse definitiva, il matrimonio con il barone Ur di Usedon, «una persona molto importante», tornerà alla sua sfrenata, vanitosa esistenza.

vinzenz  Sei fantastica. Non c’è niente ch’io ammiri come la tua vanità. A me manca completamente. È la tua qualità più notevole.[19]

Vinzenz si trova infine a dover ammettere che Alfa rappresenta la realizzazione pratica, inconsapevole e per questo più affascinante, del suo progetto di vivisezione della realtà per concretizzare il quale egli manca di capacità adeguate.

vinzenz  Per te è molto più facile. Se io avessi (accenna agli attributi femminili) i tuoi occhi parlanti, se fossi donna anch’io…

alfa […]  Ebbene, che faresti?

vinzenz  Io? Se fossi donna? Se potessi render felice col dimostrar loro un minimo di interesse? Vederli che mi aprono subito tutto il loro cuore, spontaneamente? Io, la loro notte di luna, il loro usignolo, il loro momento di debolezza? Non posso nemmeno pensarci, se no mi metto a piangere. Che cosa non potrebbe diventare, questo mondo, s’io fossi donna! – Ma me non mi amano, e così bisogna che mi nasconda. […][20]

Vinzenz, uomo senza qualità, non raggiunge, dunque, il suo «ideale di etica assoluta, in cui razionalismo e irrazionalità non si contraddicano ma si confermino a vicenda»[21]; Musil non risolve il suo problema esistenziale e ammette la propria inadeguatezza col giudizio che Walter esprime nei confronti di Ulrich: «Per lui nulla è saldo, tutto è trasformabile, parte di un intero, di innumerevoli interi che presumibilmente appartengono a un superintero, il quale però gli è del tutto ignoto. Così ogni sua risposta è una risposta parziale, ognuno dei suoi sentimenti è soltanto un punto di vista»[22]. Il compromesso, l’alternativa all’annichilimento, non può essere altro che una “soluzione parziale”:

vinzenz  […] Se non si riesce a seguire la propria vita, bisogna seguire quella di un altro. E allora la miglior cosa è non farlo per entusiasmo, ma per denaro. Per un uomo ambizioso non esistono che due possibilità: creare qualcosa di grande o fare il domestico. Per la prima ho troppa onestà, per la seconda ne ho proprio quanto basta. […][23]

Questo uomo cui difetta il senso della realtà, pervaso com’è dal musiliano senso della possibilità, è costretto ad affidarsi a uno di «quelli che nel mondo ci si sentono a casa loro»[24], come li descrive Thomas. Esausto, Vinzenz rinuncia a resistere: non riuscendo a “seguire la propria vita” seguirà quello di un “professionista della realtà”, assumerà cioè una personalità diversa, “difettosa”, scegliendo per sé un valore costante, una qualità che, attribuita ad una delle innumerevoli incognite del “calcolo” che rappresenta la realtà, gli permetterà di risolvere, pur artificiosamente e in modo parziale, il problema pressoché insolubile della propria esistenza.


[1]    Robert Musil, Vinzenz e l’amica degli uomini importanti, tr.it. di I.A. Chiusano, Einaudi, Torino 1962.

[2]   Aloisio Rendi, Prefazione a Robert Musil, Vinzenz e l’amica degli uomini importanti, tr.it. di I.A. Chiusano, Einaudi, Torino 1962, p. 9.

[3]   Robert Musil, Vinzenz e l’amica degli uomini importanti, Op.cit., p. 40.

[4]   Aloisio Rendi, Prefazione a Robert Musil, I fanatici, tr.it. di Anita Rho, Einaudi, Torino 1964, p. 7.

[5]   Aloisio Rendi, Prefazione a Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 8.

[6]   Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 25.

[7]   Aloisio Rendi, Prefazione a Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 8.

[8]   Robert Musil, I fanatici, Op.cit., p. 111.

[9]   Ivi, p. 136.

[10] Aloisio Rendi, Robert Musil, Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 98.

[11] Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 45.

[12] Robert Musil, I fanatici, Op.cit., pp. 109-110.

[13] Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., pp. 70-71.

[14] Ivi, p. 69.

[15] Enrico De Angelis, Robert Musil. Biografia e profilo critico, Einaudi, Torino 1982, p. 183.

[16] Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 70.

[17] Aloisio Rendi, Prefazione a Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 9.

[18] Ibidem («“Traumgau, tückischer Zaubervogel” […], com’egli aveva scritto in una lirica a sua moglie durante la guerra»).

[19] Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 72.

[20] Ivi, pp. 59-60.

[21] Aloisio Rendi, Robert Musil, Op.cit., p. 99.

[22] Robert Musil, L’uomo senza qualità, tr.it. di Anita Rho, Einaudi, Torino 1981, p. 60.

[23] Robert Musil, Vinzenz, Op.cit., p. 72.

[24] Robert Musil, I fanatici, Op.cit., p. 136.

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La Negazione filosofica – NIETZSCHE

Gianni Compagnone

A partire dalla visione che Nietzsche esprime ne La Nascita della Tragedia[1] e nelle Considerazioni Inattuali[2], si dipana il peristilio al tempio del suo pensiero ed in particolare al suo concetto di Nulla. L’origine di quest’ultimo sorge a partire dalla critica di Nietzsche allo storicismo visto come inesauribile messa in scena di maschere[3] che trova la sua stessa ragion d’essere in se stessa come esito iniziale e finale. Così la tragedia e la cultura storica pongono due diverse modalità di accostarsi al concetto dl Nulla: da un lato la saggezza terribile di Sileno[4] che afferma , rivolto al re Mida: “il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non esser nato! non essere! essere niente!”[5].

Dall’altro lato il non dare più spazio allo storicismo, poiché esso produce solo frammenti di realtà e di soggettività: entrambi esito di una fantasmatica interiorizzazione e formalizzazione della stessa soggettività, che porta all’azzeramento degli istinti e dei valori del corpo dionisiaci. Tutto ciò trasformò gli uomini in mere astrazioni, poiché l’esito della cultura storicista giunge ad un esito fideistico. La fede ha svalutato il mondo a favore dell’attesa di un aldilà. Così la realtà diventa un NULLA ma solo se si prende atto di questa manifestazione del mondo come abisso del Nulla, l’uomo raggiunge tale consapevolezza attraverso il dramma musicale greco, di cui l’opera wagneriana è il suo alter-ego moderno; il NULLA non va rimosso ma fronteggiato e poi superato con la creazione. Visione questa che ruota tutta nel momento della creazione e non sulla fruizione. La tragedia realizza la liberazione dal dominio della Volontà, che Schopenhauer aveva esposto nel “ Mondo come volontà e rappresentazione”[6], che i Greci superano col superamento nella “forma”. Ma con il sopraggiungere di Socrate ed Euripide il senso ultimo della natura viene tolto con il Logos che si sovrappone al Sensibile, al vivente, come enorme maschera e che infine la cultura storica incarna. Socrate è colui che verrà definito da Nietzsche come il “mistagogo” della scienza: l’universalità del sapere conduce così la scienza lontano dalla vita. Con Socrate nasce la storia delle idee universali, dimenticando l’uomo, la natura, la vita).

Con “Umano troppo umano”[7] siamo dinanzi alla svolta di Nietzsche: egli abbandona la forma che non è in grado di redimere la realtà e così supera anche Schopenhauer e rompe anche con Wagner. Nel I° cap. di “Umano troppo Umano” (prima edizione 1876) critica l’universo della fede , dell’arte, della morale ed ogni credenza consolidata e dismette il concetto di “Schwärmerei” come “fantasticheria o utopia” che era presente, in quanto esaltazione spirituale, tra le pagine della Nascita della tragedia e nel periodo schopenhaueriano[8] e wagneriano. Così nella II° edizione di Umano troppo umanodel 1886, l’arte, la religione, la metafisica divengono per Nietzsche “cose del passato”. In tal senso l’arte è considerata come un’evocatrice di morte poiché resuscita condizioni spirituali che non esistono più. Arte, Religione e Metafisica mostrano in superficie solo un’interiorità esuberante senza radici nel mondo oggettivo, poiché diventano solo produzioni spirituali nelle quali si rivela il bisogno umano di trascendenza. Da qui l’attacco al Cristianesimo[9] , al platonismo e al socratismo: il Cristianesimo esalta il trascendente rispetto al mondo. Tale esaltazione era già presente in Platone con la distinzione tra Mondo sensibile e Mondo ideale[10], con la conseguente svalutazione del sensibile e a tutto vantaggio del trionfo della cultura sovrasensibile, cui attingerà anche lo storicismo.

Nella Gaia Scienza[11]si giunge così all’aforisma 125 che riporta icasticamente la seguente comunicazione: Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso[12] . Dio muore al culmine della metafisica occidentale che ha cercato la verità sotto il velo dell’apparenza. Ma l’uomo ancora non ne ha contezza. Inoltre il gesto criminogeno, deicida, non deriva da una presa di posizione ateistica[13], ma è un evento che si è preparato lungo tutta la storia dell’occidente. Ma insieme a Dio in Nietzsche viene a cadere anche una certa idea dell’uomo[14].

Nel “Così parlò Zarathustra”[15] il pensiero di Nietzsche assume una postura sperimentale. La morte di Dio comporta anche la morte dell’uomo. Così la dipartita di Dio esige la formazione di una nuova umanità in grado di tollerare lo sgretolamento di ogni orizzonte che fa seguito al venir meno dell’Ente supremo. Non più una filosofia che possa riconciliarsi con la Natura[16] ma una filosofia proiettata verso un’ultraumanità capace di dire “Si” alla vita! Con atteggiamento pienamente affermativo. Da ciò emerge un uomo come un “cavo teso tra la bestia e il superuomo: un cavo al di sopra dell’abisso!  Aldilà dell’affascinante linguaggio profetico e metaforico, senza alcun intento ontologico e assiologico, Nietzsche passa in rassegna lo spirito venerante, il leone, il bambino, verso l’ultimo uomo: egli è colui che ha saputo della morte di Dio, eternizzando un presente senza aspettative e non crea. In seguito Nietzsche giunge all’uomo bestia che è il risultato più risentito e uccide Dio, ma pur sempre collocato in mezzo al gregge. L’uomo che viene dopo la morte di Dio non intende più un tempo lineare, come nella tradizione cristiano-neoplatonica ed escatologica, ed inoltre modifica e trasvaluta tutti valori rinunciando all’aldilà, eliminando lo stesso spazio trascendente. Nell’opera “Il Crepuscolo degli Idoli”[17] Nietzsche compie il passaggio per la nascita del mondo vero.[18]

Tornando all’opera della Gaia Scienza[19] all’aforisma 341, appare evidente di come Nietzsche parli di un “mondo insensato”, dopo l’avvenuta morte di Dio. Da ciò egli inserisce la dinamica dialettica dei campi di forza in cui si esercita la volontà di potenza.

L’analisi dell’Eterno ritorno dell’Egualeimplicherà, per alcuni, uno spostamento dell’asse “storia”e“creazione”, che non saranno più in conflitto, come avveniva nelle “Considerazioni inattuali” (II° considerazione inattuale) o “sull’utilità e il danno della storia per la vita”, rovesciando del tutto la prospettiva dello stesso “nichilismo attivo” di Nietzsche. Di modo che “senso ed “evento” coincidono: ossia Nietzsche rinuncia alla negazione totale di un senso, introducendo quest’ultimo non più come distante e altrove dalla realtà, ma presente esso stesso nella realtà storica.

Il mondo e un nuovo senso ( non più tuttavia divino), vengono così in “Al di là del bene e del male”[20] a congiungersi: la Storia si profila come un divenire senza escatonpoiché già tutto ha un senso ed il passato stesso è liberato da ogni estraneità.

Il Nietzsche maturo giunge così, con il prevalere dell’Historia sulle Res gestae, non più alla mortificazione della potenza creatrice dell’uomo, ma la storia si mostra come divinizzazione o forma dell’esistenza. Come se si profilasse una seconda creazione, dopo la morte di Dio, senza scopo e origine.

Ma questo passaggio ad un “senso di Nichilismo significante”, è appunto introdotto dalle comunicazioni dell’Eterno Ritorno dell’Eguale.

Le comunicazioni dell’Eterno Ritorno dell’Eguale sono ben quattro: la prima appare nella Gaia Scienza (1882), la seconda nel Così parlò Zarathustra (1884), la terza “aldilà del bene e del male” (1886), ed infine in Ecce Homo (1888). In entrambi i luoghi, aldilà della differente narrazione, Nietzsche, affinché togliesse del tutto dall’orizzonte degli eventi, la malcelata e cadaverica – dopo la sentenza “Dio è morto”- ombra divina, collega alla dottrina della Volontà di Potenza la stessa comunicazione dell’Eterno Ritorno in comparazione al problema del tempo, nella dimensione del Passato. Ebbene Nietzsche notò che l’unico ed ultimo “posto” dove ancora l’idea di Dio potesse essere ancora attiva era appunto il non-luogo del Passato. Poiché il Passato designa fatti ed eventi accaduti in un tempo trascorso che non c’è più e questo tuttavia significava anche inquadrare quei fatti, passati e accaduti, come immutabili nel tempo. E’ ovvio che nessuna cosa o fatto accaduto può essere “ripreso” per poi modificarlo[21]. Ossia il passato designa e sentenzia che i fatti passati sono fissati per sempre e resi immutabili nel tempo. Ma l’exit strategydi Nietzsche fu da lui stesso così annunciata: quella stessa Volontà di potenza che ha già accompagnato e dissolto l’Ente supremo, cioè Dio, sta sullo sfondo di ciò che è stato: poiché ciò che è stato, è stato sempre voluto o creato da una Volontà o Forza (umana o naturale) e quindi l’eterno ritorno dell’eguale è ciò che è continuamente voluto all’infinito. In tal modo la volontà di potenza, pur se declinata al passato, vorrà sempre e ancora una volta per sempre lo stesso gesto o fatto (naturale o umano; volontà inconscia o conscia) accaduto e quindi caduto nel passato. In tal modo il Passato non sarà più quella dimensione abissale dove riposa l’Essere permanente con sé (incarnato dal fatto o dal gesto in quanto accaduto e immodificabile), ma è semmai il territorio del continuo scorrere della Volontà che da sempre ed eternamente ha voluto quel gesto o quel fatto: un fiume in piena continuamente mobile e in atto: un precipitare continuo o dileguare della Permanenza in un eterno ritorno della Inconsistenza.

Alcune fuorvianti interpretazioni derivanti da opere, saggi e persino romanzi, daranno vita in seguito ad un’esegetica falsificatricein senso autoritario della visione di Nietzsche. Al netto delle manipolazioni vere e proprie operate sugli scritti postumi di Nietzsche (in particolare riferibili ai Frammenti Postumi[22]), si noti come, iniziando da alcuni racconti ispirati ai personaggi e agli animali di Nietzsche, da Zarathustra, all’aquila, fino al concetto di Volontà intesa come un insieme di Spirito ed Anima vitalistica, si è assistito ad una vera e propria mitologia nietzscheana[23].


[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi Ed.-Milano 1977; tr.it., S. Giametta

[2] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, Newton Compton ed.- Roma 1997

[3] N.d.a.: Si osservi l’analogia del termine mascherico e maschera che Marx riferisce al proprio mondo in quanto esiti di un camuffamento dei conflitti e delle opposizioni che si sono determinati storicamente.

[4] F, Nietzsche, La nascita della tragedia, ivi., III Cap.., pgg. 31-32 et al.

[5] Ivi

[6] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza Ed. 1984

[7] F. Nietzsche, Umano troppo umano, Adelphi Ed. 1982

[8] Si ricorda che l’arte per Schopenhauer sospende la Volontà come principio del Tutto, poiché la coscienza si libera mediante la stessa opera d’arte della volontà. Anche se solo la Musica, come forma d’arte suprema, rispetto alla stessa Tragedia greca, secondo Schopenhauer, libera realmente dalla Volontà poiché non è subordinata a quest’ultima.

[9] F. Nietzsche scrive che senza San Paolo il Cristianesimo sarebbe rimasta una setta orientale, poiché egli con la sua predicazione fornisce il nuovo credo di un impianto teologico-messianico.

[10] Platone, La Repubblica, Laterza ed., intr. M. Vegetti ., 2018

[11] F. Nietzsche, La Gaia scienza, Rusconi ed.,2010

[12] Si veda il saggio di M. Polselli, Teoria del corpo e morte di Dio., Stamen ed.2014, Roma

[13] Ossia Nietzsche vuole far intendere che l’affermazione Dio è morto non è una semplice ed immediata esclamazione emotiva che rapsodicamente un ateo qualsiasi, quasi come per una bestemmia, intende urlare. Tutt’ altro: la morte di Dio è l’esito ed il risultato di duemila anni di transito e cammino metafisico che non poteva non approdare a tale “scomparsa” di Dio stesso. La precisazione viene anche a rinfrancare la comune interpretazione che ex ante ne avrebbe dato lo stesso Hegel, allorquando appare nella stessa Fenomenologia dello Spirito, (Nuova Italia ed.1993 – La Religione II°vol. cap.VII., par. C. La religione disvelata; capov 81 pag.255), la stessa frase: Dio è morto: laddove Hegel intende con ciò riassumere il percorso tanatologico di Dio mediante l’impossibilità da parte della Coscienza Infelice di addivenire alla possibilità di autocomprendersi come assoluta ed intrasmutabile. La morte di Dio in Hegel svela piuttosto la morte dell’autocoscienza umana che ancora non ha raggiunto le vette dello Speculativo e dell’Universale, e che quindi il Dio morto sottende l’impossibilità di un Soggetto Assoluto. Per altre considerazioni sul concetto della morte di Dio in Hegel si rimanda al paragrafo ad esso riferito.

[14] Nel V° libro della Gaia Scienzala morte di Dio è posta in secondo piano poiché in primo piano Nietzsche colloca prospettive del tutto inedite giacché si schiudono orizzonti inusitati, poiché si distendono allo sguardo dello spirito libero sconfinati approdi.

[15] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi ed., tr.it. M.Montinari,1976

[16] In tal senso si richiama il pensiero di J. J. Rousseau con l’esaltazione della natura attraverso un senso romantico di essa, intesa come forza pacificatrice dello spirito e come inesauribile fonte di ispirazione.

[17] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi ed., tr.it. F. Masini , 1983

[18] Ivi

[19] F. Nietzsche, Gaia Scienza, Rusconi ed., 2010

[20] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi ed.,tr.it. F. Masini; 1977

[21] Probabilmente Nietzsche lesse e studiò alcuni principii teologici rigurdanti la problematica all’interno dell’onniscienza divina se e come Dio possa o non possa modificare i fatti accaduti nel passato.

[22] Il tema dell’interpretazione nazista della filosofia di Nietzsche sorge allorquando vi fu la pubblicazione postuma nel 1906 della Volontà di potenza avvenuta sotto la supervisione della sorella di Nietzsche, Elisabeth, che raccolse ed ordinò l’imponente mole di appunti scritti dal fratello, operando una serie di tagli ricuciture e manipolazioni al fine di dare non solo alla Volontà di potenza, ma a tutto il pensiero di Nietzsche una connotazione razzista e nazionalista. Solo con l’opera critica e le sue edizioni successive, portate avanti da Giorgio Colli e Mazzino Montinari negli anni settanta fu avviata una ripubblicazione filologicamente rigorosa di tutte le opere di Nietzsche, mettendo in discussione molte interpretazioni che partivano dalla lettura “falsata” della Volontà di Potenza del 1906. Quest’ultime sostenevano la vicinanza di Nietzsche alle correnti reazionarie di destra sfociate successivamente nella tragica esperienza del nazismo.

[23] A tale riguardo si vedano i seguenti romanzi : quello  di Hermann Conrad dal titolo “Adam Mensch” che allude ad un senso antisemita dell’opera di Nietzsche; Conradi nel romanzo “Purpurea Tenebra” viene celebrato , presso un popolo immaginario, i Teuta, il martire-patrono Zarathustra, il cui nome come per Jahwè, può essere pronunciato solo una volta all’anno; Adolf Wildebrandt che ebbe molto successo con il romanzo “ L’isola di Psqua”, dove comparte un certo Adler- aquila in tedesco-animale del “Così parlò Zarathustra” che alleva un Superuomo, dando inizio ad una visione “estetista” ed esaltatrice del Superuomo; Bertram che inaugura il mitologismo di Nietzsche; Klages che afferma che Nietzsche va oltre il soggetto, superando la contrapposizione di soggetto-oggetto. Mentre giudica la Volontà come Spirito che ingloba l’anima vivente fino a fondersi in un unico Erlebnis.

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Ritorno al Nichilismo Ontologico

Lettura Post-Hegeliana del Nulla
Laura Giannelli

L’Idea-Nulla, il Nulla logico di cui è questione al § 87, non è quel Nulla concreto, elaborato e carico di positività che ritroveremo costantemente nelle forme più ricche e complesse della negatività esemplificate dalle categorie ulteriori della Logica. Il Nulla con cui il Pensiero logico ha a che fare in questo momento preciso dello sviluppo del suo pensiero di sé non è che questo Nulla immediato e uguale a sé che abbiamo descritto come essente, insieme all’Essere, l’inizio dell’Idea logica.Il Nulla immediato, uguale a se stesso. E prima di tutto: Nulla immediato, allo stesso tempo retrospettivamente e prospettivamente. Retrospettivamente perché il Nulla che qui sorge non è in “rapporto” con l’Essere puro che è trapassato in lui – ci fermeremo tra breve su questo punto nel commentare il punto 1) della Nota. Prospettivamente in quanto la pura negatività che qui si afferma nella sua più totale astrazione non è ancora combinata con la positività dell’Essere al fine di offrire una categoria complessa in cui, sia il Nulla che l’Essere, rivestano un significato concreto. Successivamente: Nulla uguale a se stesso: quest’espressione ha all’incirca la stessa portata della precedente: designa la stessa astrazione, retrospettiva e prospettiva, del Nulla, ma lo fa più positivamente e più immediatamente poiché ne sottolinea l’aspetto di “continuità” proprio dell’immediata coincidenza con sé del nulla di pensiero[1]. Per questo motivo, tale seconda espressione introduce meglio della prima quanto segue, cioè il passaggio dal Nulla alla Positività o alla coincidenza con sé dell’Essere. In effetti, come l’Essere puro era il Nulla, inversamente, il puro Nulla, in quanto Nulla immediato, uguale a se stesso, è la stessa cosa che l’Essere. Esso è innanzitutto e formalmente – se la distinzione tra forma e materia ha un senso qui – la stessa immediatezza e la stessa uguaglianza con sé proprie dell’Essere: il Nulla è, infatti, assolutamente immediato e uguale a sé come lo è l’Essere o, piuttosto, esso è, come l’Essere, l’assolutamente immediato e l’assolutamente identico a sé. Da ciò segue che esso è, materialmente – ma materia e forma coincidono qui ancora completamente – la stessa cosa che l’Essere; il Nulla ha lo stesso contenuto o meglio, la stessa assenza di contenuto dell’Essere; è la stessa astrazione pura, lo stesso immediato, indeterminato e semplice. “Il Nulla è così la stessa determinazione o piuttosto la stessa indeterminazione e di qua, assolutamente parlando, la stessa cosa che l’Essere puro”[2]. Il Nulla è dunque la stessa cosa che l’Essere. “La stessa cosa” (dasselbe) non è una categoria esplicitamente definita della Logica e tuttavia ha il suo posto nella dottrina dell’Essenza al § 118; il suo significato si apparenta a quello di uguaglianza, del quale è precisamente detto, in quel paragrafo, che “è un’identità soltanto tra termini tali da non essere affatto gli stessi”: l’uguaglianza non ha cioè senso se non tra due termini che differiscono tra loro. Allo stesso modo, “la stessa cosa” implica dunque una non identità o, più esattamente, una diversità tra i termini che compara. Pertanto è corretto affermare che l’Essere e il Nulla sono assolutamente diversi e dunque che l’uno non è ciò che l’altro è. In effetti, l’Essere mira a una positività assoluta mentre il Nulla mira a una negatività assoluta. Ma, precisamente, non si tratta che di un semplice riferimento o intenzione (Meinung) e, similmente, la differenza tra loro non è che una semplice intenzione anch’essa in quanto, essendo entrambi, sia l’essere che il Nulla, ancora e null’altro che l’immediato assolutamente indeterminato, non è possibile assegnare loro concettualmente qualsivoglia caratteristica atta a distinguerli. Sebbene vi sia dunque una differenza tra loro, in quanto però essa non è determinabile qui e non può esserlo in questi stessi termini, questa differenza è propriamente indicibile, una semplice opinione soggettiva. Essendo l’Essere la stessa cosa che il Nulla e viceversa, – e questo nel senso preciso dell’espressione “la stessa cosa” che è stato appena definito – è possibile affermare che la verità dell’Essere, così come quella del Nulla, è l’unità dei due. Quest’espressione “la verità di…” è tipica del linguaggio hegeliano. Essa implica ogni volta che l’entità designata dal genitivo che segue non ha un’esistenza vera in se stessa ma in un’entità più grande che la contiene come uno dei suoi momenti. All’occorrenza dunque, quest’espressione significa che l’Essere e il Nulla non esistono veramente e concretamente se non nella loro unità e non quindi, nella loro separazione o nel loro essere isolati. Ne è una prova il fatto che l’Essere puro, preso in se stesso, coincide e fa tutt’uno col Nulla (§ 87) e che, dal canto suo, il Nulla, preso in se stesso, è la stessa cosa che l’Essere (§ 88). La verità dei due è pertanto la loro unità. L’unità è una categoria relativamente indeterminata della Logica. Non è tematizzata che due volte, al § 100 e al § 102, nella Logica della Quantità, ossia in quella sfera dell’Essere in cui, come vedremo, la determinazione di quest’ultimo gli è esteriore e indifferente. L’”unità” è gravata della stessa superficialità della sfera in cui appare. Essa designa al § 100 la continuità che collega le componenti discontinue del “Discreto” per il fatto che l’elemento costitutivo della molteplicità di quest’ultimo è sempre lo stesso “Uno”. Similmente, al § 102, l’”unità” designa uno dei due aspetti qualitativi del nome, quello che, a differenza dell’aspetto discreto o discontinuo del suo “ammontare” o “valore numerico”, lo costituisce seguendo il suo momento di continuità, come un certo numero, un tutto numerico o, precisamente, un’“unità” numerica. L’unità designa dunque, propriamente, un’unione abbastanza debole, alquanto esteriore, simile a quella che fa si che i dieci “uni” riuniti nel numero dieci, per esempio, forminouna decina, un insieme dotato di una certa “unità”. È in questo senso debole e relativamente indeterminato che questa categoria appare nella Logica, a meno che un aggettivo non ne venga a precisare la portata (“unità assoluta”, “unità negativa” ecc.). Per questo Hegel, nelle note, mette più volte in guardia il lettore rispetto a ciò che una tale espressione ha di unilaterale, zoppicante e indeterminato, a ciò che essa ha perciò di inesatto, se non addirittura falso[3]. Noi ci torneremo commentando il punto 4) della Nota al nostro paragrafo. Espressa in termini ancora vaghi e imprecisi, la verità dell’Essere, così come del Nulla, è quindi l’unità dei due. Espressa correttamente, secondo la sua specifica verità, questa unità è il Divenire. In questa sede, quel che importa è cogliere il Divenire nella sua indeterminazione e dunque 1) di non identificarlo col cambiamento, il quale non apparirà che successivamente, al § 92, né, ancor meno, col movimento,che è piuttosto un concetto della Filosofia della Natura e 2) di non ridurlo a una sola delle sue due specie o direzioni o, a uno solo dei suoi due momenti, il NASCERE (Entstehen, generatio), con l’esclusione dell’altro, il MORIRE (Vergehen, corruptio)[4]. Noi non ci occuperemo qui del movimento in quanto esso è una realtà della natura e non del pensiero logico. Quanto al cambiamento o all’alterazione (Veränderung), qui si tratta già di un divenire concreto i cui due termini non sono più l’Essere e il Nulla, ma piuttosto due “Qualcosa” (Etwas) di cui uno è l’altro dell’altro e viceversa[5]. Conviene, infine, non cedere alle suggestioni della rappresentazione che ci portano a identificare il Divenire col solo “nascere”. L’Essere e il Nulla sono, in effetti, lo abbiamo detto, distinti l’uno dall’altro nonostante l’unità per cui e secondo la quale essi sono la stessa cosa. Se si tiene conto di questa distinzione, bisognerà dire che, in essa, è ognuno dei due che è unità con l’altro. Il Divenire contiene dunque una doppia unità dell’Essere e del Nulla: a) quella che, partendo dal Nulla, è costituita dal passaggio dal Nulla all’Essere: è il “Nascere” e b) quella che, partendo dall’Essere, è costituita dal passaggio dell’Essere nel Nulla: è lo “scomparire”, il “venir meno”, il “perire”. Il Pensiero o l’Assoluto è contemporaneamente Divenire in queste due direzioni distinte, due direzioni che si penetrano e paralizzano reciprocamente perché il Nulla passa nell’Essere, l’Essere passa nel Nulla e questo, inversamente, nell’Essere, ecc.[6]. Lungo tutta la Logica e ovunque nelle altre sfere dell’Idea avverrà quindi, – ma questa è una delle definizioni più povere del Pensiero – che l’Assoluto, se colto nella sua immediatezza, è Divenire, puro Divenire, l’apparire e l’oscurarsi. E questo è ciò che si è già verificato nell’apparire e nell’oscurarsi delle due prime categorie della Logica: l’Essere e il Nulla[7].Per il nostro commento prenderemo in considerazione solo i punti 1) e 4) insieme all’ultima parte del punto 3). Le altre parti sono infatti sufficientemente chiare da non necessitare di essere ulteriormente riprese. Come abbiamo appena fatto, l’unità dell’Essere e del Nulla è uno dei compiti più ardui per il pensiero giacché Essere e Nulla sono l’opposizione in tutta la sua immediatezza. Essere e Nulla sono opposizione. In effetti, come si è visto, l’uno non è ciò che l’altro è, ciascuno è piuttosto l’opposto in senso stretto dell’altro, in quanto il primo mira a una positività assoluta e il secondo a una negatività assoluta. Essere e Nulla sono in tal senso l’opposizione in tutta la sua immediatezza. Di fatto, una mediazione qualunque di questa opposizione presupporrebbe che, in uno dei due o in entrambi, una determinazione che contenga la loro reciproca relazione sia posta esplicitamente. E questo tuttavia non può essere il caso in questione poiché Essere e Nulla sono, tutti e due, la pura astrazione dell’immediatezza assoluta. Essi sono dunque, per definizione, senza rapporto, senza riferimento l’uno all’altro nonostante essi siano essenzialmente la stessa cosa l’uno e l’altro. La determinazione comune che li fa trapassare l’uno nell’altro e, in questo senso, li mette in rapporto è però e a pieno titolo contenuta in essi: è la determinazione che consiste nel non averne alcuna. Ma il rapporto o la relazione o, più esattamente, il passaggio dall’uno all’altro non può essere reso manifesto o posto esplicitamente in nessuno dei due in quanto entrambi non sono altro che il puro immediato denudato di ogni rapporto. È per questo motivo che, se la deduzione della loro unità è in un senso interamente analitica e necessaria, in quanto necessita, per ottenerla, di porre esplicitamente nell’uno l’astrazione o l’immediatezza già contenuta nell’altro, questa deduzione è ugualmente e interamente sintetica poiché, in ragione dell’assenza di ogni rapporto esplicito tra i due, c’è, dall’uno all’altro, a dispetto della loro identità, una totale discontinuità. Così è in questi primi paragrafi della Logica che si verifica al massimo l’affermazione del § 84 secondo cui, nella sfera dell’Essere in generale, la determinazione ulteriore e progressiva delle categorie è un Über-gehen in Anderes,[8], un passaggio discontinuo, sebbene necessario, di una categoria in un’altra. C’è, per così dire, una sostituzione del Nulla all’Essere e dell’Essere al Nulla; essi non rinviano l’uno all’altro; o, per impiegare il linguaggio della Logica dell’Essenza, essi non si “rispecchiano”, non si “riflettono” in nessuna maniera, l’uno sull’altro. Semplicemente, in ragione della loro identità, trapassano o, più esattamente, sono da sempre già trapassati l’uno nell’altro[9]. Ed è questo e nient’altro ciò che fa la loro unità nel Divenire. Qualora si cerchi, al fine di rappresentarsi l’unità di Essere e Nulla, un esempio in grado di aiutare l’immaginazione, ci si potrebbe appoggiare non soltanto sulla rappresentazione che ciascuno si fa spontaneamente del Divenire, ma anche su quella del Cominciamento. In effetti, quando una cosa comincia, essa non è ancora e, in questo senso, essa è Nulla; eppure, proprio in quanto essa comincia, essa non è puramente e semplicemente nulla ma essa è anche e già Essere. Il cominciamento è dunque, come il Divenire, unità nella distinzione, dell’Essere e del Nulla e si potrebbe quindi, a scopo pedagogico, cominciare la Logica con la rappresentazione del puro cominciamento (del pensiero), anche a costo di analizzarlo solo in seguito da un punto di vista concettuale, e questo al fine di estrarne le due categorie più originali dell’Essere e del Nulla insieme alla loro unità, accettando così quest’ultima più agevolmente. Ciò nondimeno, il Divenire resta la sola espressione davvero appropriata dell’unità originaria dell’Essere e del Nulla. La rappresentazione del Cominciamento suggerisce, in effetti, nel contempo troppo e troppo poco. Suggerisce troppo poiché essa esprime già il riferimento esplicito alla progressione ulteriore e di là sorpassa l’immediatezza che deve ancora caratterizzare il puro Divenire. Suggerisce, invece, troppo poco, giacché, sebbene permetta di apprendere con l’immaginazione il momento della nascita all’interno del Divenire, essa distoglie nondimeno l’attenzione dall’altro momento indissociabile del Divenire, il morire.Come è stato già detto nel commento al § 88, espressioni come “Essere e Nulla sono la stessa cosa” o “l’unità dell’Essere e del Nulla” sono soggette a cauzione: la prima perché non dice insieme che l’Essere e il Nulla sono diversi, la seconda perché, in ragione del carattere superficiale e indeterminato della categoria di unità, rischia anch’essa di essere unilaterale e di far risultare esclusivamente l’unità di Essere e Nulla a discapito della diversità, la quale però è presente ugualmente perché è dell’Essere e del Nulla e dunque è solo rispetto a due categorie distinte che l’unità è posta in quest’espressione. Anche Hegel conclude affermando che una determinazione speculativa del pensiero non può essere espressa correttamente nella forma di una proposizione come quella del § 88: “la verità dell’Essere, così come quella del Nulla è l’unità dei due”[10], giacché ciò che deve essere colto è sì l’unità, ma l’unità nella diversità e questo fatto implica che quest’ultima sia nello stesso tempo esistente e posta. Ora, non è questo il caso allorché si usa un’espressione come “l’unità dei due” dove la distinzione non è presente che sussidiariamente nel genitivo “dei due”. Solo il Divenire è la corretta espressione dell’unità che risulta dalla dialettica tra Essere e Nulla. Il Divenire, in effetti, evoca un movimento incessante, una pura mobilità dei suoi momenti. Non c’è nulla in esso che sia stabile, fisso o statico. Questo avviene in quanto il Divenire non è solo l’unità dell’Essere e del Nulla, con ciò che questo termine “unità” implica volentieri di fisso e di non processuale: esso è piuttosto l’irrequietezza in sé, la pura inquietudine, l’assoluto non riposo; l’unificazione in atto più che l’unità perfetta. Esso è unità certo, ma l’unità che non è tale solo in quanto relazione-a-sé priva di movimento – come se il Divenire fosse una cosa che riposa nella calma di se stesso: esso è piuttosto qualcosa che si rinnega costantemente esso stesso, che si rivolta polemicamente contro se stesso in ragione della distinzione, presente nel Divenire, tra l’Essere e il Nulla. Per contro, la categoria che segue, ovvero quella dell’Essere Determinato sarà la stessa unità dell’Essere e il Nulla, ma stavolta precisamente nella forma unilaterale dell’unità fissa e statica. L’Essere determinato è perciò unilaterale e finito. L’opposizione è come se fosse sparita essendo contenuta nell’unità solo implicitamente, senza cioè essere posta in essa.


[1]    Il senso preciso della categoria di “uguaglianza” sarà tematizzato nella logica dell’Essenza ai §§ 117-118.

[2]    Cfr. L. I, 67b.

[3]    Cfr. § 88, Nota; 4, 95, Nota, 215, Nota, 573, Nota; L. I, 77a.

[4]    Cfr. § 89, Nota.

[5]    Cfr. L. I, 103c.

[6]    Cfr. L. I, 92b-93b.

[7]    Quest’esempio non è adeguato nella misura in cui vi si fa astrazione dal carattere determinato delle due categorie che sono sorte e scomparse. Conviene dunque trattenerne, per adesso, soltanto il pensiero di un apparire e di un oscurarsi puri.

[8]    Tra-passare in altro

[9]    L’Essere e il Nulla sono dunque ben distinti nel Divenire, ma di una distinzione che si dissolve immediatamente. – A proposito di questo passaggio dell’Essere nel Nulla e viceversa, Hegel nota che Übergehen(trapassare) è sensibilmente sinonimo di Werden (divenire) nella sfumatura per cui, nel primo, i due termini che passano l’uno nell’altro sono prevalentemente considerati come riposanti tranquillamente l’uno fuori dell’altro, al punto tale che ci si rappresenta il passaggio alla stregua di un movimento che si produce tra loro e non in loro.

[10]   Si veda anche L. I, 75b, 76.

Pubblicato in Numero 18 | Commenti disabilitati su Ritorno al Nichilismo Ontologico

L’Assolutamente Altro

Ganz Anderes
Alberto Iannelli

Nell’arco teso tra un agile giro di stagioni, flebile fruscio d’ali nella storia dell’uomo, cinque pensatori capitali e decisivi per le sorti del Novecento convergono, certamente principiando da differenti terreni e mirando orizzonti altri, presso l’uno della Trascendenza o, piuttosto, usando l’espressione del primo tra loro, dell’assolutamente o totalmente Altro (ganz Anderes).

È il 1917 dunque, quando Rudolf Otto, ricercando i fondamenti irrazionali del darsi del divino all’uomo, pubblica la sua opera più celebre e cruciale: Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen (Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione col razionale):

 

Assunto nel suo valore universale e sbiadito (il mysterium [tremendum e fascinans], aggiunta nostra) significa solamente segreto, nel senso di straniero a noi, di incompreso, di inesplicato, e in quanto mysterium costituisce quel che è da noi considerato una pura nozione analogica, ricavata dall’ambito del naturale, senza che effettivamente attinga la realtà. In se stesso però, il misterioso religioso, l’autentico mirum, è, se vogliamo coglierlo nell’essenza più tipica, il Totalmente altro, il tháteron, l’anyad, l’alienum, l’aliud valde, l’estraneo, e ciò che riempie di stupore, quello che è al di là della sfera usuale, del comprensibile, del familiare, e per questo “nascosto”, assolutamente fuori dall’ordinario, e colmante quindi lo spirito di sbigottito stupore.[1]

Undici anni dopo, il fondatore dell’antropologia filosofica, Max Scheler, ne La posizione dell’uomo nel cosmo (Die Stellung des Menschen im Kosmos), escutendo l’origine dell’irriducibile alterità della “natura umana” rispetto alla Vita stessa, raggiungerà parimenti la cifra e l’orizzonte della medesima Ulteriorità inseitale:

 

L’“uomo”, inteso in questo senso del tutto nuovo, è l’intenzione e il gesto della “trascendenza” stessa […]. Questi è solo un “infra”, una “frontiera”, un “passaggio”, un “apparire di Dio nel corso della vita”, e un’eterna “trascendenza della vita stessa” […]. Il fuoco, la passione di trascendersi – si chiami la méta, “superuomo” o “Dio” – costituisce l’unica sua vera umanità […]. Per quanto mi concerne, io rifiuto ambedue queste teorie, nell’atto di affermare che l’essenza dell’uomo, insieme con quella che possiamo definire la sua “posizione particolare”, trascendono ciò che chiamiamo intelligenza e facoltà di scelta, e non possono essere intese, neanche aumentando queste due facoltà quantitativamente all’infinito. Ma sarebbe altrettanto sbagliato considerare quell’elemento nuovo che rende l’uomo tale, esclusivamente come un grado essenziale […] di quella facoltà e funzioni pertinenti alla sfera psichica e vitale, e il cui studio rientrerebbe nell’ambito della psicologia e della biologia. Il principio nuovo si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come “vita” […]. Il principio nuovo si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come “vita”. Ciò che fa sì che l’uomo sia veramente “uomo”, non è un nuovo stadio della vita —e neppure una delle sue manifestazioni, la “psiche” —, ma è un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell’uomo: un fatto essenzialmente e autenticamente nuovo che come tale non può essere ricondotto alla “evoluzione naturale della vita”; ma semmai, solo al fondamento ultimo delle cose stesse: a quello stesso fondamento dunque, di cui “vita” non è che una manifestazione […]. La caratteristica fondamentale di un essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica, consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la “vita” e con quanto essa abbraccia, e quindi altresì dal legame con la propria “intelligenza” ancora sottomessa alla tendenza. Un essere “spirituale” non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è “libero”, e perciò “aperto al mondo”; un essere siffatto possiede un suo “mondo”, ed è altresì capace di trasformare quei centri di “resistenza” e di reazione del suo ambiente, che originariamente anch’egli possiede (i soli per l’animale che vi è immerso extaticamente) in “oggetti” […]. Solo l’uomo, in quanto persona, è in grado di elevarsi al di sopra di se stesso come essere vivente, e, partendo da un centro che trascenda il suo mondo spazio-temporale, è in gradi di trasformare ogni cosa, compreso se stesso, in oggetto di conoscenza. Così l’uomo, come essere spirituale, è posto al di sopra del suo stesso essere vitale e del mondo.[2]

 

Di lì a poco, nel 1931, l’altro grande pensatore della disciplina da Scheler stesso nominalmente definita, Helmuth Plessner, in Potere e natura umana (Macht und menschliche Natur), nel tentativo di sottrarre l’antropico e la solo sua imperscrutabilità o abissalità esistenziale, la solo sua propria altresì “dimensione oscuro-potestativa”, da qualsivoglia definizione meta-storica della sua essenza, confinandone una volta e per sempre l’insé entro una struttura formale e universalmente valida, giungerà a evocare egualmente la dimensione dell’Alterità o Al-di-là radicale:

 

In tutti i caratteri della situazione si esprime quella situazione intermedia tra un ambiente chiuso di rimandi circolari tra riferimenti che danno e ricevono senso, ed il mondo aperto della realtà infondata: una posizione per la quale nulla stabilisce senza essere a sua volta stabilito, e nulla può essere stabilito senza a sua volta stabilire. È ben per questo che tempi precedenti al nostro hanno considerato l’uomo tra Dio e la bestia; fra la bestia – che vive in un ambiente in accordo con le sue funzioni, in una sfera di significanza puramente relativa alla sua esistenza – e Dio, come volontà e occhio a cui l’aperta infinitezza della realtà è anch’essa attualmente presente. In tale posizione intermedia, l’uomo si trova racchiuso da orizzonti, e la sua situazione è frammentata in un aldiqua e in un aldilà di quello che è di volta in volta l’orizzonte. Racchiuso eppure esposto, egli è così l’essere carente che spera, aspetta, desidera, si dà da fare, vuole, interroga […]. Questo vivere soltanto nell’autoprecedersi di una condotta di vita, esprime la sua indefinita infinitezza del dover–sempre– andare–oltre, intrecciata con la presente ed attuale infinità del mondo aperto, ovvero la sua finitudine. Ma questa finitudine non è la pura finitudine dell’animale, il quale può esaurire i suoi bisogni nel proprio mondo, mondo che è in se stesso finito. Essa è una finitudine intrecciata con l’infinitezza […]. Perciò ogni immediatezza ha luogo per lui soltanto in una mediazione, ogni purezza solo nell’intorbidimento, ogni compattezza soltanto in una frattura […]. Solo se si dirige lo sguardo sull’uomo come potere e sapere egli rimane una questione aperta, e si rinuncia a una precisa determinazione di essenza al di qua o al di là della storia passata ed a venire, che lo determini materialmente o formalmente in qualche struttura che già esiste ovunque si tratti di parlare dell’uomo […]. Essere e poter essere (vale a dire essere la propria possibilità) è “più” del solo essere; e poiché, secondo un antico principio ontologico, la possibilità è superiore alla realtà, il “può” è superiore (ovvero: “più profondo”) rispetto allo “è”, e lo “è” si basa sul “può” […]. Essere–uomo è l’altro del proprio stesso essere. Soltanto la sua trasparente visibilità in un altro regno lo attesta come aperta imperscrutabilità […]. In quanto anch’egli è l’altro da se stesso, l’uomo è una cosa, un corpo, un essente tra essenti che si trova sulla terra […]. Egli dovrà sempre servirsi di questo ‘di più’ immanente alla sua prospettiva di interiorità contro l’identificarsi della propria essenza con il corpo (quale altro di se stesso) […]. L’altro di se stesso egli lo distanzia da sé e lo rende così un altro rispetto a se stesso […]. Cosa e potere collidono costituendo nel collegamento “e” quel composto che è l’uomo, che fissa nella trasparenza l’unità, mediata dal nulla, della sua essenza aperta […]. Egli possiede una “profonda” essenza segreta: il potere dell’esistenza che si manifesta da sé (l’autopotestatività, aggiunta nostra) […]. Egli, in quanto posizione eccentrica dell’in–sé oltre–di–sé, è l’altro di se stesso.[3]

 

Pressoché, come detto, nel medesimo torno d’anni, Martin Heidegger, pensatore per il quale il cifrarsi destinale della Differenza, intesa a punto come irriducibile alterità da ogni ente, rappresenta, autenticamente, l’Essere stesso, ossia il Ni-ente-che-è, il fondamento a-bissale epperò entro la cui storia ogni sopraggiungenza ulteriore si dà – via via ovvero articolandosi nel Tempo – nell’orizzonte della presenza e nella distintività, parlerà, in cammino verso l’Essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes, 1929), della Trascendenza come del carattere ipseitale dell’esserci (dell’Uomo):

 

Nell’accezione terminologica che qui ci proponiamo di chiarire e di giustificare, la trascendenza significa qualcosa che è proprio dell’esserci umano, non però come un suo comportamento possibile fra altri, talvolta attuato, talvolta no, ma come costituzione fondamentale di questo ente che precede qualsiasi comportamento […]. Nell’oltrepassamento, l’esserci perviene anzitutto a quell’ente che esso è, e vi perviene come a se “stesso”. La trascendenza costituisce l’ipseità […]. Ciò rispetto a cui l’esserci, come tale, trascende, noi lo chiamiamo il mondo, e determiniamo ora la trascendenza come essere–nel–mondo. Il mondo è costitutivo della struttura unitaria della trascendenza; in quanto fa parte di essa, diciamo che il concetto di mondo è trascendentale […]. In che senso dimora nella trascendenza l’intrinseca possibilità di qualcosa come il fondamento in generale? Il mondo si dà all’esserci come la rispettiva totalità dell’“in vista di” se stesso […]. In questo modo l’esserci può essere in rapporto con se stesso in quanto tale, solo se oltrepassa “se stesso” nell’“in vista di”. Questo oltrepassamento “in vista di” accade solo in una “volontà” che, come tale, si progetta nelle sue possibilità. Questa volontà, che per essenza progetta e quindi getta oltre l’esserci l’“in vista di” se stesso, non può dunque essere un volere determinato, un “atto di volontà” da distinguere da altri comportamenti […]. Ogni progetto di un mondo è dunque un progetto gettato. La chiarificazione dell’essenza della finitezza dell’esserci, che prende le mosse dalla costituzione del suo essere, deve precedere tutte le “ovvie” posizioni della “natura” finita dell’uomo, tutte le descrizioni delle proprietà derivanti dalla finitezza, e quindi anche più che mai tutte le “spiegazioni” avventate circa la loro provenienza ontica. L’essenza della finitezza dell’esserci si svela nella trascendenza come libertà di fondamento. E così l’uomo, che come trascendenza esistente si slancia in avanti verso delle possibilità, è un essere della lontananza. Solo attraverso lontananze originarie che egli si forma nella sua trascendenza rispetto a ogni ente, cresce in lui la vera vicinanza alle cose”.[4]

 

E, ancora (in Was ist Metaphysik?, 1929), evocando precisamente la relazione tra apertura dell’ulteriorità o possibilità della differenza e nullità del fondamento autentico:

 

Esserci vuol dire: trovarsi ritenuti interiormente al niente. Tenendosi interiormente al niente l’essere esistenziale è già sopra e al di là dell’essente nella totalità. Questo essere “al di là e sopra” l’essente noi lo chiamiamo Trascendenza. Se l’essere esistenziale nel fondo della sua essenza non trascendesse, ossia — come ora possiamo dire — non si tenesse interiormente sin da principio nel niente, non potrebbe mai riferirsi all’essente, e però neanche a se stesso. Senza un’originaria rivelazione del niente non c’è un essere se stesso, non c’è libertà.[5]

 

Infine, nel 1932, Karl Jaspers, postosi sulle tracce dell’essenza del filosofare come interrogazione oltre-passante, parlerà, nella sua Metafisica, del naufragio come cifra ultima del darsi della Trascendenza:

 

L’esistenza è ciò che non diventa mai oggetto, è l’origine, partendo dalla quale io penso e agisco, e sulla quale io parlo in una successione di pensieri che non giungono a conoscere nulla; l’esistenza è ciò che si rapporta a se stessa, e, in ciò, alla sua Trascendenza […]. Ciò ch’è il mondo lo colgo come essere in quanto sono coscienza in generale; l’esistenza, invece, può essere colta con certezza solo nel trascendere dell’esistenza possibile […]. L’essere autentico, che non è possibile trovare in un significato conoscibile, lo si deve cercare nella sua Trascendenza, con la quale entra in relazione non la coscienza in generale, ma solo e sempre l’esistenza […]. Del mondo, che come tale non è oggettivo, possiedo solo una certezza chiarificatrice in una oggettivazione inadeguata. Questo essere non-oggettivo è l’esistenza quando, nella propria origine, mi si può rendere presente in quanto io sono me stesso; si chiama Trascendenza quando esiste nella forma oggettiva della cifra, sì da rendersi comprensibile solo all’esistenza […]. La finitezza non può essere superata se non nel naufragio stesso. Se io estinguo il tempo nella contemplazione metafisica del naufragio senza sperimentare la sua realtà, allora ritorno più decisamente alla finitezza dell’esserci. Chi invece cancella il tempo nel vero e proprio naufragio non torna indietro; inaccessibile a ciò che permane, esige dall’esserci finito di lasciare intatto l’essere della Trascendenza. Non si tratta di sapere perché c’è il mondo; forse è possibile sperimentarlo nel naufragio, ma allora non lo si può più dire. Nell’esserci, davanti all’essere in vista del naufragio, insieme al pensiero cessa anche la parola. Di fronte al silenzio che regna nell’esserci, solo il silenzio è possibile. Ma se la risposta vorrà rompere il silenzio, allora parlerà senza dire nulla […]. Solo davanti alla cifra che non si può interpretare, la fine del mondo diventa finalmente l’essere. Mentre per il sapere ogni fine è nel mondo e nel tempo, e non è mai una fine del mondo e del tempo, il silenzio, al cospetto della cifra enigmatica del naufragio universale, si trova in relazione all’essere della Trascendenza, di fronte al quale il mondo è andato perduto. Il non-essere di tutto l’essere che ci è accessibile, il non-essere che si rivela nel naufragio, è l’essere della Trascendenza.[6]

 

Certo, ogni comparatistica adeguatamente fondata non può prescindere dal rinvenire le possibili cause di una sorgenza concettuale comune anzitutto nella comune afferenza all’orizzonte anzitutto concettuale (nonché, come detto, crono-topico e oltracciò linguistico), per cui sarebbe sufficiente parlare di milieux e di mutue influenze.

E non certo ciò si vuol misconoscere, bensì, piuttosto, precisamente affermarlo proprio per trascenderlo in direzione di una più ambiziosa ricerca che sappia indicare il fondamento stesso di quel medesimo orizzonte loro comune fondamento all’emersione del concetto della Trascendenza.

Nondimeno, per poter ciò compiere, dobbiamo antecedere essa perimetrazione prospettivale prettamente primonovecentesca, dobbiamo antecederla ossia ampliarla in direzione dell’Origine stessa dell’Uomo e della (sua) Storia, egualmente dell’E-vento della Trascendenza o Dia-vergenza d’Orizzonte, allo scopo di indicare l’insorgenza concettuale comune da cui siamo partiti quale elettivo epifenomeno, ostensosi con necessità lungo il sentiero del Giorno, dell’enantio-articolarsi strutturalmente mono-duale della Notte originaria.

Non possiamo non ulteriormente rimandare a Δ[7] l’elevazione dei fondamenti dell’affermazione che evoca nell’Origine la coimplicazione endiadica di permanenza-e-ulteriorità nell’immediatamente auto-principiativo pro-porsi presso permanenza (= enadità) dell’Ulteriorità-da-ogni-permanenza (= diadità), nell’immanente altresì ante-(de-)posizione autoctica – e, ispeitalmente endo-di-varicativa o intro-contrastativa, auto-generativa del proprio orizzonte ultimo o sempre ulteriore di compimento – del sé dell’in-sé Trascendenza-da-ogni-posizione-che-permane o Pro-lessi estrema: precisamente essa trascendentale o sempre escate di(a)-lacerazione archea, intimamente o identitariamente coalita, della Dia-vergenza assoluta o a punto ipseitale pro-schiude, nella proto-decisione o partizione prisca (Ur-teilung) dell’Uno-in-sé-diviso, essa di-mensione della Dif-ferenza heideggeriana o dell’ascetica “protestazione” “contro tutto ciò che è soltanto vita e realtà” di Scheler, dell’eccentricità autopotestativa di Plessner o del naufragio dell’inseità dell’esistenza di Jasper, come esattamente del Totalmente Altro di Rudolf Otto, essa dimensione ex-statica ebbene esclusivamente avvenendo e autenticamente dimorando entro la quale l’Uomo stesso è ed è se stesso quale facitore di quella medesima Seinsgeschichte precisamente coinvolta nel contro-strutturarsi per epoche (ed epoché o apofaticamente) della predetta Notte originaria.

Ebbene, ciò prestamente preposto, è nostra volontà avanzare la tesi secondo la quale l’emergere comune della Trascendenza in opere e pensieri come affermato sì capitali per la storia del Novecento, e in anni sì decisivi per la contro-vicenda dell’Originario, corrisponda precisamente al pressoché incipiente lì – e ancor più qui – compiuto venire meno del dischiusivo darsi della Trascendenza, del pressoché ossia ultimo adempiersi di quell’Era, definitasi Deuteriore, in cui, viepiù nientificandosi il contenuto della posizione originaria (ovvero, ancora, dell’Oltre-passante-ogni-posizione e anzitutto o identitariamente la propria stessa prima o autocausativa), viepiù permane esclusivamente il suo stare presso posizione elevato a valore assoluto, cioè a inseità autonoma e distinta giacché Posizionalità-in-sé.

Come, la Trascendenza-in-sé emergerebbe proprio nel tempo del suo con-chiusivo venir meno, progressivamente scacciata dall’incipientemente completo distendersi, ogni posizione-di-latenza a saturare, dell’immanenza sua deuteriormente (etero-)promossa a Immanenza-in-sé o Pienezza ontica parmenidea? Ha forse ragione il poeta nel dire che “lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva” (“Wo aber Gefahr ist, waechst das Rettende auch”, F. Holderlin, Patmos, 1803)?

Certamente, ma occorre non recedere d’innanzi al portato di questo evento “soteriologico” in cui l’era della nullificazione della Trascendenza – epperò, coimplicativamente dell’identità particolare (“è questo il tempo del nichilismo inautentico, il tempo della notte del mondo, quando le singole realtà o posizioni di identità particolari sono nulla e del Nulla non ne e più nulla[8]) –, verrà trascesa. Ma, ancora, per poter ciò fare, occorre preliminarmente porre con precisione la Trascendenza stessa presso definizione, epperò anzitutto emanciparla dall’Eternità e dalla sua aoristia identitaria.

Sempre in ΔIÁ, infatti, si sono posti:

 

  • La “quadripartizione della fattorialità costituente l’unità co-incentrativa di ogni trascendimento”.
  • L’impossibilità di infiggere il télos dell’oltrepassamento nell’assenza di perimetrazione alcuna.

 

La dimensione della Trascendenza è dunque immorsata, e da principio, alla sua stessa destinazione alla finitudine, ovvero alla sua propria immanenza o haecceitas. La Trascendenza originaria è trascendenza determinata.

La Trascendenza deve portarsi oltre qualcosa in direzione di qualcosa d’altro dal trasceso. Entro il punto del trascendimento deve pertanto dischiudersi iato o differenza tra soggettività e oggettività del genitivo, ovvero si dà immediata dia-vergenza nella stessa costitutivamente puntuale-diadità del trascendimento, simultanemante o in-sé e “agito” (trascendimento di qualcosa che trascende) e “patito” (trascendimento di qualcosa che è trasceso).

La Trascendenza originaria deve epperò portarsi e sempre – egualmente sinché è, epperò sinché è coalita al sé – oltre se stessa. Il suo proprio avvento, abissale, null’altro è infatti se non precisamente l’apertura – a punto trascendentale o archeo-escate – della sua profondità di compimento, ebbene il destino della sua storicità, cioè l’apertura – ipotetico/pro-lettica – dell’alterità dal suo stesso essere-qualcosa, dal suo stesso, del pari, essere qualcosa di eguale al sé o endo-concordantesi irenicamente. E questa apertura della differenza è precisamente il contenuto di quell’immanenza o vestigia prima che sta inconcussa tutto l’oltre sé e-veniente a fondare.
Stando in sé, pro-cede oltre la posizione del sé; pro-cedendo-si, riconquista l’in-sé o contenuto, trascendentale epperò, della posizione prima del sé. Nondimeno, proprio essendo Trascendenza determinata – e lo è con necessità, giacché, sempre facendo riferimento ai fondamenti espressi in ΔIÁ, se non lo fosse, ed essa non sarebbe sé, ebbene non sarebbe alcunché, e null’altro sarebbe sé, ebbene non alcunché semplicemente (ci) sarebbe – non può perennemente oscillare tra posizione del sé e superamento del sé verso l’insé del sé. Deve ossia, e simultaneamente, e ritrovare – sempre – lo stesso in-sé a ogni (e per ogni: élenchos) trascendimento, e non – mai – ritrovare lo stesso sé. Ma cosa implica per il Differente-da-ogni-posizione e sempre ritrovarsi e non mai ritrovarsi se non esattamente – sempre – ritrovarsi nel non – mai – ritrovarsi in alcuna posizione? Cosa ossia, altresì, se non il sempre ritrovarsi nel ritrovare sempre l’altro o il differente da sé? La processiva estroflessione della propria contraddittorietà rappresenta precisamente la storia o teoria eliaca dell’essere o del darsi della Differenza originaria, la meraviglia della molteplicità che sempre ci si para d’innanzi.

Non ci sentiamo tuttavia di dispiegare qui il destino di storicità o dispiegamento dell’Originario, neppure per accenni succinti. Rinviando dunque ulteriormente il gentile lettore al luogo deputato alla dimora dei fondamenti. Ci limiteremo invece a stilizzare l’avanzamento dall’Origine esclusivamente per poter dare ragione dell’affermazione che vuole l’emersione comune della Trascendenza a inizio Novecento non esclusivamente frutto di mutui influssi culturali, bensì cor-rispondente al Destino della Notte mono-duale.

Abbiamo accennato alla necessità che l’oltrepassamento del sé dell’insé pristino trovi, secondariamente, lungo l’itinerario di ricerca sempre ulteriore della differenza dal sé, nella tensione ossia all’impressione progressiva del carattere dell’opposizione al sé dell’insé Opposizione-a-sé, il sé del suo insé primo o trascendentale divenuto inseità o distinto contenuto della posizione di seità, cioè il suo stare come Altro-da-ogni stare giacché Stare-in-sé (Essere), coimplicativamente il suo essere concorde col sé in quanto Discorde-in-sé giacché Concordia(-col-sé)-in-sé (Identità), e abbiamo definito questa Era come Deuteriorità (o distendimento della Contrarietà ex-trinseca).

Procedendo oltre questa posizione testé raggiunta, affermiamo ora, sempre con spiccia anapodissi, il dimorare di una speculare necessità d’articolazione e oppositiva e diadica entro la stessa Aoristia seconda: anzitutto il sé dell’insé conseguente sta nel modo del sé, per cui sta perennemente, per poi trans-mutare nel modo dell’altro, quando l’aoristia dell’Aoristia abbandona il suo stare per avvolgere il suo divenire. È precisamente nel tempo dell’eterno e infinito divenire o trascendere, nel contro-tempo epperò del Deuteriore, che il Trascendere originario perde la sua determinazione proprio per pre-pararsi a riprendersela completamente più oltre.

Cosa pertanto, approssimandoci alla conclusione, implica l’avvenire all’essere della configurazione in cui la seità dell’inseità originaria sta, giacché inseità, nel modo d’essere concorde con la stessa inseità prima, se non precisamente l’attuarsi della massima distanza estrinseca dell’Originario da sé? E cosa, ancora, per questo Originario in sé o intrinsecamente Distanza o Contraddizione, tale configurazione annuncia se non il suo stesso portarsi presso la soglia del proprio ultimo essere perfettamente o compiutamente contraddittorio, ebbene del suo stare, insé, nel modo dell’alterità estrinseca? E, infine, cosa significa essere incontraddittoriamente in Atto per la Potenza-in-sé? Socchiudiamo per un istante l’abisso che immediatamente ci si espande innanzi nel pensare l’entelechia dell’Originario nell’attimo dell’adempimento estremo di tutta la storia della solo sua propria contraddittorietà, per concentrarci nel dare fondatezza filogenetica o eziologica all’emergenza Primonovecentesca da cui abbiamo preso avvio.

La Trascendenza (Geschichte) è l’Evento dell’Umano. Nella sua endiadicità eidetica prendono contemporaneamente e coimplicativamente dimora e l’immanenza-della-Trascendenza, il Mondo dell’Uomo, la sua Mortalità, e la trascendenza-della-Trascendenza, il suo Cielo, la sua Immortalità. L’incentro dei Quattro (Geviert) non è null’altro che l’essenza stessa dell’Umano: Trascendenza determinata, Kléos Athánatos.

La Trascendenza è pertanto la dimensione che consente all’Uomo di esistere autenticamente come l’ente che è, ossia di essere perennemente in cammino verso (Télos, Ort) la sua precisa essenza e puntuale. Ma è destino che l’Uomo – in un certo tempo – perda la propria trascendenza, precisamente perdendone l’immanenza: la Trascendenza, infatti, autenticamente intesa come oltrepassamento perfettamente determinato, non più ridotta-presso-sé, non più immorsata o coalita-al-sé, si apre sino ad annullarsi nella sconfinatezza del Perenne Stare che non mai alcunché oltrepassa né può, e ciò precisamente secondo necessità o consentaneamente alla struttura della Notte originaria.

Ma è enantio-dromicamente destino (Ge–schick) che l’Uomo non possa – per sempre o perennemente a punto – perdere la propria Trascendenza teleologica (Geschehen), giacché è l’Oltrepassamento l’Originario, e il Perenne Stare (egualmente il “Perenne Divenire”, cioè il divenire verso l’In-finito che propriamente non mai a nulla perviene, precisamente epperò perennemente così re-stando) è il Deuteriore in esso e contenuto e avvenuto.

Ecco dunque che il clangore dell’epiclesi del Trascendimento Teleologico, ebbene, ancora, l’essenza o destino dell’uomo, torna e ritorna sempre a scuoterlo ed ex-ortarlo verso sé. Ecco dunque che nel Tempo della Notte dell’Originario, la Notte originaria torna e prepotentemente a manifestarsi, abbacinando anzitutto desti pensatori, chiamandoli (e chiamandoci con loro) al profligante ultraincedere questo stesso nostro perduto tempo, gettato nella massima distanza dall’autenticità della Lichtung.

Ma trascendere la notte della Notte, distruggere l’eterno in favore dell’Eternazione-del-mortale, non altro significa se non conquistare asintoticamente l’entelechia della Notte trascendentale – la Gloria della pira di Ettore, il Crepuscolo degli Dei -; lo si sappia.


[1] SE, Milano, 2009.

[2] Armando Editore, Roma 1998.

[3] Manifestolibri, Roma 2006.

[4] Adelphi, Milano 1987.

[5] La Nuova Italia, Firenze 1979.

[6] U.Mursia & C., Milano 1972.

[7]    Δ, Attraversando l’Ultimo Orizzonte e Altro della Notte. Epopea dell’Originario ed Epoche dell’Umano. Aracne, Milano 2020

[8]    Il Potere del Nostro Tempo, Milano 2020.

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Saggio su Martin Buber (1^ parte di 3)

Appunti per la ricerca di una Direzione
Saggio su Martin Buber
(1/3)
Maria De Carlo

Pubblichiamo, su concessione dell’autrice, il saggio
Maria De Carlo, Appunti per la ricerca di una Direzione. Saggio su Martin Buber,
Grafie ed., Potenza 2013 (ISBN 97-888-96295-12-0).
(Sono omesse la Prefazione, l’Introduzione e le Note)

Premessa (a cura dell’autrice)

Dato che ogni uomo può, a partire da dove si trova e dalla propria essenza, giungere a Dio, anche il genere umano in quanto tale può, progredendo su tutti i cammini, giungere fino a lui. (Buber)

Buber muove fondamentalmente da una critica al pensiero moderno che, a partire dal cogito cartesiano, ha esaltato l’io considerandolo come colui che genera l’essere, rendendo “irreali Dio e ogni assolutezza”. in questo modo Dio è diventato oggetto – esso – del suo stesso pensare e non più il tu con cui dialogare. Un Dio che non ha nulla a che vedere con l’esperienza reale poiché “lo spirito umano dice di essere il signore delle sue opere e annichila concettualmente l’assolutezza e l’assoluto”.

Di conseguenza, l’uomo si è sostituito a Dio diventando egli stesso giudice di ciò che è bene e di ciò che è male (come si legge nel racconto biblico del Genesi), e così Dio, che ha abdicato alla sua potenza in favore della libertà dell’uomo, si è eclissato. Ma “l’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già domani ciò che si è frapposto potrebbe ritrarsi”, afferma Buber che vede nella relazione con l’altro sé la vera completezza dell’uomo.

Colui che si è “pensato” padrone assoluto si trova, al contrario, smarrito dietro pseudodivinità, schiavo e soffocato dalle sue stesse opere in un rapporto alienante e frustrante tanto da diventare oggetto di se stesso. Il problema del male lo accompagna, poiché l’anima lo sperimenta, come afferma Buber, in tutta la sua profondità.

I due istinti, quello buono (della direzione) e quello cattivo (della non-direzione), creati per essere destinati ad agire in coppia (per meglio servire Dio), vengono separati dall’uomo che ha smarrito la via che conduce a Dio, al Bene; l’uomo così non riesce (perché non decide di intraprendere il cammino verso la giusta direzione) a dominare l’impulso cattivo. Chiuso nel suo ego, l’uomo non sa più dialogare, non unificato non è capace di relazioni autentiche e immediate, egli tocca le più alte vette della solitudine, e della disumanizzazione. Sordo ad ogni appello resta imprigionato nelle maglie dell’impulso “cattivo”. Il rapporto con il mondo è irreale, non vive il qui e ora; nessuna conferma del suo esser-quest’uomo.

Alla luce di queste considerazioni, la filosofia dialogica di Buber (e il suo insegnamento) è un sentiero possibile – e comunque urgente – quale risposta ad un’umanità assetata di verità e ferita dal male che non riesce più a controllare, pervasa com’è da quell’ospite inquietante, il nichilismo, tempo in cui manca il fine, manca la risposta al perché, come diceva Nietzsche, e i valori perdono ogni valore.

L’uomo è invitato a riprendersi in mano, a “possedersi”, solo così sarà in grado di prendere “decisioni” secondo il proprio cammino (per questo non c’è nessuna formula precostituita, poiché possono essere molteplici le vie che conducono a Dio. A ognuno la sua!), e solo così potrà poi “spossedersi”, poiché capace di relazioni autentiche con l’altro. Un dialogo che l’uomo deve cominciare a far partire da sé; ma un “io” che non potrà mai pronunciare senza il “tu” che lo rivela. L’uomo a cui si fa riferimento è quello che non ha bisogno di rinnegare Dio per affermare se stesso, al contrario. Quanto più l’uomo si scopre essere-in-relazione, capace di guardare l’altro da sé, tanto più conferma la sua autentica natura. L’uomo contemporaneo vive una crisi antropologica non indifferente. Saltate le sicurezze e i grandi idealismi, anche le strutture sociali (una volta rifugio) non reggono all’urto del disorientamento.

“Tale è l’ora presente”, afferma Buber, quasi masticando con amarezza queste parole. E alla domanda: “Ma come sarà la prossima?”, Buber non soccombe in un pessimismo; certo “ogni età è la continuazione di quella precedente – asserisce -; ma una continuazione può essere conferma oppure rinnegamento”.

Ecco allora riapparire sulla scena l’uomo in tutta la sua libertà e responsabilità, capace di vincere il male soggiogandolo al bene.

Con il seguente racconto chassidico, dal titolo “il male”, invito il lettore a lasciarsi condurre dal maestro Martin Buber lungo un percorso che conduce a una direzione possibile. A Buber, che ha saputo fare della sua vita una continua esperienza dialogante, rivolgo un pensiero di profonda gratitudine.

“Uno scolaro chiese al Magghid di Zloczov: «Il Talmud afferma che il bambino, nel seno della madre, contempla il mondo intero e conosce tutti gli insegnamenti, ma che, nell’istante in cui viene a contatto con l’aria della terra, un angelo lo colpisce sulla bocca, sicché dimentica ogni cosa. non ne comprendo il motivo: perché conoscere prima ogni cosa e poi dimenticarla?». rispose il Rabbi: «Nell’uomo resta una traccia, tramite la quale egli è messo in grado di riacquistare la conoscenza del mondo e degli insegnamenti e rendere così il giusto servizio a Dio». Quello però insisteva: «Perché l’angelo deve colpire l’uomo? Se non lo facesse, il male non esisterebbe». «Ma se non esistesse il male» rispose il Rabbi «non ci sarebbe neppure il bene, perché questo non è che l’altra faccia del male. un piacere che dura eternamente non è un piacere. ecco come dobbiamo interpretare l’insegnamento secondo il quale il mondo è stato creato per il bene delle creature che lo abitano. ed ecco perché sta scritto: ‘non è bene che l’uomo’, intendo il primo, quello creato da Dio, ‘stia solo’, cioè senza l’effetto contrario e l’ostacolo rappresentato dall’inclinazione al male, come era prima della creazione del mondo. infatti non c’è bene senza che esista anche il suo opposto. leggiamo poco dopo: ‘Voglio farlo in modo che possa aiutarsi’ per indicare che la lotta del male contro il bene consente all’uomo di vincere, di rifiutare il male e di scegliere il bene. Soltanto così il bene esiste veramente e in modo perfetto»”.

I.  L’ombra del malessere

Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. (Buber)

L’esistenza, fin dal grembo materno, è accompagnata in ogni suo sospiro dalla luce e dalla notte. Nell’oscurità l’uomo è messo a dura prova. L’immaginazione prende il sopravvento e la visione delle cose è condita dal malessere. Questo perché l’esistenza è sempre più autentica quanto più è illuminata dalla verità. Il mito della caverna ci insegna che la luce ci permette di vedere le cose nella loro effettiva realtà, la luce ci conduce a una consapevolezza più piena di ciò che siamo. Ma la vita di ogni uomo è attraversata anche dalla notte, dalle tenebre: buio che confonde e procura malessere. Ognuno di noi può dare un nome a quel male che procura disagio, che toglie il respiro annebbiando la vista e facendo smarrire la serenità.

Non vi è mai capitato di mettere in discussione ogni certezza raggiunta, come pure la sensazione di venire soffocati da una insoddisfazione? Ciò è simile a una presenza fastidiosa o pungente come l’ortica. La domanda “dove mi trovo?” acquista un senso se ad essa facciamo seguire una riflessione e un approfondimento del mio sé in relazione a un universo di uomini e cose che mi circondano. Cosa ho fatto? Quali le mie aspirazioni? Cosa penso di me? Come vengono vissute le mie relazioni con gli altri? So prestare l’orecchio a ciò che mi risuona nel profondo?

La pienezza dell’uomo e del suo essere va oltre il confine dell’immediato, oltre tutto ciò che lo coinvolge nelle “cose” poiché: “Tutto questo e cose di questo genere insieme fondano il regno dell’esso”. Nelle cose che lo circondano e di cui l’uomo si circonda “i tanti lui, lei, esso” (che Buber non rigetta, anzi il mondo dell’esso, cultura, scienza, tecnica, istituzioni, etc. – è necessario per dare “continuità e durata ai frutti della relazione”) rientrano in quel dinamismo profondo dell’essere che trova radice nell’inquietudine esistenziale, nel suo esistere in quanto coppia, relazione io-tu. Un equilibrio che, se infranto, sprofonda l’uomo nel baratro della frammentarietà. L’uomo così si è perso: “Dove sei?” è la domanda che Dio rivolge ad Adamo “o a chiunque altro”: “Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento “davanti al volto di Dio”, l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità”.

Interrogarsi, mettere in discussione le proprie certezze è solo l’inizio di quel processo che va sotto il nome di “ricerca”. Ed essa è propria dell’uomo che si interroga e si pone infinite domande. C’è una sana inquietudine che accompagna la nostra ricerca. E questo è un bene. Ma altrettanto salutare è trovare di volta in volta, di ricerca in ricerca un senso a ciò che facciamo, un senso che si rinnova, così come la nostra esistenza è in continuo cambiamento ed evoluzione. Trovare un senso (o uno scopo-significato) diventa vitale per la propria sopravvivenza ed equilibrio. Il vuoto interiore o esistenziale, come lo chiama Victor Frankl, blocca il flusso della vitalità e della “presenza”. Il senso poi trova maggiore significazione se affonda la sua radice nell’essere mistero e nell’avere a che fare con il mistero, e se abbiamo chiara in noi la “Direzione”. Sapere dove andare equivale a dare senso a ogni nostro gesto, a ogni nostro incontro, a ogni nostra scelta. Quando ciò viene a mancare ecco allora prendere piede in noi quel malessere o male che trova nella sua piena realizzazione il buio e la notte, la perdita di direzione – il non vedere. E’ male tutto ciò che non ci fa stare bene. Non sapere (o non vedere) dove andare e brancolare nella notte procura malessere: male-essere, che ben si traduce con “stare nel male” o “stare male”, ma anche “essere-male” ovvero ciò che è “male per me”.

Siamo chiamati a fare delle scelte, la vita ci pone di fronte, a partire dalla quotidianità, situazioni che ci interpellano e richiedono una scelta, e anche la non scelta (apparente) diventa scelta essa stessa. E proprio questo decidersi, la scelta di ciò che potrà avvenire, e quindi del futuro, dell’ignoto, procura e genera angoscia. Disperazione e angoscia che sono strettamente legate e sono proprie della struttura dell’io. Noi tutti dobbiamo fare i conti con questa struttura. Søren Kierkegaard ci parla di disperazione dell’io, sia che voglia essere sia che non voglia essere se stesso. Egli parla di malattia mortale, cioè il vivere la morte dell’io: “è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell’io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta”. Per combattere la disperazione è necessaria la possibilità, e solo a Dio tutto è possibile, afferma Kierkegaard: “per quanto disastrosa o disperata la situazione in cui un uomo viene a trovarsi, Dio può sempre trovare per lui, per questo singolo uomo, una possibilità che gli dia respiro e lo salvi. Ma Dio può far questo perché ha a sua disposizione infinite possibilità che gli diano respiro e lo salvino. Se l’uomo si trovasse nella stessa situazione, non avrebbe, ovviamente, bisogno di Dio”. Ecco allora trovato, per il credente, “il contraveleno”. E se la disperazione è peccato, suo opposto è la fede che procura speranza e fiducia in Dio.

Credo che l’esperienza di Kierkegaard possa essere un incentivo a guardare dentro di noi. Egli scrive: “Ciò che in fondo mi manca, è di veder chiaro in me stesso, di sapere “ciò che io devo fare” (…) e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole che io faccia, di trovare una verità che sia una verità per me, di trovare l’idea per la quale io voglio vivere e morire”. Kierkegaard rifiuta un “sistema” e introduce il concetto di una soggettività della verità. Dunque anche per noi: “ciò che conta è di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l’idea per cui io voglia vivere e morire”. La verità è tale se tiene conto dell’esistenza concreta del soggetto, ciò che spinge a compiere determinate azioni o decisioni.

Ma cos’è il male che ci accompagna fin dalla nascita e di cui non riusciamo a liberarci? Perché esso è il compagno fastidioso che ci rende infelici anche se allo stesso tempo può trasformarsi in opportunità di riscatto? Il male può diventare una risorsa quando trovandoci in un baratro tanto profondo da sfiorare il limite della non-possibilità, del non-ritorno, esso diventa, nella notte oscura (perdita del proprio senso esistenziale), l’occasione (che siamo liberi di cogliere o meno) dello sprigionarsi di quella forza vitale che spinge l’uomo alla piena consapevolezza di sé per la conquista della felicità autentica. E’, quindi, nella paura e nel buio che si può “ri-sorgere”, è qui che avviene il riscatto per la vita nuova, l’uscita verso la luce come una seconda nascita. Solo così è possibile trovare la Direzione. E’ necessario un incontro autentico, come insegna Martin Buber, a partire da se stessi, ricordando che non ci si salva da soli.

Un punto, questo, fondamentale per la comprensione del pensiero dialogico dell’autore. Per Buber l’uomo è nella relazione (una relazione che dovrebbe essere segnata dalla autenticità e reciprocità ma che talvolta è malata in quanto l’uomo, soprattutto nella modernità, per l’altro è solo un “esso” da strumentalizzare per propri scopi), ed è nella pronuncia di quel “tu” che egli comprende il proprio “io”. Da un tu orizzontale a un tu verticale, poiché “la relazione con l’uomo è la parabola autentica della relazione con Dio”. Relazione che nell’epoca moderna si è oscurata (come scrive ne L’eclissi di Dio) per effetto dell’ipertrofia dell’io-esso cioè di quel rapporto che vede l’altro come oggetto. Una prospettiva, quella proposta dal filosofo ebreo, che si discosta da una visione moderna che considera l’uomo in termini di “individuo”. Al liberalismo individualistico e al collettivismo – per Buber due atteggiamenti esistenziali – si oppone la via della “comunità vera”, luogo di molteplicità di persone e di reciprocità. Si tratta della Comunità (Gemeinschaft) dove si costruiscono relazioni io-tu. In Ich un Du Buber afferma: “La vera comunità non nasce dal fatto che le persone nutrono sentimenti reciproci (anche se non senza questi), ma da queste due cose: che tutti siano in reciproca relazione vivente con un centro vivente, e che siano tra loro in una vivente relazione reciproca. La seconda condizione scaturisce dalla prima, ma non si dà ancora solo con quella. Una vivente relazione reciproca comprende i sentimenti, ma non deriva da essi. La comunità si costruisce a partire dalla vivente relazione reciproca, ma il costruttore è l’operante centro vivente”.

Dunque il male è proprio questo non volersi dirigere verso l’incontro autentico. E allora la domanda: E’ possibile il recupero del rapporto autentico? Certo. Esso si può trovare in un cammino che parte dal dialogo con se stessi – ritorno, conversione (teshuvah), un ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino – per aprirsi poi all’incontro con l’altro: “Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!” come Buber riporta in un racconto: “Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “Ah, suocero – gli rispose Rabbi Eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”, che così commenta: “Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. Il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo saggio, pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver ancora compiuto l’autentico ritorno (…)”.

L’io è incomprensibile senza il tu. Non si può parlare dell’io escludendo il tu. Buber afferma: “Quando si dice tu, si dice insieme l’io della coppia io-tu”. L’assenza di questa relazione è causa di inquietudine che l’Io-Esso non può colmare poiché “la parola fondamentale Io-Esso non può mai essere detta con l’intero essere”. Il tu che l’uomo pronuncia lo apre all’infinito. E nella pronuncia del tu l’uomo si affaccia alla sua vera realtà, quella relazionale: “Chi dice tu – afferma Buber – non ha alcun qualcosa, non ha nulla. Ma sta nella Beziehung (relazione)”. E’ necessario pertanto ripensarsi uomo in termini di relazione io-tu. L’io ha coscienza di sé solo mediante l’incontro con il tu. Relazione dialogica. E relazione è reciprocità; l’io si dà nella realtà proprio mediante la relazione, un rapporto con l’altro che è costitutivo dell’essere. Ma questa relazione con l’altro può essere, dice Buber, autentica quando si vede nell’altro il “tu” (l’Io-Tu: santa parola fondamentale del dialogo) e ciò è pienezza del proprio essere; oppure relazione non autentica quando, nella sfera dell’Io-Esso, si vede l’altro come “esso”, cioè si vuol ridurre l’altro ad una cosa, ad uno strumento da utilizzare per propri fini, ad un oggetto su cui esercitare il proprio potere o un oggetto da voler rendere a propria immagine e somiglianza, allontanandosi così dalla Gegenseitigkeit (reciprocità). Secondo Buber, nell’epoca moderna il rapporto io-esso ha conseguito un netto predominio sulla relazione io-tu. Di conseguenza, la vita dialogica – sia della relazione con l’altro uomo che con il Tu eterno (relazioni che per Buber sono interdipendenti poiché solo chi è capace di relazione autentica con il tu può anche invocare il Tu Eterno) – è in crisi; l’uomo della tarda modernità è “senza casa”, senza relazioni e perciò solo; di fronte a questo uomo che vive un forte disagio spirituale, che non è capace di pronunciare “tu” e quindi non riesce a vivere relazioni autentiche, Dio si è eclissato. Poiché ad avere la meglio è stato il rapporto Io-Esso cioè un primato dell’ego che considera “altri” in termini di oggetto. “Senza l’esso l’uomo non può vivere. Ma colui che vive solo con l’esso, non è l’uomo”. Ciò che Buber condanna è il prevalere del mondo dell’esso sulla possibilità delle relazioni autentiche. E comunque l’uomo può sempre sottrarsi al mondo dell’esso, rifugiandosi in quello della relazione con la conseguenza che “solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. E nell’atto della decisione, della scelta, avviene l’opzione fondamentale della conversione-direzione che si oppone alla non-direzione cioè al male, poiché esso è il permanere nella non-scelta. L’uomo può entrare in relazione, oltre che con il suo simile, anche con gli esseri della natura e con le “essenze spirituali”. Relazioni tutte che se autentiche – ovvero caratterizzate dall’immediatezza e dalla reciprocità – aprono al mistero, al “tu eterno”, al rapporto con Dio poiché “ogni singolo tu è una breccia aperta sul tu eterno”. Buber parla di quel “tu” che: “non è un lui o una lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo; e neanche un modo di essere, sperimentabile, descrivibile, fascio leggero di qualità definitive. Ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. Non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce”. Il tu, la sua luce pervade tutto l’essere, è il tutto che si presenta e mi incontra per grazia non si trova nella ricerca; afferma Buber: “Il tu mi incontra. Ma io entro con lui nella relazione immediata. Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire”. C’è una risposta al tu che si svela, c’è una scelta che spetta all’uomo, la disponibilità ad accedere alla relazione: “L’unificazione e la fusione con l’intero essere non può mai avvenire attraverso di me, né mai senza di me. Divento io nel tu, diventando io, dico tu. Ogni vita reale è incontro”.

E ancora sul ritorno – che è al centro della concezione ebraica del cammino dell’uomo – Buber afferma che: “ha il potere di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto, il quale non conosce l’abisso del peccato. Ma ritorno significa qui qualcosa di molto più grande di pentimento e penitenze; significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo – in cui era sempre lui stesso la meta prefissata – trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare. Il pentimento allora è semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva; ma chi insiste a tormentarsi sul pentimento, chi fustiga il proprio spirito continuando a pensare all’insufficienza delle proprie opere di penitenza, costui toglie alla virata il meglio delle sue energie”. La virata di cui parla Buber rinvia al tema della “direzione-decisione” che l’uomo deve intraprendere per abbandonare il male. “In una predicazione pronunciata all’apertura del giorno dell’espiazione, il Rabbi di Gher usò parole audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente, si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli è dentro alla cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui. Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? Nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! Perciò sta scritto: ‘Allontanati dal male e fa’ il bene’, volta completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!”.

Il ritorno alla relazione è fonte di bene: “Solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. Si fa appello alla decisione dell’uomo di scegliere. Una visione, questa, che attiene al profetismo e responsabilizza l’uomo di fronte al suo destino. Il male dunque è inteso come “forza senza direzione”, ovvero “istinto cattivo” che si contrappone all’“istinto buono”. Buber afferma: “… se ci fosse il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi”.

Interessante al riguardo il volume di Martin Buber Immagini del bene e del male (Bilder von Gut und Böse), per una possibile pista di riflessione che rinvia a una vita “pienamente” spirituale o religiosa nel senso di una relazione personale con l’altro, il Mistero, il Divino, che nel pensiero buberiano è il Dio di Abramo.

Attraverso Martin Buber intendo approfondire la questione del male in relazione alla nostra esperienza di vita, alle nostre domande. Buber, più che una soluzione al problema del male, fornisce “una descrizione sintetica del male in atto per aiutarne la comprensione”, per approdare poi a una possibile risposta al problema: “la battaglia deve cominciare dalla nostra anima; tutto il resto si svilupperà da lì”. Un pensiero ben esplicitato nel racconto Gog e Magog, che vuol essere una risposta a quanto aveva detto il filosofo Berdjaev sul male: “Impossible de le résoudre, ni même de le poser de manière rationnelle, parce qu’alors il disparait”. Si tratta di una risposta che Buber elabora nel volume Immagini del bene e del male.

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Il Nichilismo dopo Nietzsche

Franca Sera

E’ con Oswald Spengler[1] che nel 1918, con la pubblicazione del saggio “Tramonto dell’Occidente, inserisce il concetto per il quale tutte le Culture storico-sociali affacciatesi sul mondo, muoiono né più né meno dell’essere umano quando giunge alla propria fine esistenziale.. Egli condanna la storia dei popoli e e la loro vita alla limitatezza. Ossia la Cultura è anch’essa sottomessa al destino degli organismi viventi e come al singolo individuo non è permesso sottrarsi alla propria fine, allo stesso modo anche la Storia dei popoli è subordinata alla stessa scomparsa. Tale destino è inaggirabile e sottende una sorta di Legge Universale. Il bersaglio di Spengler è la cultura faustiana[2] intesa come coazione alla’operatività e dunque tutta rivolta al delirio attivo della Tecnica. Quest’ultima come elemento invasivo, che permea di sé uniformemente l’intero pianeta, grazie anche agli influssi dello stesso spirito faustiano. L’esito, per Spengler, è presto detto: la Tecnica soppianterà la Cultura.[3] In tal senso egli profetizza una desertificazione delle città, per mancanza di relazionalità, e l’uomo stanco della Natura, propria e del proprio ambiente naturale con i suoi limiti, si abbandonerà al suicidio. Ma prima della catastrofe il filosofo prevede un devastante impero totalitario, totalmente asservito ad un solo uomo: è chiaro in questo passaggio l’allusione profetica del sorgere del Nazionalsocialismo.

Al contrario di Spengler ,Jünger riteneva invece che la Tecnica sia ineluttabile e quindi l’uomo avrebbe dovuto disporsi benevolmente verso di essae con ciò accolta con favore. L’istituto della coscrizione obbligatoria alla leva militare impresse, secondo Jünger, un cambiamento epocale e tragico allo stesso tempo: la guerra non riguarda più solamente una decisione privata ed obbligata di un Sovrano contro un altro Sovrano, ma coinvolge le masse popolari, con una mobilitazione che verrà definita totale. A questo punto Jünger usa una similitudine non affatto scontata: la Guerra, come la prima guerra mondiale, è paragonabile al concetto di Lavoro che tutto pervade e unifica. Il Lavoro come Forma Lavoro è universale pervasività. Esso è come una trama che unifica la vita dei singoli. Nel suo saggio[4]DerArbeiteregli teorizza una radicale differenza del Lavoratore rispetto al Borghese: quest’ultimo “anche in guerra cerca ogni occasione per adocchiare una possibile trattativa, mentre per il soldato-lavoratore la guerra significa uno spazio in cui abbia valore morire, ossia vivere in modo tale da riaffermare la forma dello Stato: di quello Stato che è destinato a rimanere, anche se gli sottraggono il suo corpo. Lungi dall’essere un operaio nel senso marxiano, ossia un rappresentante di una classe sociale storicamente ed economicamente determinata all’interno di un contesto altrettanto materialista, l’Arbeiter di Jünger si mostra invece come un precipitato di ideologia metafisica. Egli pone l’accento sul carattere “spirituale” delle regole economico-politiche tra Capitale e lavoro. All’interno di un dominio spirituale che fa riferimento alla sovranità dello Stato come sovrastruttura metafisica: chi domina il proprio destino domina anche ilo mondo. Il lavoratore si presenta così come incarnazione di un principio politico trascendente che trova nel momento del dominio il suo inveramento. In tal senso è una Forma delle Forme senza tempo dentro il mutamento della storia e del tempo. L’operaio di Jünger assume così una dimensione aggressiva, poiché egli utilizzerà con il lavoro la stessa Tecnica come mezzo per mobilitare il mondo. Questa universale mobilitazione si presenta come una fenomenologia della catastrofe e annuncia un nuovo avvento: una fenomenologia dell’iper-nichilismo. Esso significa distruzione degli assetti trascorsi ed il profilarsi della nuova epoca si abbandonano ad un indisgiungibile pasdesdeux. La tecnica fa implodere la forza del vivente, la potenza primigenia dell’elementarità della natura. Così l’operaio con la Tecnica è in grado di assumere la potenza distruttiva della forza elementare , travolgendo anche la fede e la stessa borghesia. In “Oltre la linea[5] egli, in dialogo con Heidegger[6]annuncia la possibilità di uno “stato di transizione” andando oltre il presente. Tale operazione di “oltrepassamento“ prelude ad un nuovo stile di vita del reale grazie alla presenza ipertrofica dei mezzi. In sostanza Jünger si apre al nichilismo per poi superarlo, poiché il Nichilismo non è l’ultima parola , come voleva Nietzsche, ma occorreva per questo superare un nichilismo compiuto statalista, negando uno Stato Leviatanico, e neppure prefigurare la morte dell’Essere, ma anzi preannunciando un ritorno possibile ad esso.

Ma purtroppo lo sforzo teorico-conoscitivo di Jünger fu misinterpretato da alcuni teorici del Nazismo che si affettarono ad utilizzare il concetto di Volontà di Potenza di Nietzsche per propagandare il totalitarismo nazista e sussumere il concetto di uomo tecnico-soldato di Jünger come baluardo della violenza pianificata.

Da ciò nascerà un filone irrazionalista che unisce i Greci ai Tedeschi , ma non come nell’epoca neo-classicista della Göthe-Zeit di Weimar , ma nel senso di un ritorno ad un filone romantico di Heidelberg pessimista, decadentista e reazionario ( II° Romanticismo), frammista a elementi fideistici e appunto reazionari. In tal modo fu rigettato il filone classicista e cosmopolita di Weimar e di Humboldt, a vantaggio di una esaltazione parossistica del concetto di razza, attraverso un progetto educativo, mediante la propaganda e le mobilitazioni di massa, prospettando alla Nazione tedesca un concetto di Popolo tutto raccolto in un’unità organica che avrebbe superato le divisioni sociali: esaltando il senso di uno Stato – Sostanza , più che Stato- Attivo o Pratico fattivo.

Altri teorici interpretarono il Dominio e la Forma di Jünger come dominio e forma della Razza Ariana sul mondo, in quanto Spirito e trionfo del più forte : l’Ariano contro gli Ebrei.

Presto, dopo l’abominio Nazista e della Seconda Guerra Mondiale, si aprì la strada, in filosofia, alla possibilità di discutere circa un Nichilismo Relativo, gettando un cono d’ombra sul Nichilismo assoluto. L’esito di ciò si materializza con l’apertura di un dialogo teorico e pratico tra Ragione ed Esistenza. Da qui l’istanza della categoria della Comunicazione. La stessa filosofia di Nietzsche è vista come pensiero che superi ogni stazione dogmatica della riflessione e del mondo. Lo stesso concetto di “volontà di potenza” è una nozione limite che serve come principio ermeneutico allargando ed accogliendo le possibilità dell’Essere e del reale, con uno sguardo al moltiplicarsi indefinito delle prospettive.Diffidare di Nietzsche stesso significa in altri termini pensare il Nichilismo come strumento ed attitudine ermeneutica o mimesi imitatrice di una coscienza che “lavora” con la Ragione e con gli infiniti significati del reale.

Così con la massima esperienza delle “possibilità ermeneutiche” che si dischiudono Nietyzschedifventa il filosofo della Libertà, e non invece il portatore del Nulla. Da ciò si parlerà poi di Nichilismo relativo e non assoluto.

Tenere a freno il Nulla: diventa òa parola d’ordine di molti tra cui Jaspers .Se il Nichilismo andasse fino in fondo esso avrebbe effetti devastanti sull’uomo e sul mondo assoluti. Si arriverebbe a giustificare ed ulizzare persino il suicidio come regola logica. Non a caso il Materialismo, o il Buddismo ad esempio, attingono DAL Nichilismo quella capacità critica e antiadattiva nei confronti delle strutture della realtà. Ma sempre utilizzandone una vis nullìus tenuta a freno e calmierata: ossia sposando un nichilismo antropologico-realativo.

Tuttavia il problema del Nulla, fu solo procrastinato a…filosofie da destinarsi!

Esso si aggira ancora come corpo morto rimosso ma mai veramente eliminato, all’interno delle regioni dello Spirito e della Realtà.Il Nulla ci appare così come lo spettro di Banquo che si manifesta al cospetto di Macbeth, nella tragedia shakespeariana: ciò da cui Macbeth voleva separarsi e appunto rimuovere e negare, ma di nuovo il fantasma di Banquo gli ricompare sempre come immagine orrifica e proiettiva di quello. Nella filosofia contemporanea il bisogno di alcuni di esorcizzare il fantasma del Nulla e di Nietzsche, con l’intento di elaborare un sistema capace di contenere in sé unità e opposizione, Essere e Non Essere,rende in realtà problematica ogni esclusione da questo dello stesso Nulla Assoluto,che non solo come il fantasma di Banquo che insegue Macbeth ad un certo punto si risveglierà, ma  segnerà per l’uomo un destino condannato all’incessante inseguimento dell’escluso che si ripresenterà come Iper-Nichilismo. La questione nichilistica e della Tecnica si inserisce perciò, ad avviso di chi scrive, in questo errore di categorizzazione che ha segnato la post-modernità, come incapace di pensare il rapporto tra Mondo-Soggetto e Nulla, dando vita a tre concetti posti come auto-sussistenti e autonomi.


[1]     O. Spengler, Tramonto dell’Occidente, Longanesi Ed., Milano, 2015.

[2]     B, Croce, “Rivista critica di Letteratura, Storia e Filosofia “, Nr. 31, 1933; Nuovi Saggi sul Faust: “la natura è nel dovere di assegnarmi un’altra forma di esistenza affinché io continui ad operare”. Goethe a colloquio con Eckermann.

[3]     O. Spengler, L’uomo e la Tecnica, Aragno Ed., 2016, Torino.

[4]     E. Jünger, DerArbeiter. Herrschaft und Gestalt, 1932; tr.it. L’operaio . Dominio e forma, trad.it. di Q. Principe, Guanda Ed., Parma 1991.

[5]     E. Jünger, Oltre la linea, Adelphi Ed., tr.it. A. La Rocca, F. Volpi; 1989 Milano.

[6]     Nel 1950 per il genetliaco di Heidegger, Jünger pubblica il saggio “Oltre la linea” dedicato al tema onnipresente del Nichilismo ed egli s’interroga, se dopo il punto zero di Nietzsche, segnato dalla parola <Niente!>, si possa attraversare la linea, andando oltre il Nulla. Cinque anni più tardi Heidegger, raccogliendo la sfida, gli rispose con un testo dal titolo “La questione dell’essere”.

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Influenza della musica sull’uomo

Patrizia Figus

Una conoscenza antica

Vogliamo qui indagare il ruolo della musica nello sviluppo psicofisico dell’uomo.

Che la musica abbia efficacia sul corpo e sulla psiche è noto fin da tempi antichissimi, e nella nostra cultura il mito di Orfeo, risalente almeno al VI secolo a.C. conserva memoria dell’azione del suono sugli stati di coscienza.[1] Molte tracce di questa funzione sono conservate ancor oggi nella storia della musica, come nel caso degli spirituals, canti innalzati a Dio dagli schiavi neri in America. Il canto e il ritmo li aiutava a sopportare le terribili condizioni di vita cui erano sottoposti, e a darsi forza nel lavoro dei campi.

La memoria di questa funzione psicagogica, ovvero di guida dell’anima, rende questa musica intimamente legata alla cultura nera, tanto da generare scandalo quando i bianchi se ne appropriano: “ci sarà sempre qualcosa di controverso quando compositori o scrittori bianchi tentano di raccontare la storia dei neri del Sud in quell’epoca.”[2]

Un esempio recente del potere della musica sul corpo e sulla psiche è offerto anche dalla più celebre maratona del mondo, quella di New York. Dal 2007 infatti è proibito prendervi parte ascoltando musica[3], in quanto tale comportamento si configura come doping.

Inizialmente La USA track and field, ovvero la federazione statunitense di atletica, aveva fornito una spiegazione poco convincente per giustificare la novità: gli auricolari, isolando i corridori, potevano facilitare gli scontri tra loro, e renderli più suscettibili a incidenti stradali. Solo in un secondo momento è stato ufficializzato il vero motivo: l’utilizzo della musica durante la gara migliora il rendimento dell’atleta, e genera un vantaggio competitivo nei confronti dei corridori sprovvisti di musica, quindi va considerato come doping.

Questi tre esempi, la musica sciamanica di Orfeo, i canti degli schiavi, e la musica come doping, evidenziano il potere stimolante della musica sull’intera dimensione psicofisica dell’uomo: mente, emozioni, corpo.

Questi tre ambiti interagiscono come tre cervelli[4], come aspetti differenziati di una triplice unità. Anche se non possono essere del tutto compresi separatamente, questi aspetti vanno isolati nello studio, per osservare quali manifestazioni appartengano all’uno e all’altro, e quale azione eserciti la musica su ciascuno di loro.

Tuttavia, per dedicarci a questo, è utile analizzare il dibattito sull’origine della musica, poiché da esso emerge la sua azione su tutte e tre le dimensioni della psiche umana.

 

Il dibattito sulle origini della musica

Perché l’Uomo produce e si interessa così tanto alla musica? Perché non esiste popolo o cultura nota che sia priva di una tradizione musicale?[5] Questa evidenza delle ricerche etnoantropologiche potrebbe e dovrebbe essere un punto di partenza fondamentale per la riflessione. L’archeologia riscontra la medesima evidenza anche in epoche antichissime[6] con il ritrovamento di flauti d’osso risalenti a circa 40mila anni fa, all’epoca del Pleistocene Superiore. Questi ritrovamenti destano grande interesse[7], gettando luce sulla natura intrinsecamente musicale dell’uomo, sempre ed ovunque. Sempre nel tempo, ovunque nello spazio. Dove c’è società c’è musica, dove c’è un Uomo c’è musica. Perché accade questo?

Gli studiosi dibattono se la musica abbia rappresentato un vantaggio evolutivo per la nostra specie. [8]

In tal caso la nostra specie sarebbe attratta dalla musica per il fatto che le capacità musicali hanno rappresentato un vantaggio nella selezione naturale, e perché questa abilità a suo tempo ha incrementato il tasso di sopravvivenza e il successo riproduttivo dei nostri antenati, rimanendo inscritta nel nostro patrimonio genetico.

È opportuno approfondire questo dibattito, e quello sull’origine della musica, per comprendere meglio l’azione della musica sul corpo, sulle emozioni, sull’intelletto,

Per spiegare la musicalità della nostra specie esistono attualmente tre ipotesi principali: l’ipotesi adattativa, l’ipotesi il non-adattativa, e l’ipotesi culturale.

Secondo l’ipotesi adattativa le abilità naturali hanno costituito un vantaggio nella selezione naturale[9]. Secondo l’ipotesi non adattativa la musica deriva da altre abilità cognitive e da altre funzioni mentali, come il linguaggio.[10] Secondo l’ipotesi culturale la musica nasce come una tecnica, capace di organizzare e modellare la mente (Transformative Technology of Mind Theory, TTM).[11]

Partiamo dalla teoria adattativa. Essa propone vari modi in cui comportamenti musicali sarebbero stati selezionati nel corso dell’evoluzione umana.

Anzitutto potrebbero aver giocato un ruolo nel successo sessuale: come in altre specie musicali, tra cui uccelli, balene e varie specie di insetti, gli individui dotati di abilità musicale avevano migliori possibilità di trovare un partner e riprodursi.[12]

Secondo un’altra prospettiva il ruolo adattativo della musica consiste nel fatto che le abilità musicali sono fondamentali per un efficiente sviluppo mentale e per integrare diverse funzioni cognitive e motorie. Quindi il comportamento musicale avrebbe giovato alle abilità di movimento, alle facoltà cognitive e alle tendenze sociali dei nostri progenitori, favorendo la sopravvivenza e il successo evolutivo degli individui che ne erano dotati.[13]

Altri studiosi evidenziano il ruolo sociale della musica, secondo cui l’utilizzo che se ne faceva in contesti pubblici e rituali cementava la coesione del gruppo, favorendo il successo evolutivo degli individui che lo componevano. Gli studi di etno-antropologia sembrano evidenziare che presso le ultime popolazione tribali ancora esistenti sulla terra effettivamente la musica è usata quasi esclusivamente in contesti sociali.[14]

La musica potrebbe avere giocato un ruolo fondamentale anche nei confronti della nostra condizione di mammiferi. Attraverso la musica i nostri progenitori, o meglio le nostre progenitrici, potevano continuare ad accudire la prole senza bisogno di un contatto fisico diretto, liberando così gli arti e il corpo per il procacciamento del cibo, ad esempio per la raccolta, e per altre azioni relative alla sopravvivenza. In effetti uno studio comparato relativo alle ninne nanne ha dimostrato l’esistenza di strutture universali presenti in questi canti, in culture molto varie e diverse,[15] cosa che farebbe presupporre una comune origine.

Concludendo questa disamina delle ipotesi adattive, cerchiamo di mettere in rilievo un elemento che le accomuna. Tutte concordano sul fatto che la musica abbia una profonda influenza organica sulla vita umana: o a livello fisico, come richiamo sessuale e di corteggiamento (Miller), ovvero come fattore di accudimento e sopravvivenza (Trehub); o a livello emozionale, come fattore di socialità e di legami rituali (Morley); o a livello intellettivo come base di funzioni cognitive superiori (Mithen).

Non importa qui stabilire se le ipotesi adattative siano corrette. Ciò che conta è comprendere che esse mettono in luce la profonda azione dei comportamenti musicali sulle tre dimensioni dell’essere umano: fisica, intellettuale, emozionale.

Passiamo ora a prendere in esame la tesi non-adattativa della musica. Secondo questa tesi i comportamenti musicali non hanno contribuito al vantaggio selettivo della specie umana, ovvero alla sopravvivenza, riproduzione, e conseguente successo genetico, degli individui che mettevano in atto comportamenti musicali.

Una prima e netta formulazione della inutilità della musica viene da William James, nei suoi Principi di Psicologia[16]. Egli affermava che gli uomini traggono piacere dall’ascolto della musica solo incidentalmente, poiché essa stimola e solletica l’udito. Il suo testo è tra i più influenti di tutta la storia della psicologia, perciò tale idea ha avuto una forte influenza. Steven Pinker[17] ne riprende gli argomenti, sostiene che la musica risponde unicamente allo scopo di procurare piacere all’uomo, grazie al fatto che ricalca, ripropone e ampia la prosodia del linguaggio. Secondo Pinker il nostro cervello, fatto per il linguaggio, trae piacere da attività sonore che lo stimolano e lo sollecitano.

La sua è una operazione di riduzionismo: i fenomeni e gli enti analizzati vanno ricondotti e ridotti al numero minimo e sufficiente per spiegare i fatti. Quindi alcuni fenomeni sono ricondotti ad altri, che sono ritenuti semplici, fondativi, elementari.

L’interpretazione di Pinker appare come il prodotto di una cultura che svaluta le manifestazioni umane non riconducibili all’intelletto. La musica è considerata piacevole solo in quanto stimola altre funzioni intellettive superiori, considerate utili alla sopravvivenza: le funzioni del linguaggio e dell’analisi dei suoni. Egli aggiunge un altro motivo di piacere: la musica esprime sonorità che normalmente produciamo nei momenti di forte emozione, come il riso, il pianto, la felicità.

Il riduzionismo di Pinker riconduce quindi la vastità del fenomeno musical a semplice prodotto delle funzioni logico-linguistiche.

Anche in questo caso non ci esprimiamo sulla validità di questa teoria. Quel che conta è che anche questa ipotesi non-adattativa, come la precedente, si basa sull’evidenza di effetti fisiologici, emozionali e cognitivi della musica. Lo studioso canadese riconosce che essa agisce sull’allenamento e la vitalità dei sensi (esplorazione sensoriale dello spazio), sulle emozioni (analogia tra musica ed espressione emozionale), sulla facoltà di linguaggio (analisi dei suoni).

L’azione della musica sulla dimensione psicofisica dell’uomo ci porta verso l’analisi di un terzo modello di ricerca, che si sottrae alla contrapposizione tra ipotesi adattativa e non adattativa, la Transformative Technology of Mind Theory, proposta da Aniruddh Patel nel 2008. Pur prendendo in considerazione il fenomeno musicale come tecnica prodotta dall’uomo, ne indaga le ripercussioni sulla mente, in particolare le trasformazioni che essa induce nel sistema-uomo.

“[…] la musica può essere un’invenzione umana, ma se è così assomiglia alla capacità di fare e controllare il fuoco: è qualcosa che abbiamo inventato e che trasforma la vita umana. In realtà è in qualche modo addirittura più notevole del fare il fuoco, perché non solo è un prodotto delle capacità mentali del nostro cervello, ma ha anche il potere di cambiare il cervello.”[18]

Mentre nella teoria adattativa si attribuisce ai comportamenti musicali un vantaggio evolutivo, nella teoria non adattativa non si attribuisce loro alcun vantaggio biologico.

“Secondo alcuni l’universalità e l’antichità dei comportamenti musicali dell’uomo può implicare che questi ultimi abbiano avuto origine da un adattamento biologico. Il pericolo di un assunto del genere è illustrato da un’altra rimarchevole caratteristica umana, ovvero il controllo del fuoco. Questa caratteristica si riscontra in tutto il passato della nostra specie, e in ogni cultura umana. Ciò nonostante pochi sarebbero disposti a negare che si tratta di un’invenzione, piuttosto che di un adattamento biologico. L’universalità di questa caratteristica può essere spiegata dal fatto che essa risponde a esigenze universalmente tenute in gran valore dagli umani, come la capacità di cucinare il cibo, mantenere il calore, vedere al buio. L’esempio della tecnica del Fuoco ci insegna che quando riscontriamo un tratto universale e antico, non possiamo semplicemente assumere che esso sia il prodotto di una selezione naturale.”[19]

Nell’interpretazione di Patel la musica è una tecnologia inventata dall’essere umano, che di riflesso agisce in modo trasformativo sul cervello e sulla mente. Dunque, avrebbe una rilevanza biologica, in particolare un effetto positivo su funzioni come l’attenzione, il linguaggio, le capacità esecutive, senza risultare da una pressione selettiva. La musica potrebbe essere una forma di tecnologia, come la scrittura e la lettura, che una volta inventate e utilizzate comportano un riassetto complessivo della struttura neurologica e del cervello.

La questione è molto simile a quella che si pone per le capacità di letto-scrittura. Esse richiedono competenze estremamente specifiche, e prestazioni molto alte.

“Come è possibile che l’architettura cerebrale di uno strano bipede, evolutosi in cacciatore-raccoglitore, si sia adattata così perfettamente, in poche migliaia di anni, alle sfide del riconoscimento visivo delle parole? […] Una sorprendente scoperta ha recentemente dimostrato che vi è una specifica area corticale per le parole scritte, un po’ come accade per l’area uditiva della corteccia motoria, che esiste in tutti i nostri cervelli. Ancor più sorprendente, forse, è il fatto che questa area per la lettura sembra essere identica per chi legge in inglese, in giapponese, in italiano. Significa che esistono meccanismi cerebrali universali per la lettura?”[20]

Nella pratica della lettura incontriamo le stesse aree cerebrali, ma nonostante l’universalità del fenomeno nessuno teorizza che il cervello si sia evoluto a causa della lettura.  Conosciamo infatti civiltà umane interamente sviluppate, senza lettura e scrittura. Piuttosto dobbiamo ritenere che queste conquiste tecnologiche si siano innestate su un sistema cerebrale capace di supportarle.

“Le nuove invenzioni culturali possono essere acquisite solo se rispettano la nostra architettura cerebrale. Gli artefatti culturali possono deviare considerevolmente dal mondo naturale nel quale ci siamo evoluti – nulla in natura appare più remoto della pagina di un libro. Comunque ognuna di queste invenzioni deve trovare la sua nicchia ecologica nel cervello, o un circuito neurale la cui funzione iniziale sia abbastanza vicina, e la cui flessibilità sia sufficiente per essere convertita al nuovo ruolo.”[21]

Attraverso il linguaggio dell’informatica contemporanea possiamo descrivere la situazione in questi termini: le nuove applicazioni possono essere installate, e possono funzionare, soltanto se sono compatibili col sistema.

Il nostro cervello non è stato selezionato per leggere e scrivere, tuttavia ne risulta modificato, in quanto leggere e scrivere comportano una sua riorganizzazione. Allo stesso modo secondo Patel la musica non è un fattore dell’evoluzione, ma i comportamenti musicali determinano un cambiamento neuropsichico globale. Per tornare al linguaggio informatico, secondo la Transformative Technology of Mind Theory l’acquisizione della musica comporta un aggiornamento del sistema.

Due sembrano essere i punti deboli della teoria di Patel.

In primo luogo, risulta strano che un comportamento con tanti e variegati vantaggi biologici non abbia anche favorito l’individuo e la specie nella lotta per la sopravvivenza.

In secondo luogo per definire la musica un’invenzione, una tecnologia, è necessario trovare una civiltà umana priva di musica, in cui questa non sia ancora stata inventata. Infatti, diciamo che la ruota è un’invenzione, in quanto ci sono note civiltà umane che non la utilizzavano. Tuttavia le evidenze archeologiche dimostrano che fin da tempi estremamente remoti l’uomo produceva e ascoltava musica, e le ricerche etno-antropologiche dimostrano che non esiste civiltà umana senza una tradizione musicale. Quindi parlare della musica come di una tecnologia che l’uomo avrebbe inventato a un certo punto della sua storia è un azzardo, un pregiudizio che condiziona l’intera teoria. Per quanto ne sappiamo l’Uomo è sempre stato una specie musicale.

Non conosciamo alcuna civiltà senza un linguaggio, così come non conosciamo forme di vita umana prive di una tradizione musicale. Dunque, la ricerca di una di una proto-lingua è un miraggio, tanto quanto la ricerca di un proto-canto.

 

Conclusioni sulla utilità o inutilità della musica

 

In conclusione, le indagini non riescono a determinare se la musica abbia avuto origine come vantaggio adattativo, o se, una volta inventata, abbia trasformato la mente del proprio inventore. In realtà le indagini non riescono a determinare neppure se la musica abbia avuto un’origine. Pur con i limiti di queste ricerche, esse gettano luce sul riconoscimento che la musica agisce profondamente sul corpo, sull’intelletto, sulle emozioni. Questa azione modifica a fondo tutte e tre queste parti, e si fissa in tracce cerebrali evidenti e permanenti.

Il grande sviluppo delle neuroscienze, nella seconda metà del ventesimo secolo, ha spinto a studiare le tracce che la musica lascia nel sistema nervoso. Questi studi hanno raggiunto un grande livello di popolarità nel 1993, quando due studiosi della California University, Gordon Shaw e Frances Rausher, hanno osservato un aumento delle prestazioni cognitive seguito all’ascolto delle musiche di Mozart. A queste osservazioni è seguita nel 1997 la pubblicazione del libro The Mozart Effect, che ben presto divenne un successo mondiale[22].

Attraverso l’esperienza di medici, sciamani, musicisti e studiosi, Campbell espone esperienze da tutto il mondo, mostrando che la musica è un aiuto nelle malattie mentali, negli stati ansiosi, nell’ipertensione, nei dolori e nei disturbi del linguaggio. Le abilità musicali inoltre favoriscono il successo scolastico, migliorando l’apprendimento e il comportamento.

Studi successivi hanno ridimensionato la peculiarità di Mozart in questo ambito, dimostrando che gli effetti benefici e terapeutici possono provenire da molti tipi di musica, anche a partire dalle preferenze individuali e dalla cultura di partenza dell’ascoltatore.

L’evidenza di questi effetti, già tramandati dalla cultura tradizionale, ormai trova ampio riscontro in ambito accademico, e le scienze devono riconoscere che “il coinvolgimento regolare in attività musicali può esercitare effetti a lungo termine sulle funzioni cerebrali.”[23] Dunque la musica come comportamento e come tecnica umana, ha innegabilmente una rilevanza biologica, a livello individuale, e Patel porta due esempi clinici a questo riguardo.[24]

Anzitutto è dimostrato che i pazienti colpiti da ictus, e conseguente danno cerebrale, hanno tempi e prospettive di recupero più favorevoli in funzioni cognitive quali la memoria verbale e l’attenzione selettiva, se ascoltano regolarmente musica che sia loro gradita. Inoltre i pazienti si giovano di miglioramenti dell’umore clinicamente rilevanti.

In secondo luogo, sono stati studiati pazienti con deficit di linguaggio, in particolare con afasia causata da lesioni cerebrali, curata attraverso la Melodic Intonation Therapy (MIT). Poiché le aree danneggiate riguardano l’emisfero sinistro del cervello, l’approccio punta a utilizzare nell’emisfero destro le strutture residue, capaci di partecipare alla elaborazione del linguaggio, attraverso la frequente stimolazione con brevi pattern melodici e ritmici. Questo tipo di terapia sembra favorire il recupero della fluenza linguistica.

Indipendentemente dal fatto che i comportamenti musicali siano un tratto selezionato per via evolutiva, le evidenze sperimentali mostrano che essi hanno effetti a lungo termine sulle funzioni cerebrali, anche quelle non direttamente coinvolte nell’elaborazione musicale.

L’importanza di questi effetti per la vita dell’individuo sono ampiamente dimostrati e aprono grandi prospettive di ricerca in tutti i campi, dalla medicina alla psicologia, all’antropologia, fino a investire il dibattito politico su quale scuola, quale tipo di apprendimento, e attraverso quali mezzi la società possa provvedere all’educazione dei suoi membri.

“[…] La direzione importante per il lavoro futuro riguarda i bambini, poiché il loro sviluppo cerebrale è molto più malleabile di quello degli adulti. Infatti la musica può essere una tecnica particolarmente adatta a formare le loro funzioni mentali, in quanto possono esservi immersi fin da piccoli. È dunque relativamente facile coinvolgerli continuativamente in comportamenti musicali.”[25]

Gli effetti neuro psichici dei comportamenti musicali devono entrare nel dibattito pedagogico e politico sulla scuola, in quanto proprio nella scuola si determinano le condizioni psicologiche, cognitive, relazionali e culturali sulla cui base la società si forma e si evolve. Tuttavia, a un livello più basico, questi studi devono contribuire alla prevenzione e alla cura di quei disturbi che affliggono la popolazione scolastica.

È ampiamente nota l’incidenza della dislessia tra i disturbi dell’apprendimento, ma ancora non è stata adeguatamente compresa l’importanza dell’educazione dei sensi e dell’orecchio, nella prevenzione e nella cura di questo disturbo. La dislessia infatti appare correlata a un deficit uditivo, per il quale risultano carenti le capacità discriminatorie e predittive del sistema fonologico. Come avevano ben compreso Maria Montessori e Edgard Willems la preparazione dell’orecchio è anche una preparazione del cervello, e di tutto il sistema cognitivo e motorio coinvolto nell’analisi e comprensione dei concetti, nella loro espressione verbale e scritta.

Un deficit nella discriminazione uditiva comporta difficoltà linguistiche anche nel momento in cui altri fattori, come il quoziente intellettivo, il lessico, l’espressione non verbale, rientrano nella norma. Dall’altra parte un’adeguata sensibilità ai dettagli del parlato svolge un ruolo molto importante nella comprensione del discorso, e nello sviluppo del sistema fonologico. Gli studi condotti attraverso l’elettroencefalogramma mostrano in bambini normodotati l’attivazione dell’emisfero destro per una analisi puramente sonora e musicale del discorso. Dunque le attività musicali aiutano il sistema nervoso coinvolto nell’elaborazione sonora del linguaggio. [26]

È importante non focalizzare eccessivamente l’attenzione sull’aspetto terapeutico della pratica musicale, ma piuttosto sulla musica come cura della persona, come formazione interiore delle condizioni psichiche e neurologiche di uno sviluppo integrale e armonioso. La musica non deve servire a curare le malattie, ma a prendersi cura dell’uomo, anche nel momento della malattia.

Gli studi di Sylvain Moreno[27] hanno messo a confronto le capacità logico linguistiche in gruppi di bambini coinvolti in attività pittoriche e musicali, registrando in questi ultimi miglioramenti considerevoli nelle capacità logico-linguistiche.

“Musica e linguaggio sembrano condividere specifiche caratteristiche che permettono alla musica di migliorare e incrementare l’elaborazione del linguaggio.“[28]

Anche in questo caso, è necessario non focalizzare l’attenzione su questo o quel vantaggio della musica, come l’incremento linguistico, l’incremento del quoziente intellettivo, la propedeutica all’apprendimento di altre lingue, e così via.

Ciò rischierebbe di trasformare la musica in uno strumento per ottenere dal bambino e dall’uomo prestazioni sempre più performanti. Cadremmo nell’errore di utilizzare la musica per correre la maratona di New York, per favorire gli acquisti in un supermercato, per rendere il bambino più efficiente, la musica come doping. Questo errore è speculare a quello di chi considera inutile la musica. Alla presunta inutilità della musica non possiamo contrapporre la sua utilità.

Essa riveste un ruolo educativo così importante perché è una forma di cura e accudimento di sé e degli altri, del tutto gratuita, del tutto spontanea, senza scopo.

Dagli studi e dalle ricerche che abbiamo esposto emerge la profonda, naturale e spontanea correlazione tra musica e sviluppo motorio, emozionale e intellettivo dell’Uomo.

Emerge anche la sua origine misteriosa, che deve trattenerci dal volerla usare, e deve piuttosto muovere in noi una sensibilità all’ascolto, alla ricerca, all’apertura, che trovano nell’educazione il luogo in cui manifestarsi.

 


[1]G. Rouget, Musica e Trance, Einaudi, Segrate, 2019

[2]M. Lorrai, Greg Tate, un’idea collettiva di musica, articolo pubblicato sul quotidiano “Il Manifesto”, il 22 Settembre 2019. Versione on line consultata il 7 Maggio 2020 su https://ilmanifesto.it/greg-tate-unidea-collettiva-di-musica/

[3] M. Calabresi, “Divieto di iPod alla maratona”, articolo pubblicato sul quotidiano “La Repubblica”, il 2 Novembre 2007. Versione on line consultata il 7.05.2020 https://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/esteri/maratona-newyork/maratona-newyork/maratona-newyork.html

[4] P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Ubaldini Editore, Roma, 1976, p.120

[5] B. Nettl, An ethnomusicologist contemplates universals in musical sound and musical culture. in: N. L. Wallin, B. Merkers, & S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press.

[6] N.J. Conard, M. Malina, e S.C. Münzel, New flutes document the earliest musical tradition in southwestern Germany, Nature, 2009, 460, 737-740.

[7] https://www.nature.com/articles/nature08169

[8] P.D.Trimarchi, Rappresentazioni mentali della musica: studi comportamentali sull’interazione uditivo motoria durante l’analisi dell’altezza dei suoni e brain imaging funzionale nella rappresentazione del ritmo, Università Bicocca di Milano, 2009-2010, pp. 2-8

[9] S. Mithen, The Singing Neanderthals, 2005, op.cit

[10] S. Pinker, How the Mind Works. London: Allen Lane, 1997

[11] A. Patel, La Musica, Il Linguaggio, il Cervello, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2016

[12] G. Miller, Evolution of human music through sexual selection. in: N. L. Wallin, B. Merkers,

e S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[13] I. Cross, Music, cognition, culture, and evolution. in: N. L. Wallin, B. Merkers, & S. Brown

(Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[14] I. Morley, The Evolutionary Origins and Archaeology of Music: An Investigation into the

Prehistory of Human Musical Capacities and Behaviours. Ph.D dissertation, University of

Cambridge, 2003

[15] S.E.Trehub, Human processing predispositions and musical universals. in: N. L. Wallin, B.

Merkers, & S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[16] W. James, The Principles of psychology, New York, Dover Publications, 1890

[17] S. Pinker, L’Istinto del Linguaggio, op. cit.

[18] A. Patel, La Musica, Il Linguaggio, il Cervello, op. cit

[19] A. Patel,. Music, biological evolution, and the brain, in: M. Bailar Edition, Emerging Disciplines. Houston: Rice University Press, 2010, p.46 (nostra la traduzione)

 

[20] S.Stanislas Dehaene, Reading in the brain, op. cit., (nostra traduzione cap.1) testo consultato in rete su: https://www.academia.edu/38286217/

[21] S.Stanislas Dehane, op.cit. (nostra traduzione cap.2)

[22] Don Campbell, L’Effetto Mozart, Curarsi con la Musica, Baldini e Castoldi, Milano, 1999.

[23] A. Patel, Music, Biological evolution, and the brain, op.cit.p.50

[24] A. Patel, Music, Biological evolution, and the brain, op.cit. p.50 e seguenti

[25] A. Patel, Music, biological evolution, and the brain, op. cit. p. 53, (nostra traduzione).

 

[26] A.Patel, Music, biological evolution, and the brain, op.cit, p. 53

[27] S. Moreno, Can music influence language and cognition? Contemporary Music Review, Taylor & Francis on line 2009, Vol.28, pp. 329-345.

[28] S. Moreno, Can music influence language and cognition? Contemporary Music Review, op. cit, p.329, (nostra traduzione).

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Il senso della musica per l’uomo

Patrizia Figus

Il suono è ambiente

Per il filosofo greco Pitagora l’intero movimento cosmico genera un suono e una armonia che possono essere uditi, e che anzi lui realmente udiva. Il suono per Pitagora è l’ambiente in cui è immerso tutto il cosmo, in quanto è prodotto dai rapporti matematici tra le grandezze dei corpi in movimento. Le conseguenze di questa idea nella filosofia, nella fisica, nell’arte, sono immense. Qui ricorderemo soltanto il ruolo che la tradizione giudaico cristiana attribuisce al suono. Dio crea il mondo attraverso la parola e lo compenetra come parola, come logos. Nelle Cronache di Narnia, ideate nel 1939 da C.S. Lewis, il leone Aslan, simbolo di Cristo e del Logos, crea e sveglia il mondo attraverso il canto, al cospetto dei bambini che rappresentano l’Uomo.

 «“Narnia, Narnia, Narnia, svegliati. Ama. Pensa. Parla. Che gli alberi camminino. Che gli animali parlino. Che le acque siano sacre”. Quella era la voce del leone. I bambini avevano sempre saputo che prima o poi il leone avrebbe parlato, ma quando sentirono la sua voce provarono un’emozione fortissima. […] E tutte le creature e tutti gli animali, con voci diverse, alte o basse, cupe o chiare, salutarono con queste parole: “Salute, o Aslan. Abbiamo udito e ti obbediamo. Noi siamo svegli. Noi amiamo. Noi pensiamo. Noi parliamo. Noi sappiamo”. […] “O nobili creature, io vi faccio dono di voi stessi”»[1]

La straordinaria poesia di queste parole traspare delicatamente nella conclusione: il canto non dona alle cose una vita e un’esistenza che essi non hanno ancora. Dona loro l’essere che già li abita, in quanto essi non sono per il canto, essi sono il canto. Io vi faccio dono di voi stessi, dice il Leone. Gli esseri sono musica, tanto quanto l’Essere del mondo è musica. Un sentimento molto vicino a questo si avverte in parole che provengono da lontano, dal sufi Hazrat Inaal Khan.[2]

“Ho suonato la vina fino a quando il mio cuore si è trasformato nello strumento stesso; quindi ho offerto questo strumento al divino musicista, l’unico musicista esistente. Da allora sono divenuto il suo flauto e, quando vuole, egli suona la sua musica. La gente ha fiducia in me grazie a questa musica che in realtà non è dovuta a me ma al musicista che suona il suo strumento”.[3]

Il suono è ambiente, e allo stesso tempo l’ambiente è suono. A partire dalla metafora di Montessori, la voce delle cose[4], possiamo condurre una particolare riflessione sulla relazione che unisce l’uomo e l’ambiente. Il fanciullo è richiamato da una voce intrinseca di tutte le cose, è spinto a cercare, scoprire, interagire con ciò che lo circonda. Questa voce lo guida indirettamente nella sua evoluzione: tutto accade con naturalezza quando egli può agire liberamente, seguendo il suo impulso, la sua onda, il suo tempo, il suo ritmo, in obbedienza al manifestarsi dei periodi sensitivi che segnano le tappe del suo sviluppo e l’interazione con l’ambiente.

 

Il maternese, la lingua cantata

È oramai chiaro che le strutture del linguaggio influenzano il funzionamento della mente, la rappresentazione del mondo che ci costruiamo, le nostre azioni. Una lunga serie di ricerche approfondisce questo tema. Il filosofo inglese John Locke[5] Nel suo Saggio sull’intelletto umano[6], in particolare nel libro terzo, lancia un monito che è anche il fondamento della sua idea di tolleranza e di pace: i conflitti tra gli uomini derivano da malintesi linguistici. Secondo John Locke gli uomini si scontrano sulla interpretazione della realtà in quanto attribuiscono nomi diversi alle stesse cose, e nomi uguali a cose diverse. Ciò deriva da una inadeguata e incompleta esperienza sensoriale, nonché da una carente riflessione filosofica. Il linguaggio forma dunque il pensiero e comportamento umano, fino a spingerlo all’amicizia e alla guerra.

Con grande forza poetica, Martin Heidegger[7] rappresenta il ruolo del linguaggio attraverso una immagine straordinaria: il linguaggio è la casa dell’essere.[8] L’uomo non usa il linguaggio, in quanto vi nasce già dentro, lo trova già pronto; è il linguaggio che usa e forma l’uomo.

Ma il linguaggio, a sua volta, da dove viene? Come si attiva questa facoltà nell’uomo? Il primo e principale fattore di attivazione del linguaggio nell’uomo è il suono, la vibrazione sonora che il feto percepisce nel ventre materno. Non fanno eccezione le lingue mutole[9] o lingue dei segni. Anche in caso di sordità congenita o acquisita, infatti, l’ascolto delle vibrazioni sonore è presente, anzitutto sotto forma di ascolto osseo, ricezione del suono attraverso la vibrazione delle ossa.

In questo ambito possiamo ricercare fin dalle origini il potenziale musicale dell’uomo, che emerge attraverso una relazione strettissima tra suono, musica, linguaggio.

Sin dai primi istanti di vita il fanciullo è richiamato dalla voce e dal corpo della madre, sua prima fonte di nutrimento. Egli è attratto da una naturale impressione di musicalità. Attraverso il corpo proprio e della madre il feto riceve suoni, a partire dalla voce. Dopo il parto, la madre parla al bambino in una lingua speciale, quasi magica nelle sue sonorità, il maternese.

A partire dagli anni Sessanta del ventesimo secolo si è studiata la lingua concretamente parlata dalla madre nelle interazioni con il figlio.[10]

Essa ha caratteristiche peculiari rispetto alla lingua standard, e come oggetto di studio ha ricevuto un nome specifico: Infanct-Directed-Speech, anche detto motherese, tradotto in italiano come maternese. Gli studi fanno ritenere che questa particolare declinazione della lingua standard abbia un grande valore per lo sviluppo psichico, affettivo, cognitivo e corporeo dell’infante, tanto da presentarsi in tutte le culture. Il maternese promuove l’apprendimento affettivo, attentivo, e del linguaggio. Le peculiarità del maternese sembrano dettate dalla spontaneità, e dalla naturalezza della relazione tra madre e figlio.

Riteniamo utile riportare quelle principali:

  • la fonologia si caratterizza per le parole scandite più chiaramente;
  • la semantica consiste in semplici ed immediati;
  • la morfologia è costituita da espressioni brevi;
  • a livello sintattico si ricorre ad uno stile olofrastico, condensando ampi significati in una sola parola, ad esempio “fame”;
  • sono frequenti le interazioni affettive, l’espressione del volto e la gestualità.

Queste strategie linguistiche sembrano ripetersi in tutte le culture, con l’aggiunta di un’ultima strategia, che a prima vista non appare affatto necessaria: la madre mette in moto una cantilena che cattura il figlio, lo avvolge, lo culla, lo rassicura, lo accoglie nella dimensione dell’attaccamento:[11] insomma la madre canta, e la cosa ci costringe ad ammettere che la sua cantilena abbia un senso e un valore formativo per il neonato, che cullato da questo canto forma la sua psiche.

Dall’età di sei mesi i bambini sono più attrattati dall’ascoltare la madre che canta, piuttosto che ascoltarla mentre parla con loro[12].

Anche nei momenti in cui il bambino è sofferente il canto è una forma di accudimento e di cura effettiva, più di quanto lo sia la parola parlata. Sono stati messi a confronto il livello di stress sofferto dal bambino sia mentre era esposto al canto materno sia mentre era esposto al semplice parlato. L’analisi dei campioni di saliva prelevati mostra che dopo aver ascoltato il canto i livelli di cortisolo (ormone attivato in condizioni di stress) diminuiscono e restano bassi più a lungo rispetto ai momenti in cui ode il parlato.[13]

Sono molte le evidenze che suggeriscono la predominanza del canto nella cura e nell’accudimento, il che suggerisce di interpretare il maternese e le sue inflessioni prosodiche come una vera e propria lingua cantata.

Esso è caratterizzato dalla spontaneità, semplicità e carica affettiva. Il bambino, che sente incessantemente gli stimoli uditivi, impara a riconoscere le variazioni del tono, le modulazioni, le intensità e attribuisce loro un significato. La sua “mente assorbente”[14] trasforma quegli stimoli in tracce, che ne segnano lo sviluppo. Le espressioni vocali della madre col bambino sono accompagnate da un linguaggio non verbale che rinforza il significato e completa l’espressività.

Il linguaggio che unisce madre e figlio segue regole del tutto diverse dal linguaggio comune, è fondato sulla intimità del suono e della musicalità che li ha uniti durante la gestazione. Lo studio del maternese ha aperto una grande possibilità per comprendere che il nostro funzionamento si basa sul suono.

Se nella tradizione filosofica e spirituale il mondo è pieno di suono ed è creato dal suono, la scienza contemporanea sembra riproporre questo modello macrocosmico a livello microcosmico, nello sviluppo dell’essere umano.

Già a partire dalla quinta settimana di gestazione l’orecchio interno, la catena degli ossicini e il timpano, raggiungono la loro dimensione adulta, e la piena funzionalità. Prima che gli altri sensi possano svilupparsi, l’udito è già pienamente attivo, consentendo a feto di comunicare con la madre[15]. Il feto nell’utero percepisce e distingue la voce materna, e risponde in maniera diversa rispetto a come risponde ad altre voci nell’ambiente.

In tal modo il feto sviluppa le competenze che gli occorreranno quando sarà neonato: già individua nell’ambiente i riferimenti per nutrirsi, essere protetto, essere educato. Questi stimoli ambientali che lo avvolgono nel corso della gravidanza, anzitutto il battito cardiaco della madre e la sua voce, sono assimilati in maniera profonda, prerazionale, e saranno da lui associati a una funzione acquietante. A livello microcosmico la creazione del mondo attraverso il suono si manifesta nello sviluppo del bambino. In principio è il Logos, il suono: lo sviluppo prende le mosse dal suono.

Il medico francese Alfred Tomatis[16]fu il pioniere, e forse lo studioso più appassionato, in questo campo. Egli osservò che allo stesso modo in cui “le uova degli uccelli canterini covate da uccelli che non cantano danno origine ad uccelli privi della capacità di cantare” doveva esserci una comunicazione sonora tra il feto e la madre[17]. Aveva intuito che la trasmissione di informazioni e di competenze, o, parlando in senso più ampio, l’educazione, inizia prima della cosiddetta nascita, quando la vita è ancora in formazione.

«Pensai che se tutte queste informazioni potevano essere trasmesse attraverso il guscio dell’uovo, probabilmente anche la parete uterina era in grado di offrire le stesse opportunità. Cominciai così a domandarmi quello che poteva succedere nell’utero tra il feto e la madre da una parte e tra il feto e il mondo esterno dall’altra.»[18]

Nel buio della notte uterina, la voce della madre è la voce del leone di Narnia, il canto di un Dio che forma il mondo.

 

L’istinto musicale

Nel 1994 lo psicologo Steven Pinker, docente all’Università di Harvard, pubblicò uno studio che ebbe molto successo, tradotto in Italia con il titolo l’Istinto del linguaggio.[19] Sulla base delle teorie di Noam Chomsky egli vuole dimostrare che la straordinaria rapidità del bambino nell’apprendere una lingua richiede una predisposizione innata, una grammatica universale inscritta nel sistema nervoso. Tale grammatica universale è innata ed ereditaria, poiché è il frutto di un percorso evolutivo, che ha selezionato gli individui più adatti a comunicare.

Il bambino non parte da zero: si trova immerso in un ambiente linguistico che attiva le sue conoscenze istintive. Solo così è possibile spiegare come un bambino di quattro anni possa gestire migliaia di parole e frasi molto complesse.

Il modello di spiegazione del linguaggio proposto da Noam Chomsky ha affascinato immediatamente il musicista e compositore Leonard Bernstein,[20] il quale avanza l’ipotesi che anche la musica, come il linguaggio, obbedisca a regole universali innate nell’uomo.

Se parliamo di istinto del linguaggio, quindi, occorre anche parlare di istinto musicale.

Solo un istinto musicale innato spiega perché non si trovino società e culture prive di un sapere musicale; solo un istinto musicale innato ci permette di comprendere perché nella specie umana la mamma canta al bambino, e il bambino canta ancor prima di articolare suoni linguistici.

“Bambini molto piccoli – da 2 a 8 mesi – esposti precocemente a suoni musicali, anche durante gli ultimi mesi di gravidanza, esibiscono la capacità di cantare intonati molto prima di quanto riescano a pronunciare i primi fonemi (lallazione)”[21]

Come per il linguaggio, solo un istinto radicato nel sistema nervoso della specie umana può permettere una risposta così universale, veloce, e spontanea allo stimolo ambientale.

L’intuizione di Leonard Bernstein fu sviluppata dallo psicologo Ray Jackendoff e dal musicologo Fred Lerdhal.[22] La collaborazione tra i due ha dato il via ha un filone di ricerca molto promettente presso la Harvard University, orientato a scoprire una grammatica musicale universale, analoga alla grammatica generativa di Chomsky

La ricerca sembra avviata a dimostrare che la musica rappresenta un linguaggio universale, capace di oltrepassare le barriere culturali e sociali. In uno studio sperimentale della Harvard University[23] i ricercatori hanno fatto ascoltare musiche di provenienza molto varia a un campione rappresentativo di soggetti. Individui di 60 Paesi diversi hanno ascoltato musiche provenienti da 86 piccole culture diverse tra loro. Gli ascoltatori hanno intuito con successo le funzioni e il senso delle musiche udite. Secondo i ricercatori, quindi, il canto umano mostra strutture formali universali.

“Abbiamo mostrato che la nostra psicologia condivisa produce nella musica schemi fondamentali che trascendono le nostre profonde differenze culturali […] Ciò suggerisce che le nostre risposte emotive e comportamentali agli stimoli estetici hanno una notevole stabilità in popolazioni ampiamente divergenti”.[24]

Poiché l’istinto musicale emerge in maniera più precoce di quello linguistico, possiamo forse ritenerlo più arcaico, e alla base del funzionamento e della acquisizione di un linguaggio verbale.

Sappiamo parlare perché sappiamo cantare, perché prima di parlare siamo in grado di comunicare e comprenderci attraverso la musica. Ciò spiegherebbe anche perché la musica ci attrae così fortemente, qualunque sia la nostra età.

Nell’ Istinto del piacere Gene Wallenstein scrive: “i neonati sono attratti dalla musica fin dalla nascita, e sono sensibili a proprietà acustiche comuni a tutti i sistemi musicali, a prescindere dalla cultura di appartenenza. A due mesi di età, il bambino era in grado di distinguere le differenze di altezza e di tempo tra strutture musicali più o meno con la stessa abilità di un ascoltatore che è già stato esposto alla musica per decine di anni. Fin dai primi istanti di vita, la musica tira i neonati attraverso proprietà specifiche che sono le stesse apprezzate dagli adulti di ogni parte del mondo. Già a 4 mesi i bebè mostrano preferenze stabili per la musica contenente più intervalli consonanti e dissonanti […] un simile effetto è stato osservato in molte culture e in bambini con livelli di esposizione alla musica variabili.”[25]

La ricerca sperimentale tende sempre più a dimostrare che esistono dei modelli percettivi tendenzialmente universali tra gli uomini, che determinano il piacere musicale.

“L’esistenza di preferenze percettive e capacità percettive simili in ascoltatori adulti e giovani provenienti da culture diverse lascia pensare che certe caratteristiche, elementi fondamentali della competenza musicale, esistono fin dalla nascita.”[26]

Parallelamente a strutture universali del linguaggio riconosciute da Chomsky, l’istinto musicale sembra essere ereditario, frutto dell’evoluzione e della selezione naturale. Vedremo nel terzo capitolo che esiste un serrato dibattito riguardo ai comportamenti musicali come risultato dell’evoluzione. In ogni caso ritroviamo questi comportamenti, che qui definiamo istinto musicale, già nell’homo di Neanderthal.

È improbabile che i Neanderthal usassero il linguaggio verbale, in quanto il loro apparato fonatorio appare diverso da quello dell’Homo Sapiens. La questione è dibattuta e problematica, tuttavia sembra certo che i neanderthal fossero in grado di cantare e produrre musica, come testimoniato dal flauto d’osso ritrovato a Divje Babe, in Slovenia.[27] Come scrive il professor Steven Mithen, dell’Università di Reading, per comprendere l’uomo occorre comprendere perché siamo spinti a produrre e ad ascoltare musica.

“Non possiamo comprendere l’origine e la natura dell’homo sapiens senza indagare perché e come siamo una specie musicale”[28]

Lo studioso inglese si basa su ritrovamenti archeologici, studi di etno-antropologia, musicologia, psicologia e neuroscienze. Anche se il linguaggio articolato e l’arte sembrano caratteristiche esclusive dell’homo sapiens (apparso circa 300.000 anni fa) egli giunge a concludere che la musica appare come mezzo di comunicazione in un periodo più arcaico, tra australopitechi (tra 4 e 2 milioni di anni fa) e uomini di Neanderthal (tra 200 mila e 40 mila anni fa).

Mithen[29] esamina due ipotesi alternative in merito all’origine del linguaggio. Secondo la teoria composizionale la prima forma di comunicazione si è realizzata attraverso parole riferite a cose o azioni, e soltanto in seguito si sarebbe evoluta una grammatica.

Secondo un altro approccio, il proto-linguaggio dei nostri antenati doveva essere olofrastico: consisteva in suoni-frase che esprimevano in maniera olistica un vasto insieme di significati non analizzabili separatamente, non suddivisibili in parti significanti.

L’autore predilige questa tesi olistica, che gli appare più adatta al sistema fonatorio degli ominidi, e all’espressione di significati molto ampi, come fame, cibo, pericolo, e così via. Gli antichi ominidi secondo Mithen utilizzavano segni olofrastici per comunicare, attraverso gesti, mimica, versi, e il canto. Ciò darebbe conto dei reperti fossili, secondo la cui analisi australopitechi e neandhertal erano dotati di una cultura elementare e di un linguaggio non articolato.

Questo apparente paradosso è risolvibile ammettendo che essi disponevano di un complesso sistema comunicativo, modulato attraverso i versi, i gesti ed il canto. Da questo tipo di linguaggio si sarebbe evoluta la nostra gestualità, la musica, e il linguaggio.

 

Con questa tesi Mithen si spinge più in là di Steven Pinker, il quale negava che la musica potesse aver giocato un ruolo evolutivo e adattativo.[30] Come aveva intuito Leonard Bernstein, l’istinto musicale è più arcaico e originario di quello linguistico. Il musicista aveva compreso istintivamente ciò che lo scienziato Pinker aveva escluso, forse influenzato da quella “resistenza al musicale che ha radici lontane, le stesse che fino a poco tempo fa relegavano le materie musicali ad un posto di second’ordine.”[31]C. S. Lewis, Le cronache di Narnia, volume I, Il nipote del mago. Milano, Mondadori, pp. 87-88

[2] Hazrat Inaal Khan. Vadodara 1882- Nuova Dheli 1927

[3] Hazrat Inayat Khan, Il misticismo del suono, musica e suono come espressione dell’Armonia Divina, Roma, Ed. Mediterranee, 1994, Prefazione

[4] M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti Editore, 2016, p.95

[5] John Locke (1632-1704). Filosofo inglese considerato tra i padri del liberalismo e delle ricerche empiriche sull’intelletto umano

[6] J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, libro terzo Bari, Edizioni Laterza, 1972, pp. 3 e seguenti

[7] Martin Heidegger (1889-1976), Filosofo tedesco

[8] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia Editore, 2015

[9] A. Pennisi, Le lingue mutole, Roma, Carocci Editore, 1994

[10]C. Saint-Georges, M. Chetouani, R. Cassel, F. Apicella, A. Mahdhaoui, F. Muratori, et al. Motherese in Interaction At the Cross-Road of Emotion and Cognition? (A Systematic Review), in PLOS ONE rivista on-line, Ottobre 2013, Volume 8, www.plosone.org

 

[11] John Bowlby, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Edizioni Raffaello Cortina, 1982

[12] T. Nakata, e S.Trehub, Infants’ responsiveness to maternal speech and singing. Infant

Behavior and Development, 2004 , pp.27, 455-464.

[13] T. Shenfield, S.Trehub, e T.Nakata, (2003). Maternal singing mosulates infants arousal.

Psychology of music, 2003 pp. 31, 365-375.

[14] M.Montessori, La mente del bambino, Milano, Garzanti Editore, 2007, p.100

[15] A.Tomatis, La notte uterina, la vita prima della nascita e il suo universo sonoro, Red Editore, Como, 2015

[16] Alfred Tomatis (1920-2001)

[17] A. Tomatis, Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano, La liberazione di Edipo, Ibis, Pavia, 1993. p. 26

[18] A. Tomatis, La notte uterina, la vita prima della nascita il suo universo sonoro, Red Edizioni, Milano, 2009. p. 27

[19] Steven Pinker, L’Istinto del linguaggio, Milano, Edizioni Mondadori, 1998

[20] Leonard Bernstein (Lawrence 1918New York1990). Compositore, pianista, direttore d’orchestra statunitense.

[21] A. M. Proverbio, Neuroscienze cognitive della musica, Bologna, Edizione Zanichelli, 2019, p. 20

[22] G. Wallenstein, L’istinto del piacere, Bari, Edizioni Dedalo, 2011, p.115

[23] Mehr e altri, , Form and Function in Human Song, pubblicato in Current Biology, Elsevier Ltd, 2018, pp.356–368

[24]La musica è davvero un linguaggio universale”. in Scienze.it, MIND – Mente e cervello, 26 gen 2018. Web. 3 mag 2020.

[25] G. Wallenstein, L’istinto del piacere, op. cit. p.117

[26] G. Wallenstein, L’istinto del piacere, op. cit. p. 118

[27] A. M. Proverbio, Neuroscienze cognitive della musica, il cervello musicale tra arte e scienza, Bologna, Zanichelli Editore, 2019, p.1

[28] Mithen, S., Morley, I., Wray, A., Tallerman, M., & Gamble, C. “The Singing Neanderthals: The Origins of Music, Language, Mind and Body”. London, Weidenfeld & Nicholson, 16 Gennaio 2005 in Cambridge Archaeological Journal, pp. 97-112. Web. 3 Maggio 2020

[29] S. Mithen, The singing Neanderthals, the origins of music, Language, Mind and Body, Weidenfeld & Nicholson Editore, London, 2005

[30] Richard Dawkins, “https://youtube/hausB9-lYFI”. Estratto dall’ intervista integrale all’indirizzo   “https://youtu.be/yIMReUsxTt4”. Steven Pinker – The Genius of Darwin, 2008. Web. 3 Maggio 2020

[31] Tullio Visioli, Variazioni. Elementi per la didattica musicale, Anicia, 2004

 

[32]G. Rouget, Musica e Trance, Einaudi, Segrate, 2019

[33]M. Lorrai, Greg Tate, un’idea collettiva di musica, articolo pubblicato sul quotidiano “Il Manifesto”, il 22 Settembre 2019. Versione on line consultata il 7 Maggio 2020 su https://ilmanifesto.it/greg-tate-unidea-collettiva-di-musica/

[34] M. Calabresi, “Divieto di iPod alla maratona”, articolo pubblicato sul quotidiano “La Repubblica”, il 2 Novembre 2007. Versione on line consultata il 7.05.2020 https://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/esteri/maratona-newyork/maratona-newyork/maratona-newyork.html

[35] P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Ubaldini Editore, Roma, 1976, p.120

[36] B. Nettl, An ethnomusicologist contemplates universals in musical sound and musical culture. in: N. L. Wallin, B. Merkers, & S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press.

[37] N.J. Conard, M. Malina, e S.C. Münzel, New flutes document the earliest musical tradition in southwestern Germany, Nature, 2009, 460, 737-740.

[38] https://www.nature.com/articles/nature08169

[39] P.D.Trimarchi, Rappresentazioni mentali della musica: studi comportamentali sull’interazione uditivo motoria durante l’analisi dell’altezza dei suoni e brain imaging funzionale nella rappresentazione del ritmo, Università Bicocca di Milano, 2009-2010, pp. 2-8

[40] S. Mithen, The Singing Neanderthals, 2005, op.cit

[41] S. Pinker, How the Mind Works. London: Allen Lane, 1997

[42] A. Patel, La Musica, Il Linguaggio, il Cervello, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2016

[43] G. Miller, Evolution of human music through sexual selection. in: N. L. Wallin, B. Merkers,

e S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[44] I. Cross, Music, cognition, culture, and evolution. in: N. L. Wallin, B. Merkers, & S. Brown

(Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[45] I. Morley, The Evolutionary Origins and Archaeology of Music: An Investigation into the

Prehistory of Human Musical Capacities and Behaviours. Ph.D dissertation, University of

Cambridge, 2003

[46] S.E.Trehub, Human processing predispositions and musical universals. in: N. L. Wallin, B.

Merkers, & S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[47] W. James, The Principles of psychology, New York, Dover Publications, 1890

[48] S. Pinker, L’Istinto del Linguaggio, op. cit.

[49] A. Patel, La Musica, Il Linguaggio, il Cervello, op. cit

[50] A. Patel,. Music, biological evolution, and the brain, in: M. Bailar Edition, Emerging Disciplines. Houston: Rice University Press, 2010, p.46 (nostra la traduzione)

 

[51] S.Stanislas Dehaene, Reading in the brain, op. cit., (nostra traduzione cap.1) testo consultato in rete su: https://www.academia.edu/38286217/

[52] S.Stanislas Dehane, op.cit. (nostra traduzione cap.2)

[53] Don Campbell, L’Effetto Mozart, Curarsi con la Musica, Baldini e Castoldi, Milano, 1999.

[54] A. Patel, Music, Biological evolution, and the brain, op.cit.p.50

[55] A. Patel, Music, Biological evolution, and the brain, op.cit. p.50 e seguenti

[56] A. Patel, Music, biological evolution, and the brain, op. cit. p. 53, (nostra traduzione).

 

[57] A.Patel, Music, biological evolution, and the brain, op.cit, p. 53

[58] S. Moreno, Can music influence language and cognition? Contemporary Music Review, Taylor & Francis on line 2009, Vol.28, pp. 329-345.

[59] S. Moreno, Can music influence language and cognition? Contemporary Music Review, op. cit, p.329, (nostra traduzione).

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Agamben: Il giuramento come sacramento del linguaggio (recensione)

Pasquale Amato

Intendiamo qui proporre quelli che a nostro avviso sono gli elementi più stimolanti del pensiero esposto in “Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio, Editori Laterza, Bari 2009”, attraverso una sintetica lettura di quella che lo stesso autore definisce una “ricerca archeologica sul giuramento”.

A partire dal confronto con Paolo Prodi, autore nel 1992 de Il sacramento del potere, Agamben ci conduce, per un’archeologia del giuramento, ad invertire l’ipotesi di un rimando, rivelatosi scontato per la maggior parte degli studiosi che hanno indagato sull’argomento, alla sfera magico-religiosa, all’affidarsi a forze divine che puniscano lo spergiuro. Un circolo vizioso, dunque, che fa leggere il giuramento come strumento per impedire lo spergiuro. L’attenta lettura delle fonti greche e romane ci ha consentito di distinguere il mondo classico, in cui l’horkos è l’unica potenza a cui persino gli dèi sono subordinati, e la cultura monoteistica (in particolare cristiana) che identifica Dio, “parola vera ed efficace in principio”, con il giuramento. Ma, dice Agamben, la tesi va rovesciata: è il giuramento, in quanto originale esperienza performativa della parola, che spiega la Religione (e il Diritto).

Abbiamo visto come il giuramento si collochi nell’ambito della fides, istituto la cui funzione è “l’affermazione performativa delle verità e della attendibilità della parola”, tant’è vero che nel mondo classico gli horkia sono pista, cioè affidabili, in virtù della testimonianza degli dèi.

Quel che però più ci riguarda è il cristianesimo, religione e divinizzazione del logos, in cui la fede, esperienza performativa di una “veridizione”, è fede nella parola ereditata dal giuramento. La Chiesa, dice Agamben, tenta contraddittoriamente di conciliare tale fede con asserzioni dogmatiche, per iscrivere tecnicisticamente il giuramento e la maledizione in forme giuridiche specifiche, lasciando alla filosofia, non costretta a codificare la veridizione in un sistema di verità, il ruolo di vera religio che fonda qualunque evento del linguaggio nella veridizione.

Abbiamo quindi constatato la prossimità tra giuramento e sacratio (o devotio), leggendo nella sacertas, sì il “sacramento del potere”, ma anche il “sacramento del linguaggio”, visto che attraverso la parola il giuramento consacra il vivente alla parola stessa. E Agamben ci mostra che la sacratio originaria, mutando in politiké ara, in maledizione, giustifica il legame esistente tra diritto e maledizione, ammonendo che, solo spezzando tale nesso originale, la politica renderà possibile un uso nuovo, altro, di parola e diritto.

Agamben, alla luce dell’accurata riflessione sulle fonti, colloca in conclusione il giuramento in uno stretto rapporto con l’antropogenesi. Il forte riferimento all’analoga tesi di Lévi-Strauss è determinato dalla volontà di integrarne il paradigma che, a parere di Agamben, risulta estremamente riduttivo, in quanto esclusivamente cognitivo. A partire dalla considerazione che “l’universo ha cominciato a significare molto prima che si cominciasse a sapere cosa significava”, Lévi-Strauss afferma che l’uomo diventato “parlante” coglie, nell’improvvisa significatività del mondo, un sovrappiù non contenibile dalla propria facoltà di linguaggio. Dal tentativo di superare tale “inadequazione fondamentale tra significante e significato”, deriverebbero quei fenomeni linguistici che possono tipicamente essere rappresentati dal mana (termine che, in analogia al nostro “coso”, o anche a manitou, designa non oggetti, sacri o meno, ma “un vuoto di senso o un valore indeterminato di significazione”), definito da Lévi-Strauss “malattia del linguaggio, ombra opaca che il linguaggio getta sul pensiero”, difetto che impedisce, dunque, “la saldatura tra significato e conoscenza”. Ma il nostro Autore si chiede se non sia ragionevole supporre che, oltre a quelle gnoseologiche, questa difficoltà originaria dell’“uomo parlante” presentasse anche, e probabilmente innanzi tutto, implicazioni etiche.

Ed è la risposta a questo interrogativo che, particolarmente, ha colpito il nostro interesse, la considerazione, cioè, che l’uomo, nello scoprirsi dotato di una facoltà di cui, a differenza dell’animale, ha fatto la “sua potenza specifica”, affida al giuramento una funzione molto rilevante. La capacità di linguaggio mette problematicamente in connessione il parlare e l’agire, non solo perché implica i limiti della eventuale conoscenza di significatività del mondo, ma soprattutto perché espone il parlante alla possibilità della menzogna, oltre che a quella della verità. Quindi l’uomo, il “vivente che ha linguaggio”, che nel logos, impegnandosi a rispondere del proprio dire, mette in gioco la sua natura e la sua vita, risolve nel giuramento l’esigenza “di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni”.

L’uomo d’oggi, osserva Agamben nelle conclusioni, vive ancora “nel solco di questa decisione” originaria, in qualche modo dovendosi confrontare con la “prima promessa, la prima – e per così dire, trascendentale – sacratio” che gli impone di mettersi in gioco nel logos. Ma noi apparteniamo a generazioni che tendono ad eludere il vincolo con il giuramento, che vedono indebolita questa relazione etica con la lingua, “forma in cavo” che è il posto in cui l’unico vivente dotato della facoltà di linguaggio “per parlare deve dire ‘io’, deve, cioè, ‘prendere la parola’, assumerla e farla propria”.

Con parole dure, Agamben stigmatizza l’attuale separazione tra il vivente ridotto “a una realtà puramente biologica” e il parlante che difficilmente, ormai, può rispondere di una “parola sempre più vana”, sulla base della quale la politica si configura come un’esperienza “sempre più precaria”.

Definisce, quindi, la nostra epoca come “età dell’eclissi del giuramento”, ma anche “età della bestemmia”, perché Dio, smarrito il “nesso vivente con la lingua”, può essere nominato soltanto invano.

Prima di proporre una rapida lettura di alcuni dei passaggi attraverso cui l’Autore giunge alle sue tesi conclusive, ci piace qui, come auspicio, riportare integralmente il passo finale del libro: “In un momento in cui tutte le lingue europee sembrano condannate a giurare in vano e in cui la politica non può che assumere la forma di una oikonomia, cioè di un governo della vuota parola sulla nuda vita, è ancora dalla filosofia che può venire, nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha linguaggio, l’indicazione di una linea di resistenza e di svolta”.

Ripercorriamo ora il progressivo sviluppo delle tesi di Agamben, attraverso quelli che crediamo essere i nodi principali.

Il lavoro con il quale l’Autore si confronta, che trasversalmente fa da riferimento critico fino alla fine, è il citato saggio storico di Prodi, che già focalizzava la crisi dell’uomo occidentale alle prese con la fragilità del patto politico conseguente al declino del giuramento come “sacramento del potere”. Sappiamo come Agamben corregga e completi tale teoria, spostandone l’asse sul linguaggio, ma ci interessa qui fare cenno alla discussione, avviata a partire dal libro di Prodi, con la quale l’Autore critica il diffuso luogo comune che, in assenza di documenti storici che chiariscano le origini di istituti come il giuramento, attribuisce quelle origini a stadi culturali privi di attestazione storica, dedotti da analisi comparative di tipo linguistico-grammaticale, in cui l’ipotesi di una indistinta dimensione archeo-religiosa porta gli studiosi (Benveniste è uno di questi) ad interpretare l’horkos come la “sostanza sacra” con cui entra in contatto chi giura. Interessanti spunti di riflessione, nel contesto, provengono dalla questione della “ultra-storia”.

La lettura delle Legum allegoriae di Filone supporta l’affermazione che il logos di Dio è il linguaggio che sempre trova realizzazione nei fatti (“Dio parlando nello stesso istante fa”), fino a poter dire che i suoi “logoi sono horkoi”, che cioè le “parole di Dio sono giuramenti”. Il giuramento degli uomini, dunque, è “il tentativo di adeguare il linguaggio umano a questo modello divino, rendendolo, per quanto possibile, pistos, credibile”.

I Romani chiamavano fides quella che per i Greci era pistis, cioè la “fedeltà personale”, “il credito che abbiamo”. I due termini, però, per i Greci e per i Romani, erano riferiti anche all’istituto invocabile, in una guerra, dalla città più debole per impegnare il vincitore alla benevolenza. Il legame era sanzionato dallo scambio reciproco di solenni giuramenti e Agamben può dunque definire la fides come un atto verbale il cui effetto è la reciproca fiducia, ma che in ogni caso ha come oggetto, come il “giuramento, la conformità fra le parole e le azioni delle parti”.

Dall’esame della sacratio (e della devotio) – istituto attraverso il quale, dicono le fonti antiche, a seguito del giuramento un accusato veniva reso sacer, consacrato ad una “divinità vendicatrice” che lo punisse se avesse trasgredito alla parola data –, cogliamo l’importanza della maledizione dello spergiuro che chiudeva la formula di tutti i giuramenti. La maggior parte degli studiosi, avverte Agamben, arrivano così a considerare il giuramento come una ”maledizione condizionale”, attribuendo alle divinità il doppio ruolo di testimoni e di punitori. Con l’aiuto di altri autori (Ziebarth, per esempio, o Fowler), l’analisi di Agamben ci conduce al legame tra politica e maledizione di cui abbiamo parlato all’inizio. L’Autore evidenzia qui l’intimo rapporto che maledizione e spergiuro hanno con la bestemmia, e segue l’analisi di Benveniste che, in riferimento all’interdizione della pronuncia del nome di Dio, mostra come la bestemmia tenti, contro la volontà della tradizione religiosa di escludere ciò che è altro dal sacro divino, di ripristinare la totalità profanando il nome di Dio, perché “tutto ciò che di Dio possediamo è il suo nome”. Agamben dice: “Il nome di Dio, isolato e pronunciato ‘in vano’, corrisponde simmetricamente allo spergiuro, che separa le parole dalle cose; giuramento e bestemmia, come bene-dizione e male-dizione, sono cooriginariamente impliciti nello stesso evento di linguaggio”. E più avanti, sulla base della considerazione che la bestemmia, come “divorzio dal significato”, svuota di senso “il nome di Dio – cioè il potere significante del logos”, riducendolo “a un abracadabra”, a nome incomprensibile, pronunciato a vuoto, Agamben opera il rovesciamento della tesi che vuole il giuramento derivato dalla sfera magico-religiosa: la magia nasce dal giuramento, “il nome di Dio, separato dal giuramento e dalla sua connessione alle cose, trapassa in mormorio satanico”.

Il riferimento al filologo Usener e ai Sondergötter (“dèi speciali”) rafforza la convinzione che il nome del dio presente nel giuramento rappresenta, anzi è, “evento del linguaggio” che lega in modo indissolubile parole e cose. “Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento” che impegna il parlante nel logos – e il logos stesso – a rispondere della propria parola che, se viene meno, pone in essere la male-dizione.

È esplicita, poi, l’osservazione che gli speech acts rappresentano, come il giuramento dimostra in quanto enunciato performativo, un residuo nella lingua di quello “stadio […] in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che […] l’atto verbale invera l’essere”. A partire da ciò, il soggetto che giura si lega ad una “veridizione” (termine che l’Autore mutua da Foucault), mette cioè in gioco se stesso “legandosi performativamente alla verità della propria affermazione”.

A conclusione di questa sintesi (certo non esaustiva), riproponiamo la convinzione di Agamben sull’appartenenza del giuramento ad un ambito intermedio tra religione e diritto, ambito che richiama il contrasto tra fede e ragione dei nostri tempi, le cui radici risiedono nei “due caratteri cooriginari del logos che sono la veridizione (da cui provengono il diritto e la religione positiva) e l’asserzione (da cui derivano la logica e la scienza)”.


Nota:  tutte le citazioni sono tratte da Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio, Editori Laterza, Bari 2009.

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