Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 4

a partire da una ateologia
Pasquale Amato

  1. Il volontario e l’involontario (II)

2.2. Decidere, agire, consentire (I)

E finalmente, poste le premesse, l’analisi si sviluppa attraversando i tre momenti in cui volontario e involontario si articolano: il decidere – il cui oggetto specifico è il progetto – che conduce all’esame delle sue motivazioni; l’agire – a cui si riferisce la mozione volontaria – che rivela i poteri; il consentire alla necessità vissuta.

2.2.1. La decisione

Punto di partenza dell’eidetica è l’enunciato “Io mi decido perché…”, l’affermazione, cioè, della scelta motivata da cui scaturisce il progetto, un pensare che si proietta nell’azione futura e, con una sorta di atto di fiducia nella possibilità a scapito della realtà, la rende possibile.

È interessante rilevare, nello sviluppo di questa prima parte, la tensione a condurre l’analisi – attraverso incroci di riferimenti fra triade potere-volere-dovere, problema dei valori e altre implicazioni del decidere – verso l’affermazione stringente di un uomo che, nel porsi al cospetto del mondo munito della propria libertà, ne perde di fatto la capacità, paradossalmente e autonomamente, nel momento stesso in cui, sottraendosi alla mediazione con la realtà necessaria, si sottrae alla propria responsabilità. A tal proposito, Ricœur osserva come il possibile si presenti in tre momenti distinti: il potere (poter fare), in forza del quale ho la possibilità di decidere; il possibile (da fare) che il mio progettare apre; «il possibile permesso dal mondo come un percorso attraverso l’impossibile»[1], quel che posso, cioè, tenuto conto della realtà (eventualità del non poter fare). Il legame evidente tra queste forme del possibile (dalla mia decisione deriverà un progetto per poter concretizzare il quale dovrò fare i conti con la realtà) è lo stesso che si riscontrerà tra decidere, agire e consentire. Tale legame, una volta di più, mostra l’intento ricœuriano di preparare l’affermazione di una libertà che, in quanto umana, non può prescindere dalla necessità.

Ora, se consideriamo che ogni mia decisione (e dunque ogni mia conseguente azione) è imputabile a me, possiamo renderci conto come, al di là del mio assumermi la responsabilità dei miei atti, non dispongo di altri mezzi per poter affermare me stesso: «l’io ha dimora nei suoi atti»[2]. La responsabilità, dunque, è il sentimento che, espresso, permette alla coscienza di manifestarsi, al sé di farsi riconoscere dicendo «questa azione sono io»[3].

Non mancano, in questa parte dell’opera, riferimenti ad autori il cui richiamo risulta ineludibile. Difficile, per esempio, dire di un atto volontario che è «a un tempo qualcosa come un comando – sul possibile, sul corpo, sul mondo – e qualcosa come un’obbedienza – a dei valori riconosciuti, accolti e ricevuti»[4], senza chiamare in causa l’obbedienza all’imperativo kantiano. Ricœur non può certo esimersi dal farne cenno, anche se, prescindendo il suo tentativo di descrizione dal considerare le restrizioni etiche a priori che possono influire sul binomio motivo-progetto, la ricerca condotta da Kant del «rapporto necessario e a priori fra la massima di un’azione ed il libero volere»[5] risulta estranea a questa descrizione.

Ancora: nel criticare l’attuale tendenza a rinnegare il rispetto di valori non istituiti dalla volontà ma da essa riconosciuti (nel senso di attribuir loro una certa oggettività), fino a confondere tale rispetto con l’alienazione, Ricœur imputa a Kierkegaard la pretesa di una soggettività che possa porsi a margine di ogni forma di oggettività, pur riconoscendogli il merito di aver dato un notevole impulso ad una presa in carico, da parte della filosofia moderna, della esistenza individuale[6]. Secondo Ricœur, il contributo kierkegaardiano, che trova il suo sviluppo in Nietzsche e nel suo processo ai valori stabiliti, ha influito in modo determinante sul pensiero moderno che dimostra «gravi confusioni sui rapporti della libertà con un qualsiasi ordine di valori»[7].

2.2.2. L’azione

L’azione, afferma Ricœur, è il criterio dell’autenticità di un volere che progetta: «il progetto anticipa l’azione e l’azione mette alla prova il progetto»[8]. Chi veramente vuole, muove il proprio corpo per cambiare qualcosa del mondo, altrimenti «non ha ancora veramente voluto»[9]: è solo agendo che la sua intenzionalità si trasforma in pragma.

Responsabile dell’orientamento del progetto verso l’azione è il potere, il quale, presente nel volere, fa sì che il progetto sia altro che «una semplice non-impossibilità»[10], e diventi una promessa di possibilità all’interno del mondo. E’, dunque, mediante il potere a cui è legato, che il volere è intenzionato verso il reale e non naufraga nell’immaginario.

Il rapporto tra volontario e involontario, in questo ambito, si delinea attraverso lo sforzo che permette alla volontà di imporsi ad un corpo che a volte è disponibile, a volte renitente. L’effetto dello sforzo è sempre di controllare il movimento del corpo resistendo alle opposizioni dell’emozione e dell’abitudine.

Quel che preme a Ricœur è affermare l’unità dell’anima e del corpo, di cui «la genesi dei nostri progetti è solo un momento»[11]. La questione è: contro una descrizione empirica che oggettivizza l’io, incarnare la soggettività nel corpo.

Il dramma del Cogito, la sua avventura vissuta come soggetto attivo e passivo, è frutto proprio di questa interdipendenza tra soggettività e corpo.

[1] ivi, p. 58.

[2] ivi, p. 61.

[3] ivi, p. 61.

[4] ivi, p. 82.

[5] ivi, p. 83.

[6] cfr. ivi, p. 177.

[7] ivi, p. 177.

[8] ivi, p. 198.

[9] ivi, p. 197.

[10] ivi, p. 199.

[11] ivi, p. 198.

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L’ombra del malessere – Saggio su Martin Buber (2^ parte di 3)

Maria De Carlo

 

Cominciare da se stessi:
ecco l’unica cosa che conta
(Buber)

L’esistenza, fin dal grembo materno, è accompagnata in ogni suo sospiro dalla luce e dalla notte. nell’oscurità l’uomo è messo a dura prova. l’immaginazione prende il sopravvento e la visione delle cose è condita dal malessere. Questo perché l’esistenza è sempre più autentica quanto più è illuminata dalla verità. il mito della caverna ci insegna che la luce ci permette di vedere le cose nella loro effettiva realtà, la luce ci conduce a una consapevolezza più piena di ciò che siamo. Ma la vita di ogni uomo è attraversata anche dalla notte, dalle tenebre: buio che confonde e procura malessere. ognuno di noi può dare un nome a quel male che procura disagio, che toglie il respiro annebbiando la vista e facendo smarrire la serenità.

Non vi è mai capitato di mettere in discussione ogni certezza raggiunta, come pure la sensazione di venire soffocati da una insoddisfazione? Ciò è simile a una presenza fastidiosa o pungente come l’ortica. la domanda “dove mi trovo?” acquista un senso se ad essa facciamo seguire una riflessione e un approfondimento del mio sé in relazione a un universo di uomini e cose che mi circondano. Cosa ho fatto? Quali le mie aspirazioni? Cosa penso di me? Come vengono vissute le mie relazioni con gli altri? So prestare l’orecchio a ciò che mi risuona nel profondo?

La pienezza dell’uomo e del suo essere va oltre il confine dell’immediato, oltre tutto ciò che lo coinvolge nelle “cose” poiché: “tutto questo e cose di questo genere insieme fondano il regno dell’esso” nelle cose che lo circondano e di cui l’uomo si circonda “i tanti lui, lei, esso” (che Buber non rigetta, anzi il mondo dell’esso, cultura, scienza, tecnica, istituzioni, etc. – è necessario per dare “continuità e durata ai frutti della relazione”) rientrano in quel dinamismo profondo dell’essere che trova radice nell’inquietudine esistenziale, nel suo esistere in quanto coppia, relazione io-tu. un equilibrio che, se infranto, sprofonda l’uomo nel baratro della frammentarietà. l’uomo così si è perso: “Dove sei?” è la domanda che Dio rivolge ad adamo “o a chiunque altro”: “Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento “davanti al volto di Dio”, l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità”.

Interrogarsi, mettere in discussione le proprie certezze è solo l’inizio di quel processo che va sotto il nome di “ricerca”. ed essa è propria dell’uomo che si interroga e si pone infinite domande. C’è una sana inquietudine che accompagna la nostra ricerca. e questo è un bene. Ma altrettanto salutare è trovare di volta in volta, di ricerca in ricerca un senso a ciò che facciamo, un senso che si rinnova, così come la nostra esistenza è in continuo cambiamento ed evoluzione. trovare un senso (o uno scopo-significato) diventa vitale per la propria sopravvivenza ed equilibrio. il vuoto interiore o esistenziale, come lo chiama Victor Frankl, blocca il flusso della vitalità e della “presenza”. il senso poi trova maggiore significazione se affonda la sua radice nell’essere mistero e nell’avere a che fare con il mistero, e se abbiamo chiara in noi la “Direzione”. Sapere dove andare equivale a dare senso a ogni nostro gesto, a ogni nostro incontro, a ogni nostra scelta. Quando ciò viene a mancare ecco allora prendere piede in noi quel malessere o male che trova nella sua piena realizzazione il buio e la notte, la perdita di direzione – il non vedere. e’ male tutto ciò che non ci fa stare bene. non sapere (o non vedere) dove andare e brancolare nella notte procura malessere: male-essere, che ben si traduce con “stare nel male” o “stare male”, ma anche “essere-male” ovvero ciò che è “male per me”.

Siamo chiamati a fare delle scelte, la vita ci pone di fronte, a partire dalla quotidianità, situazioni che ci interpellano e richiedono una scelta, e anche la non scelta (apparente) diventa scelta essa stessa. e proprio questo decidersi, la scelta di ciò che potrà avvenire, e quindi del futuro, dell’ignoto, procura e genera angoscia. Disperazione e angoscia che sono strettamente legate e sono proprie della struttura dell’io. noi tutti dobbiamo fare i conti con questa struttura. Søren Kierkegaard ci parla di disperazione dell’io, sia che voglia essere sia che non voglia essere se stesso. egli parla di malattia mortale, cioè il vivere la morte dell’io: “è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell’io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta”. Per combattere la disperazione è necessaria la possibilità, e solo a Dio tutto è possibile, afferma Kierkegaard: “per quanto disastrosa o disperata la situazione in cui un uomo viene a trovarsi, Dio può sempre trovare per lui, per questo singolo uomo, una possibilità che gli dia respiro e lo salvi. Ma Dio può far questo perché ha a sua disposizione infinite possibilità che gli diano respiro e lo salvino. Se l’uomo si trovasse nella stessa situazione, non avrebbe, ovviamente, bisogno di Dio”. ecco allora trovato, per il credente, “il contraveleno”. e se la disperazione è peccato, suo opposto è la fede che procura speranza e fiducia in Dio.

Credo che l’esperienza di Kierkegaard possa essere un incentivo a guardare dentro di noi. egli scrive: “Ciò che in fondo mi manca, è di veder chiaro in me stesso, di sapere “ciò che io devo fare” (…) e non ciò che devo conoscere, se non nella misura in cui la conoscenza ha da precedere sempre l’azione. Si tratta di comprendere il mio destino, di vedere ciò che in fondo Dio vuole che io faccia, di trovare una verità che sia una verità per me, di trovare l’idea per la quale io voglio vivere e morire”. Kierkegaard rifiuta un “sistema” e introduce il concetto di una soggettività della verità. Dunque anche per noi: “ciò che conta è di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l’idea per cui io voglia vivere e morire”. la verità è tale se tiene conto dell’esistenza concreta del soggetto, ciò che spinge a compiere determinate azioni o decisioni.

Ma cos’è il male che ci accompagna fin dalla nascita e di cui non riusciamo a liberarci? Perché esso è il compagno fastidioso che ci rende infelici anche se allo stesso tempo può trasformarsi in opportunità di riscatto? il male può diventare una risorsa quando trovandoci in un baratro tanto profondo da sfiorare il limite della non-possibilità, del non-ritorno, esso diventa, nella notte oscura (perdita del proprio senso esistenziale), l’occasione (che siamo liberi di cogliere o meno) dello sprigionarsi di quella forza vitale che spinge l’uomo alla piena consapevolezza di sé per la conquista della felicità autentica. e’, quindi, nella paura e nel buio che si può “ri-sor-gere”, è qui che avviene il riscatto per la vita nuova, l’uscita verso la luce come una seconda nascita. Solo così è possibile trovare la Direzione. e’ necessario un incontro autentico, come insegna Martin Buber, a partire da se stessi. ricordando che non ci si salva da soli.

Un punto, questo, fondamentale per la comprensione del pensiero dialogico dell’autore. Per Buber l’uomo è nella relazione (una relazione che dovrebbe essere segnata dalla autenticità e reciprocità ma che talvolta è malata in quanto l’uomo, soprattutto nella modernità, per l’altro è solo un “esso” da strumentalizzare per propri scopi), ed è nella pronuncia di quel “tu” che egli comprende il proprio “io”. Da un tu orizzontale a un tu verticale, poiché “la relazione con l’uomo è la parabola autentica della relazione con Dio”14. relazione che nell’epoca moderna si è oscurata (come scrive ne L’eclissi di Dio) per effetto dell’ipertrofia dell’io-esso cioè di quel rapporto che vede l’altro come oggetto. una prospettiva, quella proposta dal filosofo ebreo, che si discosta da una visione moderna che considera l’uomo in termini di “individuo”. al liberalismo individualistico e al collettivismo – per Buber due atteggiamenti esistenziali15 – si oppone la via della “comunità vera”, luogo di molteplicità di persone e di reciprocità. Si tratta della Comunità (Gemeinschaft) dove si costruiscono relazioni io-tu. in Ich un Du Buber afferma: “la vera comunità non nasce dal fatto che le persone nutrono sentimenti reciproci (anche se non senza questi), ma da queste due cose: che tutti siano in reciproca relazione vivente con un centro vivente, e che siano tra loro in una vivente relazione reciproca. la seconda condizione scaturisce dalla prima, ma non si dà ancora solo con quella. una vivente relazione reciproca comprende i sentimenti, ma non deriva da essi. la comunità si costruisce a partire dalla vivente relazione reciproca, ma il costruttore è l’operante centro vivente”.

Dunque il male è proprio questo non volersi dirigere verso l’incontro autentico. e allora la domanda: e’ possibile il recupero del rapporto autentico? Certo. esso si può trovare in un cammino che parte dal dialogo con se stessi – ritorno, conversione (teshuvah), un ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino – per aprirsi poi all’incontro con l’altro: “Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!” come Buber riporta in un racconto: “Quando rabbi Hajim di zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di rabbi eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “o suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “ah, suocero – gli rispose rabbi eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”, che così commenta: “Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. il racconto ci presenta uno zaddik, un uomo saggio, pio e caritatevole che, giunto alla vecchiaia, confessa di non aver ancora compiuto l’autentico ritorno (…)”. l’io è incomprensibile senza il tu. non si può parlare dell’io escludendo il tu. Buber afferma: “Quando si dice tu, si dice insieme l’io della coppia io-tu”. l’assenza di questa relazione è causa di inquietudine che l’io esso non può colmare poiché “la parola fondamentale io-esso non può mai essere detta con l’intero essere”. il tu che l’uomo pronuncia lo apre all’infinito. e nella pronuncia del tu l’uomo si affaccia alla sua vera realtà, quella relazionale: “Chi dice tu – afferma Buber – non ha alcun qualcosa, non ha nulla. Ma sta nella Beziehung (relazione)”. e’ necessario pertanto ripensarsi uomo in termini di relazione io-tu. l’io ha coscienza di sé solo mediante l’incontro con il tu. relazione dialogica. e relazione è reciprocità; l’io si dà nella realtà proprio mediante la relazione, un rapporto con l’altro che è costitutivo dell’essere. Ma questa relazione con l’altro può essere, dice Buber, autentica quando si vede nell’altro il “tu” (l’io-tu: santa parola fondamentale del dialogo) e ciò è pienezza del proprio essere; oppure relazione non autentica quando, nella sfera dell’io-esso, si vede l’altro come “esso”, cioè si vuol ridurre l’altro ad una cosa, ad uno strumento da utilizzare per propri fini, ad un oggetto su cui esercitare il proprio potere o un oggetto da voler rendere a propria immagine e somiglianza, allontanandosi così dalla Gegenseitigkeit (reciprocità). Secondo Buber, nell’epoca moderna il rapporto io-esso ha conseguito un netto predominio sulla relazione io-tu. Di conseguenza, la vita dialogica – sia della relazione con l’altro uomo che con il Tu eterno (relazioni che per Buber sono interdipendenti poiché solo chi è capace di relazione autentica con il tu può anche invocare il Tu Eterno) – è in crisi; l’uomo della tarda modernità è “senza casa”, senza relazioni e perciò solo; di fronte a questo uomo che vive un forte disagio spirituale, che non è capace di pronunciare “tu” e quindi non riesce a vivere relazioni autentiche, Dio si è eclissato. Poiché ad avere la meglio è stato il rapporto io-esso cioè un primato dell’ego che considera “altri” in termini di oggetto. “Senza l’esso l’uomo non può vivere. Ma colui che vive solo con l’esso, non è l’uomo”. Ciò che Buber condanna è il prevalere del mondo dell’esso sulla possibilità delle relazioni autentiche. e comunque l’uomo può sempre sottrarsi al mondo dell’esso, rifugiandosi in quello della relazione con la conseguenza che “solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. e nell’atto della decisione, della scelta, avviene l’opzione fondamentale della conversione-direzione che si oppone alla non-direzione cioè al male, poiché esso è il permanere nella non-scelta. l’uomo può entrare in relazione, oltre che con il suo simile, anche con gli esseri della natura e con le “essenze spirituali”. relazioni tutte che se autentiche – ovvero caratterizzate dall’immediatezza e dalla reciprocità – aprono al mistero, al “tu eterno”, al rapporto con Dio poiché “ogni singolo tu è una breccia aperta sul tu eterno”. Buber parla di quel “tu” che: “non è un lui o una lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo; e neanche un modo di essere, sperimentabile, descrivibile, fascio leggero di qualità definitive. Ma, senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempie la volta del cielo. non come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce”. il tu, la sua luce pervade tutto l’essere, è il tutto che si presenta e mi incontra per grazia non si trova nella ricerca; afferma Buber: “il tu mi incontra. Ma io entro con lui nella relazione immediata. Così la relazione è al tempo stesso essere scelti e scegliere, patire e agire”. C’è una risposta al tu che si svela, c’è una scelta che spetta all’uomo, la disponibilità ad accedere alla relazione: “l’unificazione e la fusione con l’intero essere non può mai avvenire attraverso di me, né mai senza di me. Divento io nel tu, diventando io, dico tu. ogni vita reale è incontro”.e ancora sul ritorno – che è al centro della concezione ebraica del cammino dell’uomo – Buber afferma che: “ha il potere di rinnovare l’uomo dall’interno e di trasformare il suo ambito nel mondo di Dio, al punto che l’uomo del ritorno viene innalzato sopra lo zaddik perfetto, il quale non conosce l’abisso del peccato. Ma ritorno significa qui qualcosa di molto più grande di pentimento e penitenze; significa che l’uomo che si è smarrito nel caos dell’egoismo – in cui era sempre lui stesso la meta prefissata – trova, attraverso una virata di tutto il suo essere, un cammino verso Dio, cioè il cammino verso l’adempimento del compito particolare al quale Dio ha destinato proprio lui, quest’uomo particolare. il pentimento allora è semplicemente l’impulso che fa scattare questa virata attiva; ma chi insiste a tormentarsi sul pentimento, chi fustiga il proprio spirito continuando a pensare all’insufficienza delle proprie opere di penitenza, costui toglie alla virata il meglio delle sue energie”. la virata di cui parla Buber rinvia al tema della “direzione-decisione” che l’uomo deve intraprendere per abbandonare il male. “in una predicazione pronunciata all’apertura del giorno dell’espiazione, il rabbi di gher usò parole audaci e piene di vigore per mettere in guardia contro l’autofustigazione: “Chi parla sempre di un male che ha commesso e vi pensa sempre, non cessa di pensare a quanto di volgare egli ha commesso, e in ciò che si pensa si è interamente, si è dentro con tutta l’anima in ciò che si pensa, e così egli è dentro alla cosa volgare; costui non potrà certo fare ritorno perché il suo spirito si fa rozzo, il cuore s’indurisce e facilmente l’afflizione si impadronisce di lui. Cosa vuoi? Per quanto tu rimesti il fango, fango resta. Peccatore o non peccatore, cosa ci guadagna il cielo? Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? nel tempo che passo a rivangare posso invece infilare perle per la gioia del cielo! Perciò sta scritto: ‘allontanati dal male e fa’ il bene’, volta completamente le spalle al male, non ci ripensare e fa’ il bene. Hai agito male? Contrapponi al male l’azione buona!”. il ritorno alla relazione è fonte di bene: “Solo chi conosce la relazione e sa della presenza del tu diventa capace di decidersi. Chi si decide è libero, poiché è giunto al cospetto del volto”. Si fa appello alla decisione dell’uomo di scegliere. una visione, questa, che attiene al profetismo e responsabilizza l’uomo di fronte al suo destino. il male dunque è inteso come “forza senza direzione”, ovvero “istinto cattivo” che si contrappone all’“istinto buono”. Buber afferma: “… se ci fosse il diavolo, non sarebbe colui che decide contro Dio, ma colui che eternamente non sa decidersi”. trovo interessante al riguardo il volume di Martin Buber Immagini del bene e del male (Bilder von Gut und Böse), per una possibile pista di riflessione che rinvia a una vita “pienamente” spirituale o religiosa nel senso di una relazione personale con l’altro, il Mistero, il Divino, che nel pensiero buberiano è il Dio di abramo. attraverso Martin Buber intendo approfondire la questione del male in relazione alla nostra esperienza di vita, alle nostre domande. Buber, più che una soluzione al problema del male, fornisce “una descrizione sintetica del male in atto per aiutarne la comprensione”29, per approdare poi a una possibile risposta al problema: “la battaglia deve cominciare dalla nostra anima; tutto il resto si svilupperà da lì”30. un pensiero ben esplicitato nel racconto Gog e Magog31, che vuol essere una risposta a quanto aveva detto il filosofo Berdjaev sul male: “Impossible de le résoudre, ni même de le poser de manière rationnelle, parce qu’alors il disparait”. Si tratta di una risposta che Buber elabora nel volume Immagini del bene e del male.

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Lettura Post-Hegeliana del Nulla

Massimiliano Polselli

Riprendiamo il Nulla logico di cui è questione al § 87. Esso è prima di tutto: Nulla immediato, allo stesso tempo retrospettivamente e prospettivamente. Retrospettivamente perché il Nulla che qui sorge non è in “rapporto” con l’Essere puro che è trapassato in lui – ci fermeremo tra breve su questo punto nel commentare il punto 1) della Nota. Prospettivamente in quanto la pura negatività che qui si afferma nella sua più totale astrazione non è ancora combinata con la positività dell’Essere al fine di offrire una categoria complessa in cui, sia il Nulla che l’Essere, rivestano un significato concreto. Successivamente: Nulla uguale a se stesso: quest’espressione ha all’incirca la stessa portata della precedente: designa la stessa astrazione, retrospettiva e prospettiva, del Nulla, ma lo fa più positivamente e più immediatamente poiché ne sottolinea l’aspetto di “continuità” proprio dell’immediata coincidenza con sé del nulla di pensiero[1]. Per questo motivo, tale seconda espressione introduce meglio della prima quanto segue, cioè il passaggio dal Nulla alla Positività o alla coincidenza con sé dell’Essere. In effetti, come l’Essere puro era il Nulla, inversamente, il puro Nulla, in quanto Nulla immediato, uguale a se stesso, è la stessa cosa che l’Essere. Esso è innanzitutto e formalmente – se la distinzione tra forma e materia ha un senso qui – la stessa immediatezza e la stessa uguaglianza con sé proprie dell’Essere: il Nulla è, infatti, assolutamente immediato e uguale a sé come lo è l’Essere o, piuttosto, esso è, come l’Essere, l’assolutamente immediato e l’assolutamente identico a sé. Da ciò segue che esso è, materialmente – ma materia e forma coincidono qui ancora completamente – la stessa cosa che l’Essere; il Nulla ha lo stesso contenuto o meglio, la stessa assenza di contenuto dell’Essere; è la stessa astrazione pura, lo stesso immediato, indeterminato e semplice. “Il Nulla è così la stessa determinazione o piuttosto la stessa indeterminazione e di qua, assolutamente parlando, la stessa cosa che l’Essere puro”[2]. Il Nulla è dunque la stessa cosa che l’Essere. “La stessa cosa” (dasselbe) non è una categoria esplicitamente definita della Logica e tuttavia ha il suo posto nella dottrina dell’Essenza al § 118; il suo significato si apparenta a quello di uguaglianza, del quale è precisamente detto, in quel paragrafo, che “è un’identità soltanto tra termini tali da non essere affatto gli stessi”: l’uguaglianza non ha cioè senso se non tra due termini che differiscono tra loro. Allo stesso modo, “la stessa cosa” implica dunque una non identità o, più esattamente, una diversità tra i termini che compara. Pertanto è corretto affermare che l’Essere e il Nulla sono assolutamente diversi e dunque che l’uno non è ciò che l’altro è. In effetti, l’Essere mira a una positività assoluta mentre il Nulla mira a una negatività assoluta. Ma, precisamente, non si tratta che di un semplice riferimento o intenzione (Meinung) e, similmente, la differenza tra loro non è che una semplice intenzione anch’essa in quanto, essendo entrambi, sia l’essere che il Nulla, ancora e null’altro che l’immediato assolutamente indeterminato, non è possibile assegnare loro concettualmente qualsivoglia caratteristica atta a distinguerli. Sebbene vi sia dunque una differenza tra loro, in quanto però essa non è determinabile qui e non può esserlo in questi stessi termini, questa differenza è propriamente indicibile, una semplice opinione soggettiva. Essendo l’Essere la stessa cosa che il Nulla e viceversa, – e questo nel senso preciso dell’espressione “la stessa cosa” che è stato appena definito – è possibile affermare che la verità dell’Essere, così come quella del Nulla, è l’unità dei due. Quest’espressione “la verità di…” è tipica del linguaggio hegeliano. Essa implica ogni volta che l’entità designata dal genitivo che segue non ha un’esistenza vera in se stessa ma in un’entità più grande che la contiene come uno dei suoi momenti. All’occorrenza dunque, quest’espressione significa che l’Essere e il Nulla non esistono veramente e concretamente se non nella loro unità e non quindi, nella loro separazione o nel loro essere isolati. Ne è una prova il fatto che l’Essere puro, preso in se stesso, coincide e fa tutt’uno col Nulla (§ 87) e che, dal canto suo, il Nulla, preso in se stesso, è la stessa cosa che l’Essere (§ 88). La verità dei due è pertanto la loro unità. L’unità è una categoria relativamente indeterminata della Logica. Non è tematizzata che due volte, al § 100 e al § 102, nella Logica della Quantità, ossia in quella sfera dell’Essere in cui, come vedremo, la determinazione di quest’ultimo gli è esteriore e indifferente. L’”unità” è gravata della stessa superficialità della sfera in cui appare. Essa designa al § 100 la continuità che collega le componenti discontinue del “Discreto” per il fatto che l’elemento costitutivo della molteplicità di quest’ultimo è sempre lo stesso “Uno”. Similmente, al § 102, l’”unità” designa uno dei due aspetti qualitativi del nome, quello che, a differenza dell’aspetto discreto o discontinuo del suo “ammontare” o “valore numerico”, lo costituisce seguendo il suo momento di continuità, come un certo numero, un tutto numerico o, precisamente, un’“unità” numerica. L’unità designa dunque, propriamente, un’unione abbastanza debole, alquanto esteriore, simile a quella che fa si che i dieci “uni” riuniti nel numero dieci, per esempio, forminouna decina, un insieme dotato di una certa “unità”. È in questo senso debole e relativamente indeterminato che questa categoria appare nella Logica, a meno che un aggettivo non ne venga a precisare la portata (“unità assoluta”, “unità negativa” ecc.). Per questo Hegel, nelle note, mette più volte in guardia il lettore rispetto a ciò che una tale espressione ha di unilaterale, zoppicante e indeterminato, a ciò che essa ha perciò di inesatto, se non addirittura falso[3]. Noi ci torneremo commentando il punto 4) della Nota al nostro paragrafo. Espressa in termini ancora vaghi e imprecisi, la verità dell’Essere, così come del Nulla, è quindi l’unità dei due. Espressa correttamente, secondo la sua specifica verità, questa unità è il Divenire. In questa sede, quel che importa è cogliere il Divenire nella sua indeterminazione e dunque 1) di non identificarlo col cambiamento, il quale non apparirà che successivamente, al § 92, né, ancor meno, col movimento,che è piuttosto un concetto della Filosofia della Natura e 2) di non ridurlo a una sola delle sue due specie o direzioni o, a uno solo dei suoi due momenti, il NASCERE (Entstehen, generatio), con l’esclusione dell’altro, il MORIRE (Vergehen, corruptio)[4]. Noi non ci occuperemo qui del movimento in quanto esso è una realtà della natura e non del pensiero logico. Quanto al cambiamento o all’alterazione (Veränderung), qui si tratta già di un divenire concreto i cui due termini non sono più l’Essere e il Nulla, ma piuttosto due “Qualcosa” (Etwas) di cui uno è l’altro dell’altro e viceversa[5]. Conviene, infine, non cedere alle suggestioni della rappresentazione che ci portano a identificare il Divenire col solo “nascere”. L’Essere e il Nulla sono, in effetti, lo abbiamo detto, distinti l’uno dall’altro nonostante l’unità per cui e secondo la quale essi sono la stessa cosa. Se si tiene conto di questa distinzione, bisognerà dire che, in essa, è ognuno dei due che è unità con l’altro. Il Divenire contiene dunque una doppia unità dell’Essere e del Nulla: a) quella che, partendo dal Nulla, è costituita dal passaggio dal Nulla all’Essere: è il “Nascere” e b) quella che, partendo dall’Essere, è costituita dal passaggio dell’Essere nel Nulla: è lo “scomparire”, il “venir meno”, il “perire”. Il Pensiero o l’Assoluto è contemporaneamente Divenire in queste due direzioni distinte, due direzioni che si penetrano e paralizzano reciprocamente perché il Nulla passa nell’Essere, l’Essere passa nel Nulla e questo, inversamente, nell’Essere, ecc.[6]. Lungo tutta la Logica e ovunque nelle altre sfere dell’Idea avverrà quindi, – ma questa è una delle definizioni più povere del Pensiero – che l’Assoluto, se colto nella sua immediatezza, è Divenire, puro Divenire, l’apparire e l’oscurarsi. E questo è ciò che si è già verificato nell’apparire e nell’oscurarsi delle due prime categorie della Logica: l’Essere e il Nulla[7].Per il nostro commento prenderemo in considerazione solo i punti 1) e 4) insieme all’ultima parte del punto 3). Le altre parti sono infatti sufficientemente chiare da non necessitare di essere ulteriormente riprese. Come abbiamo appena fatto, l’unità dell’Essere e del Nulla è uno dei compiti più ardui per il pensiero giacché Essere e Nulla sono l’opposizione in tutta la sua immediatezza. Essere e Nulla sono opposizione. In effetti, come si è visto, l’uno non è ciò che l’altro è, ciascuno è piuttosto l’opposto in senso stretto dell’altro, in quanto il primo mira a una positività assoluta e il secondo a una negatività assoluta. Essere e Nulla sono in tal senso l’opposizione in tutta la sua immediatezza. Di fatto, una mediazione qualunque di questa opposizione presupporrebbe che, in uno dei due o in entrambi, una determinazione che contenga la loro reciproca relazione sia posta esplicitamente. E questo tuttavia non può essere il caso in questione poiché Essere e Nulla sono, tutti e due, la pura astrazione dell’immediatezza assoluta. Essi sono dunque, per definizione, senza rapporto, senza riferimento l’uno all’altro nonostante essi siano essenzialmente la stessa cosa l’uno e l’altro. La determinazione comune che li fa trapassare l’uno nell’altro e, in questo senso, li mette in rapporto è però e a pieno titolo contenuta in essi: è la determinazione che consiste nel non averne alcuna. Ma il rapporto o la relazione o, più esattamente, il passaggio dall’uno all’altro non può essere reso manifesto o posto esplicitamente in nessuno dei due in quanto entrambi non sono altro che il puro immediato denudato di ogni rapporto. È per questo motivo che, se la deduzione della loro unità è in un senso interamente analitica e necessaria, in quanto necessita, per ottenerla, di porre esplicitamente nell’uno l’astrazione o l’immediatezza già contenuta nell’altro, questa deduzione è ugualmente e interamente sintetica poiché, in ragione dell’assenza di ogni rapporto esplicito tra i due, c’è, dall’uno all’altro, a dispetto della loro identità, una totale discontinuità. Così è in questi primi paragrafi della Logica che si verifica al massimo l’affermazione del § 84 secondo cui, nella sfera dell’Essere in generale, la determinazione ulteriore e progressiva delle categorie è un Über-gehen in Anderes[8], un passaggio discontinuo, sebbene necessario, di una categoria in un’altra. C’è, per così dire, una sostituzione del Nulla all’Essere e dell’Essere al Nulla; essi non rinviano l’uno all’altro; o, per impiegare il linguaggio della Logica dell’Essenza, essi non si “rispecchiano”, non si “riflettono” in nessuna maniera, l’uno sull’altro. Semplicemente, in ragione della loro identità, trapassano o, più esattamente, sono da sempre già trapassati l’uno nell’altro[9]. Ed è questo e nient’altro ciò che fa la loro unità nel Divenire. Qualora si cerchi, al fine di rappresentarsi l’unità di Essere e Nulla, un esempio in grado di aiutare l’immaginazione, ci si potrebbe appoggiare non soltanto sulla rappresentazione che ciascuno si fa spontaneamente del Divenire, ma anche su quella del Cominciamento. In effetti, quando una cosa comincia, essa non è ancora e, in questo senso, essa è Nulla; eppure, proprio in quanto essa comincia, essa non è puramente e semplicemente nulla ma essa è anche e già Essere. Il cominciamento è dunque, come il Divenire, unità nella distinzione, dell’Essere e del Nulla e si potrebbe quindi, a scopo pedagogico, cominciare la Logica con la rappresentazione del puro cominciamento (del pensiero), anche a costo di analizzarlo solo in seguito da un punto di vista concettuale, e questo al fine di estrarne le due categorie più originali dell’Essere e del Nulla insieme alla loro unità, accettando così quest’ultima più agevolmente. Ciò nondimeno, il Divenire resta la sola espressione davvero appropriata dell’unità originaria dell’Essere e del Nulla. La rappresentazione del Cominciamento suggerisce, in effetti, nel contempo troppo e troppo poco. Suggerisce troppo poiché essa esprime già il riferimento esplicito alla progressione ulteriore e di là sorpassa l’immediatezza che deve ancora caratterizzare il puro Divenire. Suggerisce, invece, troppo poco, giacché, sebbene permetta di apprendere con l’immaginazione il momento della nascita all’interno del Divenire, essa distoglie nondimeno l’attenzione dall’altro momento indissociabile del Divenire, il morire.Come è stato già detto nel commento al § 88, espressioni come “Essere e Nulla sono la stessa cosa” o “l’unità dell’Essere e del Nulla” sono soggette a cauzione: la prima perché non dice insieme che l’Essere e il Nulla sono diversi, la seconda perché, in ragione del carattere superficiale e indeterminato della categoria di unità, rischia anch’essa di essere unilaterale e di far risultare esclusivamente l’unità di Essere e Nulla a discapito della diversità, la quale però è presente ugualmente perché è dell’Essere e del Nulla e dunque è solo rispetto a due categorie distinte che l’unità è posta in quest’espressione. Anche Hegel conclude affermando che una determinazione speculativa del pensiero non può essere espressa correttamente nella forma di una proposizione come quella del § 88: “la verità dell’Essere, così come quella del Nulla è l’unità dei due”[10], giacché ciò che deve essere colto è sì l’unità, ma l’unità nella diversità e questo fatto implica che quest’ultima sia nello stesso tempo esistente e posta. Ora, non è questo il caso allorché si usa un’espressione come “l’unità dei due” dove la distinzione non è presente che sussidiariamente nel genitivo “dei due”. Solo il Divenire è la corretta espressione dell’unità che risulta dalla dialettica tra Essere e Nulla. Il Divenire, in effetti, evoca un movimento incessante, una pura mobilità dei suoi momenti. Non c’è nulla in esso che sia stabile, fisso o statico. Questo avviene in quanto il Divenire non è solo l’unità dell’Essere e del Nulla, con ciò che questo termine “unità” implica volentieri di fisso e di non processuale: esso è piuttosto l’irrequietezza in sé, la pura inquietudine, l’assoluto non riposo; l’unificazione in atto più che l’unità perfetta. Esso è unità certo, ma l’unità che non è tale solo in quanto relazione-a-sé priva di movimento – come se il Divenire fosse una cosa che riposa nella calma di se stesso: esso è piuttosto qualcosa che si rinnega costantemente esso stesso, che si rivolta polemicamente contro se stesso in ragione della distinzione, presente nel Divenire, tra l’Essere e il Nulla. Per contro, la categoria che segue, ovvero quella dell’Essere Determinato sarà la stessa unità dell’Essere e il Nulla, ma stavolta precisamente nella forma unilaterale dell’unità fissa e statica. L’Essere determinato è perciò unilaterale e finito. L’opposizione è come se fosse sparita essendo contenuta nell’unità solo implicitamente, senza cioè essere posta in essa.

[1] Il senso preciso della categoria di “uguaglianza” sarà tematizzato nella logica dell’Essenza ai §§ 117-118.

[2] Cfr. L. I, 67b.

[3] Cfr. § 88, Nota; 4, 95, Nota, 215, Nota, 573, Nota; L. I, 77a.

[4] Cfr. § 89, Nota.

[5] Cfr. L. I, 103c.

[6] Cfr. L. I, 92b-93b.

[7] Quest’esempio non è adeguato nella misura in cui vi si fa astrazione dal carattere determinato delle due categorie che sono sorte e scomparse. Conviene dunque trattenerne, per adesso, soltanto il pensiero di un apparire e di un oscurarsi puri.

[8] Tra-passare in altro.

[9] L’Essere e il Nulla sono dunque ben distinti nel Divenire, ma di una distinzione che si dissolve immediatamente. – A proposito di questo passaggio dell’Essere nel Nulla e viceversa, Hegel nota che Übergehen(trapassare) è sensibilmente sinonimo di Werden (divenire) nella sfumatura per cui, nel primo, i due termini che passano l’uno nell’altro sono prevalentemente considerati come riposanti tranquillamente l’uno fuori dell’altro, al punto tale che ci si rappresenta il passaggio alla stregua di un movimento che si produce tra loro e non in loro.

[10] Si veda anche L. I, 75b, 76.

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Fenomenologia dello spirito e dintorni

Franca Sera

Aldilà della vexata questio, sulla collocazione della Fenomenologia nell’ambito del Sistema della Scienza, il problema è come iniziare: se si parte da una coscienza naturale, ciò significherebbe far coincidere tale cominciamento con il medesimo inizio della Logica, ossia che non vi siano due cominciamenti, ma un unico inizio, solo che il primo (quello Fenomenologico) risulta su di un piano fisico-fenomenico o logico-pratico, l’altro è solo sul piano noetico-astratto o apofantico-speculativo. Ma i due piani risultano uniti nell’orizzonte dell’Idea Assoluta. Se si dividessero le due dimensioni, si farebbe di nuovo opera di carità sull’altare dell’Intelletto, riproponendo cioè il primato di una facoltà sull’altra e quindi ristabilendo un presunto primato di un mondo o di una dimensione rispetto all’altra. Aldilà dei momenti della Logicità espressi, per la prima ed unica volta in formato “tabellesco” (ndr schematizzazione che Hegel disdegna) nel par.79 dell’Enciclopedia, in quanto momenti della logicità dialettica, come specificazioni di quella generalità dinamico-funzionale della stessa Dialettica, che si suddivide nei momenti: 1) astratto-intellettuale 2) dialettico-negativo razionale 3) speculativo-positivo razionale. Ma il processo che incardina la condizione di tutto l’andamento dialettico, in tutte le dimensioni del conoscere dell’Essere e dell’agire, cioè Logica, Natura, Spirito soggettivo-oggettivo, è permeato sottotraccia ed in filigrana dalla procedura della rimozione-spostamento-proiezione. Ossia Entfremdung-Entoisserung e Verdinglichung, cioè estraneazione e reificazione che retro-agiscono in tutto il processo. Tale surrettizia “presenza-assenza” la si deve al primo momento, cioè a quello astratto-intellettuale e al secondo momento, intellettuale-negativo, in quanto sintetico intellettuale. Così se si legge come cartina di tornasole il gigantesco pensiero di Hegel, riferendosi a tutte le province dell’Essere e del Pensare, emerge questo risultato alienante ed estraniante dell’Intelletto di cui esso è il responsabile. Ad esempio se si compulsasse con tale convincimento la Fenomenologia (Coscienza naturale-Autocoscienza-Ragione-Spirito), si vedrebbe l’andamento entificatore e falsamente universalizzante di un particolare lato a scapito di un altro lato o elemento, ottenendo il risultato ogni volta di un’autocoscienza falsamente universale. Se si riparte invece dalla Logica, laddove la Fenomenologia termina, qui il pensiero puro deve agire ad un livello categoriale-speculativo, in quanto sistema della Scienza. Poiché sul piano fenomenologico, la dimensione più propriamente idealistica, non viene “toccata” da Hegel, siccome egli non ha intenzione di sviluppare una storia della storiografia ideale-filosofica, e quindi un’analisi logica-ontologica, che si occuperà invece un piano di filosofia della storia. Ovvero nella Fenomenologia il processo è coscenziale-esperienzale in figure che non si perdono in un andamento noetico. Esemplificando: la figura, ad esempio della coscienza infelice, essa non si attarda su pensieri ed argomentazioni logico-speculative, poiché il suo travaglio non deriva dal fatto che essa si senta libera o meno nel pensiero logico-ontologico, ma il suo dolore deriva dal fatto che questa si intuisca come scissa in una doppia condizione che la porterà ad amare da un lato l’intrasmutabile (Dio) e dall’altro a capire che il suo essere trasmutabile non glielo consentirà. Così questo dramma, la coscienza infelice, non lo vive come un travaglio di un filosofo ma di un fedele appunto, nella propria immediata rappresentazione della realtà che vive, spirituale e corporea. Non è quindi una coscienza che ripensa il pensiero e le sue strutture logiche-ontologiche. Così come il Cristo non utilizza il linguaggio filosofico, Egli non legge Parmenide, ma piuttosto parla con il linguaggio del cuore. La Fenomenologia non guarda alla libertà dell’Idea, quanto a quella del soggetto. Il Concetto dovrà liberarsi da tutto ciò che pensa essere altro da sé, solo nella rivisitazione della riscrittura e rilettura della storiografia filosofica (e quindi anche del reale), sotto l’idea che tutti i corrispettivi principi teologici, costrittivi, metafisici in genere, sia prodotti dalle filosofie sistematico-sostianzialiste, sia dalle filosofie dell’autocoscienza, non appaiano altro dal pensiero, ma sono il pensiero o concetto stesso. Questo è possibile solo se prima non c’è un farsi mondo del soggetto capace di essere individuale ed universale, quindi dopo lo stadio fenomenologico e universale storico con la ragione e lo spirito, si arriva alla dimensione in cui l’idea si appropria di se stessa. Ecco così la storia dell’Idea: dottrina dell’Essere, dell’Essenza, del Concetto. Ossia tutti i principi di tutti i filosofi che avevano affermato che il principio di Tutto è l’Essere (nelle sue molteplici forme) nelle forme della Logica dell’Essere. Finché altri avrebbero detto che la forma della Verità era Pensiero, e quindi Essenza, tutti quei principi espressi in termini noetici o logologici o essenzialistico-ontologici, avrebbero assunto una dimensione spirituale del principio e non più ontica-esistentiva come nella logica dell’Essere. Laddove l’Essere letteralmente “non parla” poiché è di derivazione mitico-poietico-ilemorfico e non personale, in quanto spirituale. Ad esempio l’essere di Parmenide è impersonale, e non essenzialista-spirituale. Mentre nella Logica dell’essenza tutti i principi saranno sostanzialmente “vitali”, ovvero volontà, logos, spirito e natura vivificata, ribadendo così che nell’Essere parmenideo non vi è la dimensione spirituale, ma solo logico-ontologico-modale. I due lati saranno poi sintetizzati e realizzati, oggettivo e soggettivo, nella Dottrina del Concetto. Parmenide affermerà ad esempio che l’Essere è sostanzialmente necessario, poiché non è pensato in tal guisa dall’essere umano, ma è necessario in sé. La necessità è, per Aristotele, tale in quanto giudizio modale dell’uomo. E quindi l’essere è anche pensare. Pensare-Essere e Divenire sono dunque compulsati dall’uomo, ma questo non lo si poteva affermare immediatamente. Gli antichi filosofi avrebbero così spostato e proiettato Essere-Pensare ed Agire di volta in volta in principi costrittivi e teologici, extra-mondani. E di volta in volta, avrebbero prediletto la forma o funzione “Essere”, piuttosto che Pensiero o Azione (Volontà), in riferimento ad un Principio o ad un Dio. Oppure si preferirà l’Azione (Volontà) piuttosto che l’Essere ed il Pensiero. O entrambi racchiusi in un unico principio. O un principio che casualmente avrebbe espulso entrambi, scorgendo il Nulla o il Caso come processo me-ontologico del Tutto. E inoltre chiarificando tali principi in rapporto con l’uomo, che di volta in volta sarà mostrato come nulla di consistente, irrilevante, sottomesso, compartecipe o addirittura esso stesso divino e produttore di Dio, o del Nulla[1]. È chiaro che solo con la nascita della soggettività e quindi con le filosofie autocoscenziali o filosofie-mondo, ci si avvicinerà man mano a scorgere che tali principi a-prioristici e costrittivi sono della stessa essenza umana, ma questo accadrà solo con il cammino dello Spirito, che già era assoluto, ma non ancora tale[2]. Quando la negazione esce dallo schema psico-pratico-dinamico, la negazione diventa: negazione assoluta. In un senso per il quale essa è inquadrata solo ed esclusivamente in un contesto di riferimento, solo logico-predicativo-apofantico. Con la diretta conseguenza di una negazione pura ed assolutizzata. Mutando di senso e di qualità, affermando il “nulla”. Tale categoria inaugura, dopo l’esserci determinato, la Logica dell’Essere. Tale qualità è la stessa quiddità o essenzialità di ciò che è, ed è la Negazione in Hegel. Non a caso Hegel stesso escogita, per chiarire il nesso tra Qualità e Determinatezza, la figura filologico-retorica, per la quale la Qualità è l’indice del Determinato, e questo in quanto Qualität, orienta mediante la radice tedesca “Qual” il “tormento” o “irrequietudine”, e quindi trascendersi continuamente in quanto automovimento e negazione con sé. La Qualità è la negazione in sé, di tutto ciò che è: Omnis determinatio est negatio. Orbene, la negazione, nel momento in cui è riferita ad una coscienza appena sorgivamente apparsa come coscienza naturale, non può non essere funzione, naturaliter, negazioone assoluta. Dal punto di vista ontico-naturale, la condizione genetica della stessa struttura logica dello Spirito di Hegel, è quella per la quale un individuo organico tende solo e semplicemente a sostentare se stesso, per far vivere il proprio corpo, escludendo e negando l’altro, ad esempio per fagocitarlo per alimentarsi e poter vivere. Quindi la struttura del negativo è logica-ontologica ed esistentiva-psico-corporea. In una formulazione logico-predicativa, la negazione è il negare assolutamente inequivocabile qualcosa di un’altra cosa. Come per il predicato legato ad un soggetto, ad esempio: la mela non è rossa, indica perentoriamente che quel frutto non è rosso. La negazione logico-formale, non ammette la possibilità che sotto la stessa frazione di tempo e sotto lo stesso riguardo, si possa affermare che potenzialmente ora la mela non è rossa… ma poi diventerà gialla. Quindi, la negazione detiene insita in sé questa processualità di azione ineluttabile a negare. E quando la esercita in modo perentorio è sempre in atto la sua azione e significato logico-ontico a negare. Nega, diciamo così, una volta per sempre, ciò che dichiara di negare. Questa è la natura logico-predicativa ed ontico-fenomenologica (ontologica) della negazione. Quindi a stretto senso, quando si raccolgono le critiche di coloro che affermano che in Hegel (ed in special modo nella Logica) la negazione è assolutistica ed è una sorta di forzatura astratto-speculativa della predicazione metafisica hegeliana, si parte dal presupposto che nella sfera logico-predicativa non v’è altresì la dimensione fenomenico-esistentiva, in realtà non scorgendo che la negazione assoluta, che tra le altre cose non può non prescindere dalla negazione determinata, non può non prescindere da un concetto assoluto di negazione o nulla, o nullità, che ha con sé l’atto del negare, tant’è che nell’espressione –La mela non è rossa- non si afferma l’inesistenza della mela, ma solo che non-è rossa. Tuttavia tale negazione predicativa della mela include comunque un’attività del negare che gli pertiene assolutamente, anche se limitatamente, all’esclusione del colore rosso.

 

[1] Se le cose stanno così, perché per 2500 anni il pensiero dell’uomo ha prodotto principi e sostanze che apparivano estranei allo stesso uomo? La risposta di Hegel è ovvia: essi non erano in grado di “saperlo”. Parmenide non sapeva che pensando l’essere, in realtà pensava l’uomo. Un altro esempio è quello del Motore Immobile aristotelico: l’uomo partecipe della Sostanza Prima, ed essa è per Aristotele: Essere in quanto essere, che pensa se stesso e Motore che muove senza esser mosso. Di nuovo tre categorie dell’autocoscienza o Spirito assoluto: Pensare-Essere-Agire. Per Aristotele: Essere-Pensare ed Agire sono creazioni di Dio, anche se poi l’uomo ne partecipa. E gli esempi potrebbero continuare ad infinitum.

[2] Un altro esempio, questa volta nell’ambito delle Filosofie dell’Autocoscienza, è dato dall’epicureismo, che tanto aveva colpito il giovane Marx in un senso libertario, con l’elemento sorgivo della soggettività a scapito dell’unitotalità sostanziale della filosofia della natura democritea. L’atomo devia, ed in tale deviazione indica la strada della liberazione, con l’insorgenza dell’Autocoscienza, rispetto al determinismo autocratico e fatalista di Democrito. In questo trasgredendo l’interpretazione dello stesso Hegel, che reputava Democrito “superiore” per la causa soggettivista rispetto ad Epicuro. L’atomo democriteo apre all’idea astratta di un principio, non più ilemorfico, del mondo Greco, essendo l’atomo concetto astratto seppure materializzato, tuttavia eterno, e fatto di materia invisibile ed insecabile. In questo modo, per Hegel, l’atomo è negazione dell’Altro che costituisce dialetticamente fuori di sé, poiché negazione assoluta. Laddove, contrariamente ad Hegel, Marx ravvede un materialismo invece deterministico e non un idealismo astratto ed assoluto come per Hegel, invece appariva essere il concetto di atomo democriteo. Ma tale materialismo o idealismo atomistico, in realtà, essendo produttore del mondo, non consente di rapportare tale principio nell’uomo stesso. L’uomo non ha certo creato l’Atomo, poiché semmai è da esso scaturito. Dato che l’atomo è eterno, indistruttibile e da sempre esistito, il mondo ne è scaturigine. Pur avendo proprietà quantitative (e non invece qualitative, poiché l’atomo a stretto rigore è invisibile anche se esistente) nel senso di peso, grandezza, forma, posizione e disposizione. Allo steso tempo non è propriamente un principio astratto, poiché altrimenti sarebbe un numero, essendo invece materiale anche se immateriale. Ha un corpo materiale, ma non divisibile. Quindi da un punto di vista dello Spirito, il principio Atomo è ancora una volta fuori dall’Autocoscienza, essa partecipa solamente dell’essenza Atomo. Anche se il soggetto epicureo non riconosce alcuna divinità, in quanto le stesse divinità sono frutto e creazioni dell’uomo, tuttavia è aldiquà del principio atomo. I concetti di aponia e di atarassia, in più non permettono un’azione o manipolazione del reale da parte dell’autocoscienza, che si chiude in una sorta di stato catatonico-contemplativo. Gli infiniti mondi e gli infiniti atomi in Epicuro sono indici di un’incontrollabilità del mondo reale da parte del soggetto. Di nuovo, per misurare il grado della Libertà dello Spirito, anche detto “produzione di senso” dello Spirito che è Libertà in Hegel, l’epoca ellenica vedrà nell’Atomo alienati due grandi momenti dell’autocoscienza assoluta su tre: Essere e Agire, poiché l’atomo è assolutamente, ed è automovimento in sé. Il pensare invece inizia ad essere “autonomo”, se si considera appunto il livello di autocoscienza della soggettività in genere epicurea, almeno secondo Marx. L’Atomo spiega l’Essere e l’Agire: il Pensiero non è spiegato dall’Atomo, ma è facoltà autonoma dell’Autocoscenza. Tuttavia lo stesso Pensare consta degli effluvi atomici che inviano immagini e la stessa Intelligenza è composta da atomi ignei e aerei. Quindi anche il pensiero dipende, se non ontologicamente, dall’Atomo metafisico. Ciò nonostante si raggiunge comunque una dimensione del pensare dove l’individuo è formalmente “autonomo”, rigettando principi costrittivi, esteriori, teofanici, teistici e trascendenti di ogni sorta. Resta il fatto che, anche in questo caso, il Principio Atomo, Fondamento del mondo, non è prodotto dall’uomo.

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La categoria del “qualcosa” in Hegel

Pasquale Amato

Hegel fa intervenire la Categoria del Qualcosa prima che questa stessa sia sorta. Se si pensa alla prefazione della prima edizione della Logica dell’Essere (1812), Hegel è cosciente che all’inizio dell’alba del pensare (che egli stesso riferisce al Cominciamento della Scienza), si è impossibilitati di poter concepire un cominciamento assolutamente puro, e che quindi si debba ricorrere ad una sorta di “sistematico errore iniziale”; ma non nella giustificazione che poi il Sistema possa adempiere alle esigenze personali volute dallo stesso Hegel arbitrariamente, ma l’Errore in quanto condizione mediante e presso il quale lo Spirito addiviene (si ricordi la polemica sul piano storicistico a chi riferiva un esito finale sempre lieto e panlogistico da “fine della storia”, Hegel rispondeva che la Storia è come il banco di un macellaio, in tal senso intendeva affermare che anche nella storia dello Spirito l’Errore, il Travaglio, l’Orrore, è sistematico all’Assoluto). L’Assoluto come Scienza, per essere veramente tale, deve includere anche il non, il peccato, il male etc. Senza l’Errore (inteso come mancanza, male, travaglio e dubbio) l’Assoluto da Universale sarebbe Parziale. La Totalità che esprime all’inizio del cominciamento la categoria del Nulla, è una Totalità pura ed astratta, che include per una sorta di negazione interna alla negazione assoluta stessa, ossia “mediazione” (come l’essere puro per sé è sapere assoluto indistinto, ma mediato in sé dopo il cammino fenomenologico), la possibilità che quella nullità annulli se stessa (come immediata/mediata assoluta) e diventi Essere. Il nulla ha dentro di sé la potenza ad essere desein o etwas, poiché è assoluta immediatezza nella sua indeterminatezza piena e che qui consiste l’assoluto immediato, che non è più tale, poiché tutto uno col sapere assoluto del risultato della Fenomenologia. D’altronde la nullità non è il puro nulla, ma è già nullità, cioè nullità di qualcosa che esso già è per sé. La sostanza della negazione è la negazione stessa, ma essa in quanto negazione assoluta, non può non anche far tracimare dentro se stessa anche se medesima e quindi togliersi come Nulla. E se il Nulla è la stessa sostanza dell’essere, è chiaro che emerge dal nulla l’essere, poiché rivestito della fisicità dell’Essere. Questa è la stessa Sostanza del Nulla. Ma perché il Nulla non è rimasto Nulla? Se esso fosse rimasto Nulla non sarebbe negazione assoluta. Ossia il Nulla, per essere negazione assoluta, universale ed incondizionata deve includere anche il Determinato. Altrimenti è una pura Negazione, ma senza espansione o estensione universalizzante, mediante l’Essere o anche il Particolare. Il Nulla per riguardo come Nulla Assoluto, non è un Nulla solo Logico-predicativo, ma è un Nulla che rimane anche in una sorta di piano psico-dinamico e pratico-fenomenologico. Poiché il Nulla metafisico-astratto è il Nulla dell’ontico. È il Nulla della naturalità. Si è visto nell’esempio della Coscienza naturale. Il Nulla predicativo è un Nulla Assoluto, poiché nella pur singola e determinata negazione – es. “la rosa non è rossa” – è chiaro che si va a negare il predicato di un soggetto, ma ciò non implica solo la negazione determinata del colore in riferimento al soggetto (negazione determinata), ma è una negazione a sua volta assoluta poiché l’esclusione del rosso della rosa è un’esclusione sine die, incondizionata, infinita. Con ciò la negazione nella sua attività negante, include la stessa attività perenne della Negazione. Ma se l’attività della Negazione è perenne, e quindi in seno ad un principio logico (e non alogico, aporetico), significa che quella negazione perenne, come in una sorta di punto temporale-spaziale e logico di quella negazione, ebbene vale metaforicamente, ma universalmente come grado infinito del negare. E se guardiamo al concetto di grado o misura della gradualità di un colore, di una forza, o di un grado degli angoli in geometria, ebbene esso è per Hegel un punto arbitrario che l’intelletto si dà per meglio orientarsi nella natura, fissando delle gradazioni. Ma questa unità di misura è fallace, dal momento che la gradazione non misura la reale divisione di momenti in gradi poiché il processo graduale, di una forza o di un angolo, è sostanzialmente incalcolabile, poiché è infinito. Così come per la numerazione dei numeri all’infinito. Ad esempio il 2 non esclude il 3, ma esclude anche una serie infinita di numeri che vengono dopo di esso. Allo stesso tempo la negazione, anche se esplicitata in una formula determinata e particolare –la rosa non è rossa– esprime le infinite potenze della negazione per tutte le infinite posizioni attive nel negare. Nel predicato reso negativo –non-rosso-, si hanno le infinite potenze formali e contenutistiche della negazione. Infatti la negazione rimanda alla sua stessa infinita attività negante, quindi richiama il Nulla come infinito in sé, ma anche la possibilità che in questo negare infinito o negazione in quanto Nulla, vi è anche la possibilità che quel Nulla, in quanto attività propria nella negazione assoluta compia una sorta di auto-toglimento logico e si determini come negazione determinata; fuori dal tempo e dallo spazio e fuori dallo stesso pensiero logico-predicativo: quindi è dal determinato che si può giungere al nulla assoluto. Esso è l’eponimo del Reale, come si è visto negli esempi del numero “2” e della “mela”. Nel primo si è su di un piano analitico, anche se Hegel non crede che il numero sia analitico, poiché entificato dall’analiticità dell’intelletto stesso, e quindi nella conseguente riflessione che il nulla -fuori dal tempo e dal pensiero- possa riferirsi ad un infinito nulla: cosicché esso non può non includere la sua stessa autonegazione oltre alle infinite negazioni determinate ed astratte. Dal momento che la natura del nulla è quella di non avere natura, poiché la sua natura è quella di negarsi e negare il Nulla significa Divenire qualcosa. Quindi mentre nella Fenomenologia dello Spirito si ha una processualità a valenza dissolutivo-sistematica della negazione come scissione-opposizione-contraddizione sul piano psico-pratico-dinamico dapprima individuale e in seguito storico-inter-individuale, nella Scienza della Logica si ha un piano trasformativo, ma non più sul terreno esperienziale (antropologico), ma su di un livello “essenziale”. Ossia la valenza dissolutivo-sistematica della Negazione agisce per intensità e per estensione su di un piano logico-apofantico-predicativa, ossia astratta e teoretico-speculativa. Questo dà il senso di una negazione assoluta, che astrae da tutto ciò che di fenomenologico o pratico-antropologico (o individuale-storico-politico) aveva attuato, sempre a valenza sistematico-dissolutiva della negazione, nell’esperienza della vita. E quindi a contatto con problematiche ed esperienze fattuali. Ad esempio, nella Ragione Osservativa della Fenomenologia dello Spirito (che prevedeva la dimensione dell’esperienza dello Stoicismo e dello Scetticismo e della Coscienza Infelice), si avranno come primo momento l’osservazione della natura e come secondo momento l’osservazione dell’Autocoscienza nella sua purezza, ma in quanto rapportata alla effettualità esterna e da qui Hegel discernerà le Leggi logiche e Psicologiche, da quelle del terzo momento ossia Fisognomiche e Frenologiche. Ossia è presente in queste parti la “logicità” ovvero la dimensione astraente, ma questa Logica, nella Fenomenologia dello Spirito e nell’Autocoscienza a livello intra-individuale (piano della Ragione), è sempre correlata alla effettualità e al dato fenomenico del mondo esterno-naturale o storico-sociale. Nella dimensione speculativa della Scienza della Logica, mancherebbe il lato pratico-fenomenico. Ora aldilà della problematica inerente alla collocazione della Fenomenologia dello Spirito all’interno del Sistema della Scienza in Hegel, interessa qui sottolineare che da quel momento (cioè da dopo la Fenomenologia dello Spirito) in poi l’attuazione e la trasformazione della Negazione-Opposizione-Contraddizione non nasce più da un terreno pratico-filosofico, ma solo da un territorio esclusivamente speculativo-teoretico. L’Io, che pensando se stesso pensa l’Universale in quanto unità di soggetto ed oggetto. Ma quest’unità di soggetto ed oggetto non è più attuativa di uno scambio relazionale e trasformativo con la mediazione in atto, ossia intesa come valenza dissolutivo sistematica della negazione, seppure sul piano della vita fenomenologica. Invece questa valenza dissolutiva sistematica, cioè arrivati alla Scienza del Sistema-Logica, diventa il centro d’attuazione della Negazione che non poteva non partire anche in tal guisa nelle Coscienze Individuali e Naturali dell’Inizio della Fenomenologia dello Spirito, sul fatto che essa non avrà più figure e forme fenomenologico-individuali e intraindividuali, fino al piano storico-politico-sociale, ma esporrà pensieri che si presenteranno come struttura immediata del Pensiero (Logico-oggettivo) della Negazione stessa. Ecco perché è Negazione Assoluta: poiché ad attivare la Negazione è la stessa Negazione, senza più un processo che la invita ad attivarsi, come si è visto nella Coscienza Naturale. Mentre per psico-drammi Naturali, la Coscienza attiva la funzione della Negazione-Opposizione nei confronti dell’altro, attraverso un campo di forze e di affetti volontari o involontari, la genesi della Negazione lascerà il campo “pratico” in una sorta di fuoriuscita da una condizione elementare della coscienza entrando in una condizione spirituale, lasciando il campo del combattimento e di forze tensionali, consce o incosce. Nella Scienza della Logica la negazione è in qualche modo appesa a se stessa e sta al centro di un Pensiero che non cannoneggia più sul mondo, ma nell’astratto[1].

Ma Il Pensiero come Altro ed estrinseco al Pensiero o al Sapere Assoluto, dove si collocherebbe nella Logica? Il Pensiero oggettivato, che per una sorta di metonimia, prende posto della oggettità della Fenomenologia dello Spirito difronte alla coscienza, dove si andrebbe a porre? Questo Oggettivo Noetico o Plesso Logico, dove si istituisce rispetto alla Soggettività, che senza residuo alcuno coincide in una sorta di perfetta auto-trasparenza mediante l’oggetto con Se stessa? Tutta quella dimensione ideale del pensiero altro dal sapere Assoluto, dove si colloca? Hegel deve scrivere una Scienza della Logica. Ma ci s’interroga: è mai possibile che nei vari capitoli della Fenomenologia (Coscienza-Autocoscienza-Ragione-Spirito), Hegel non pensi alla perfetta coincidenza di una soggettività con un oggetto che non sia determinato dato-sensibile, immediato od oggetto inter-individuale o culturale, ma propriamente logico-ontologico? La risposta sembra positiva. Difatti Hegel nella Ragione Osservativa (primo momento dedicato alla Ragione, in quanto fuoriuscita della coscienza da un piano individuale ed intraindividuale, ad un piano più generalmente storico) apre con la Ragione Osservativa ed in seconda battuta colloca la dimensione dell’autocoscienza pura nella sua conformazione di identità di universale e particolare (ereditata dalla coscienza infelice con tutte le scissioni e contraddizioni di tale figura), in riferimento al rapporto dell’effettività del mondo naturale. Qui Hegel fa riferimento alle leggi logiche e alle leggi psicologiche, cioè ai principi logici e a quelli psicologici della coscienza in relazione all’oggetto determinato della Natura, dal punto di vista della Ragione Osservativa (ossia non si è più al livello della coscienza singola dinanzi ad un oggetto, quella era la dimensione naturalistica della coscienza rispetto alla coscienza della certezza sensibile e della percezione piuttosto che della forza ed intelletto). Ovvero si è in una modalità in cui la coscienza era tanto immediata, singolare ed individuale quanto l’oggetto che ha dinanzi. Ed il suo sapere è valutato in prima battuta (seppure nella certezza sensibile, nella percezione) in un sapere non di sé, ma dell’altro da sé, ossia nell’oggetto che in quanto realtà ontologica esprime la verità, ed il soggetto della certezza sensibile e della percezione si troverà in tal guisa solo nell’intelletto. Qui si è sul piano storico-naturale-antropologico, quindi occorre andarsi a vedere quel passaggio di quella disamina che fa Hegel dopo l’osservazione della Natura, l’osservazione dell’autocoscienza nella sua purezza e nel suo rapporto con l’effettualità esterna: leggi logiche e psicologiche e, come terzo momento, osservazione del rapporto dell’autocoscienza con la sua effettualità immediata fisiognomica e frenologia. Quindi vi è questa dimensione logica, ma è una logica che Hegel trova immediatamente presso un’autocoscienza, che è ancora parzialmente unità di universale e particolare. Ha l’universale consaputo ormai dentro di sé, ma non lo governa e né lo produce, quindi non potrebbe (neppure a stretto rigore) produrre una nuova logica, o nuova spiritualità, poiché ancora costretta a pensarsi in una dimensione (raggiunta dopo l’esito della coscienza infelice, seppure problematica unità di universale e particolare), ma di volta in volta quest’universalità e particolarità sono assoggettati a principi esteriori trascendenti e costrittivi. Quindi, l’autocoscenza della ragione è ancora fortemente dominata da disegni e dimensioni che essa stessa non controlla e non produce. In una fase ancora intellettualistica che produrrà ancora scissioni e contrapposizioni, sempre in relazione ad una dimensione di trasformazione del processo intellettuale, che porterà a produrre di nuovo contraddizioni, scissioni, curvature, alterazioni e principi non veri. Un’altra dimensione dove Hegel parla della cultura, è lo spirito che si è estraniato da sé. Dopo lo spirito vero e l’eticità, e quindi dopo l’ultima tappa della Ragione, l’Individuale che è Reale in sé e per sé, questo processo determina la fuoriuscita dal regno animale al regno spirituale; così dalla Ragione legislatrice si passa alla Ragione esaminatrice delle leggi, raggiungendo lo Spirito come mondo etico: legge umana, legge divina, uomo-donna, lo spirito vero e l’eticità in quanto azione etica, il sapere umano e divino, la colpa ed il destino e lo stato di diritto, passando dall’ eticità alla cultura ai momenti della fede ed intellezione, fino ad arrivare all’illuminismo, libertà assoluta ed il terrore. Nel terzo momento più alto abbiamo lo spirito, che è certo di sé, la Moralità, la concezione morale del mondo, la coscienziosità, l’anima bella, il male e il perdono. A quel punto entreremo nella religione e quindi nello spirito assoluto.

[1] Marx nei Quaderni preparatori alla Tesi di Laurea del 1841, rivendica la problematicità e l’aporeticità dello strumento filosofico come connaturato e destinato all’impossibilità della riunificazione del dominio spirituale e di quello naturale (Pensare ed Essere), poiché nella polemica dei giovani Hegeliani, con riferimento alle astrazioni e ai colpi metafisici di Hegel, Marx osserva che la stessa Filosofia, in particolare in Hegel, per quanto si sia sforzata ed affannata con Hegel ad unificare sotto una sorta di binario bi-univoco che nella sua Unicità racchiudesse il Due, e cioè il Pensare e l’Essere e che nonostante rendesse coprotagonisti il Materiale e lo Spirituale, in quanto movimento stesso dello Spirito, per natura della stessa filosofia che viaggia su una dimensione esclusivamente noetica e quindi essenzialista e riferita alla teoria del Pensare, e nonostante la stessa filosofia mostri un coprotagonismo tra Pensare ed Essere (Natura e Spirito), questa è comunque sbilanciata sulla polarità della noeticità. Quindi è qui che Marx comincia a chiedersi se aldilà della polemica nei confronti del Sistema Hegeliano, e cioè del deficit del concetto di soggetto e di soggettività ancorato a sistemi astratti spiccatamente speculativo-teoretici, capaci di produrre un minus di valenza in riferimento al concetto stesso di soggettività, e quindi un deficit di trasformazione, azione-pratica che la stessa soggettività deve poter attuare, se eventualmente fosse stato come insolubile, considerare, nella Filosofia, il problema radicale di una scissione tra Filosofia-Mondo e Filosofie-Universalistiche. Ed all’interno di queste, fosse di nuovo inutile riconsiderare la scissione tra soggettivo e oggettivo e quindi tra materiale e spirituale. Questa condizione eristica delle polarità logico-ontologico-gnoseologiche è l’Humus stesso del medesimo sistema di Hegel. Il problema non si porrebbe, poiché esso è la stessa Negazione della Negazione. Cionondimeno, da questo fraintendimento del giovane Marx, si giungerà a quella trasgressione assoluta di Hegel, che non consiste tanto nel rovesciamento dei principi da spirituali a pratiche materiali, di modo che tutto ruoterà attorno ad una concezione e visione del principio materiale, proprio per aver concepito che la filosofia stessa doveva essere superata in una sfera di bisogni, di studio, di riflessioni altre e questa sfera è l’economico rispetto al filosofico.

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La coscienza in Hegel e l’intelletto come demone

Maria Tarantini

Una coscienza che ha dentro di sé il demone dell’Intelletto: non è vero che è stato totalmente assorbito quella dimensione della rimozione-spostamento-proiezione, ma ritorna in un senso puramente autoriflessivo (dentro una dimensione assoluta), ma appunto di nuovo con la messa in scena di un campo tensionale, che non è più psico-pratico-dinamico, ma è semmai psico-teoretico, e quindi autoriflessivo. Cioè la rimozione dei vari Assoluti che il pensiero ha prodotto (secondo la teoria causalistica della storia del pensiero, ossia quella di una soggettività intellettualistica) risiede ancora nel residuato, sedimentato nella condizione di una soggettività assoluta ma che non può non di nuovo rivolgersi all’esterno, poiché quell’esterno è l’elemento dualistico che essa compenetra e produce, ma mai in modo veramente superato e tolto in quanto esterno. Quindi quell’esterno che esso stesso, in quanto Spirito Assoluto detiene, nella perfetta unità e senza residui, rimane invece a sedimentarsi come un “altro”, opposto, di nuovo dualistico, tuttavia questa volta nella dimensione Assoluta ed incondizionata di un Assoluto che pensa se stesso. In poche parole: l’Essere che l’Autocoscienza Assoluta sembrerebbe “aver esaurito in sé e per sé”, apparirebbe invece riproporsi come oggettività interna. Infatti la Logica è un’attività del Pensiero oggettiva oltre che soggettiva. Ma ciò significa che non è un semplice esercizio sostanzialistico ed auto riflessivo l’esito della Logica, ma è ancora il fare i conti con una dimensione scissoria e oppositiva che mai verametne è stata superata, persino dall’ Autocoscienza Assoluta. Quindi non è che si abbandona il filtro dinamico-psicodinamico, ma anzi lo si esalta in una dimensione Logico-predicativa, che certamente viene poi ad assumere una dimensione ontologica, e quindi metafisica, quel logico-predicativo-apofantico che assume un senso reale, perché appunto quella dimensione che si trascina dalla Fenomenologia dello Spirito dell’Altro ,mai veramente superato, non può non presentarsi come in veste di nuovo esteriore e dissimulatoria del determinato (ma qui metafisico). Quindi la struttura psico-pratico dinamica che già avveniva a livello di coscienza naturale (organica-incosciente, organico-coscienziale con carico -scarico nell’altro da sé di un surplus o sovradeterminazione del nesso universale in quanto altro), è quella stessa condizione che attraverso una sovradeterminazione dell’altro da sé come pensiero oggettivato in una circolarità nella dimensione logica (di un pensiero cioè che pensa se stesso, così come la soggettività fenomenologica ricercava e trovava nelle varie stazioni se stessa), qui l’altro è messo in gioco nella dimensione noetica. Tuttavia l’altro non è mai veramente l’altro se non per un autoinganno del Saper Assoluto. Ma perché il Sapere Assoluto ha bisogno di tale autoinganno? Perché esso non può non divenire se stesso attraverso l’andamento del “duale”, e quindi pur nella unicità organica (e non giustapposta) e perfetta coincidenza dell’Universale e Particolare, ebbene quell’organica identità di forma e materia, non può non pensarsi come dualità. A questi livelli (Sapere Assoluto) questa dimensione si concede come alterità presso di sé, e quindi noetica. La lotta è di nuovo tra un Soggetto ed Oggetto oggettivo rispetto ad un nuovo oggettivo. Poiché quello assoluto oggettivo/ soggettivo pratico-fenomenico ormai è stato esaurito nella perfetta autocoincidenza e trasparenza del soggetto nell’oggetto, ma rimane ancora un’idea di alterità nell’Idea (cioè nel Concetto). E questa dovrà essere nel Concetto, di nuovo ripercorrere le tappe del pensiero che pensa se stesso, poiché in ogni oggetto speculativo vedrà se stesso. Quindi la circolarità è un dinamismo metafisico. Ma tale movimento è certamente in atto; d’altronde poteva essere anche immobile lo stesso psico-movimento della rimozione-spostamento-proiezione visto che accade tutto nell’ambito di una soggettività coscenziale-naturale ed intellettualistica, nella patologia e nella drammaticità di un processo psico-pratico-dinamico, non c’è una vera e propria alterità se non quella che il soggetto psicotico vuole vedere, ma appunto è una sua proiezione. E questa stessa processualità immanente al soggetto ha solo un riferimento esterno reale che può essere l’imperatore romano, il Cristo, piuttosto che il denaro, è però determinazione entificata del pensiero dentro il pensiero stesso: è un’ente determinato (ma che non lo è) entificato dal pensiero stesso. La cosificazione o reificazone che scatta nella coscienza e nella sua processualità, fisico-psico-dinamica, pratico-fenomenologica, scatta all’interno di una dimensione incondizionata ed assoluta, cioè senza residuo alcuno di determinatezza, del sapere assoluto. Occorre così fare questo ragionamento: il motivo per il quale Hegel scrive la Logica è collocabile all’interno di un processo ancora non del tutto svuotato, di una funzione ancora non del tutto superata dell’Intelletto all’interno del Concetto. Nel senso che l’esito finale della Fenomenologia, in quanto Autocoscienza Assoluta e Sapere Assoluto, è l’esito di un Concetto in una dimensione di Unità senza residui, come dice Hegel, dell’ unità realizzata dell’Universale e del Particolare, da parte di un’Autocoscienza Assoluta, detta anche Sostanza. Ma, ed è questa la tesi che qui s’intende dimostrare, Hegel in realtà sta dicendo che rimane fuori (ovviamente a livello di Sapere Assoluto: fuori che è un dentro) un’alta Alterità o Oggettualità, che sarà la Logica oggettiva (cioè Logica dell’Essere e dell’Essenza) e la Logica del Concetto. Questo significa che il Sapere assoluto concettivo della Fenomenologia dello Spirito, in quanto Sostanza, che se stessa come identità di soggetto ed oggetto ancora deve “verificarsi”. Si deve ancora raggiungere la Logica concettiva della scienza della Logica. Ed allora che cosa è quel grado di sapere assoluto fenomenologico? È un sapere assoluto ed è, quindi, realmente il terzo momento speculativo-razionale, oppure c’è dell’Altro? Ad avviso di chi scrive quell’esito speculativo è positivamente razionale, ma con un Altro. Questo Altro non è una oggettualità residua ancora da raccogliere, ma bensì è l’oscura (perché oscura al Concetto stesso) ed occulta presenza dell’Intelletto. Il quale è stato estirpato a partire dalla negazione della negazione dalla contraddizione (cioè dal momento positivamente risolutivo razionale), ma che in qualche modo è residuale nella stessa definizione conclusiva e finale dell’autocoscienza assoluta (che è unità, totalità degli opposti, dell’universale e del particolare). Questa compresenzialità del “due” nell’ “uno”, veramente realizzata, nasconde un’insidia ancora maggiore: ossia nasconde il sospetto che nel portare con sé l’Intelletto, lo Speculativo o Concetto, che è Totale perché l’Intelletto stesso è un suo momento (e qui v’è la Suprema forza del Concetto che addirittura metabolizza l’Intelletto come proprio momento), probabilmente questa metabolizzazione dell’Intelletto non è digerita fino in fondo. Rimane non tanto un residuo di una duplicità universale e particolare (che infatti non c’è), ma un residuo intellettuale nell’unità trasparente e senza residui dell’universale e del particolare. Se bene si ricorda, l’Intellletto non è solo la macchina da guerra che produce le scissioni e le entifica, ma in primo luogo (come primo momento del dialettico, cioè astratto-intellettuale) l’intelletto produce la unitotalità. In questa duplice operazione il Sapere Assoluto, come esito della Fenomenologia, ha certamente superato i primi due momenti intellettuali, ma senza averli mai realmente concettualizzati. E questi, così, rimangono come residuati di una definizione del Sapere Assoluto della Fenomenologia dello Spirito, come Unitotalità dell’Assoluto, pur nella compresenza del “due”, che invece l’Intelletto faceva poi scemare. Ma probabilmente l’Intelletto si è occultato nella sua versione di Unitotalità (equivalente al primo momento astratto e rappresentativo del movimento dialettico) dietro e come ombra della Unitotalità stessa del terzo vero momento speculativo-razionale del Concetto, nel risultato del Vero come l’Intiero: una sorta di cavallo di troia offerto dall’intelletto sull’altare del vero, al cospetto del Concetto. Questo “dono”, astutamente ed erroneamente scambiato (ecco la triade: dono-sospetto-errore, offerto come segno di arrendevolezza e di resa sull’altare del Concetto da parte dello sconfitto Intelletto) come esito astuto della Ragione, per conquistare l’erroneo punto di vista dell’Intelletto, in reatà sembra segnare la proiezione dell’unitotalità dell’intelletto su quella raggiunta, come risultato, dal Concetto. Quindi un cono d’ombra sembra aggirarsi fin dall’inizio della Logica. Come dei rabdomanti d’ingegneria Hegeliana, occorrerebbe rintracciare il punto esatto in cui avviene già durante il cammino Fenomenologico la indebita, e a tradimento, sovrapposizione del momento speculativo o postivamente razionale con quello oscuro e rappresentativo, che rappresenterà in modo mai chiaro il lato oscuro e meta-razionale (ma allo stesso tempo ben occultato dallo stesso Concetto) del cattivo infinito o pessima Unitotalità, con la Vera e razionale Unitotalità del Concetto stesso. Dal momento che occorre cercare questo vulnus, scovando quell’ombra impalpabile, astratta, poiché è l’ombra della intenzione inintenzionale dell’Intelletto a seguire l’unitotalità, ossia il vero, l’assoluto. Ma come l’intelletto insegue inintenzionalmente l’obiettivo universale, per cui esso è votato al concetto universale perché deve legalizzare i fenomeni particolari sotto di sé (per cui la struttura dell’intelletto ha una procedura universale), così anche l’Intelletto ha mirato, non potendo più farlo autonomamente con se stesso, ad un principio sintetico unitario ed universale, che è quello del Concetto, ma nel quale in qualche modo l’intelletto s’è insinuato. Il Concetto può liberarsi di questa dimensione altra solo con la Logica, cioè solo dandosi una scrollata ancora più decisa e suprema fino a giungere nella Logica del Concetto e solo allora, quando il Concetto rivede se stesso, rivedendo l’unità con sé, attiva questa verifica logico-ontologica. Da qui l’autoriflessività della logica, poiché deve andare a snidare tutte quelle dimensioni in cui l’intelletto si era andato ad insinuare, producendo degli enti e quindi deve fare un’analisi autoriferita, poiché quello che l’Assoluto sta cercando come non-proprio è dentro se stesso. Da qui l’alterità scandagliata dal pensiero che pensa se stesso, in quanto principi della storia del pensiero che l’Intelletto ha prodotto come enti di ragione e sovradeterminandoli come di volta in volta principi divini, teologici, assoluti e incondizionati. Ma il Concetto deve verificare ciò che non-torna come risultato, alla fine della Fenomenologia dello Spirito. Quindi nella seconda prefazione della logica dell’essere 1831, Hegel non può non affermare che, dopo tutto, il percorso fenomenologico (di 23 anni precedente) era imperfetto: poiché Hegel alla fine del Sapere Assoluto nella Fenomenologia, informa che il Sap. Ass. Raggiunge quella perfetta coincidenza ed unità senza residui alcuni dell’unità soggettiva ed oggettiva, ma non ci dice effettivamente se tale unità è bastevole a se stessa a manifestare chiaramente l’onnipotenza del sapere assoluto. Ossia non ci dice se quella unità è tale solo in quanto portatrice ed autoproduttiva del concetto senza residui. Ci dice che è senza residui di dualismo o scissionistici, ma non ci dice se è senza residuo intellettualistico, nel senso che quel concetto di unità è lo stesso dell’intelletto, ossia è il concetto, ma è anche la prima funzione inintenzionale dell’intelletto che è quella di mirare ad un concetto universale; poiché l’intelletto separa, ma produce al contempo dei principi universali-sintetici anche se rappresentativi ed immediati. L’intelletto per sua natura mira inintenzionalmente ad una dimensione universale: poiché l’intelletto deve legalizzare tutto ciò che può legalizzare sotto di sé, producendo principi universali ed essendo esso stesso orientato e votato spontaneamente alla dimensione universale. Hegel non ci dice se questa dimensione onto-genetica dell’intelletto si sia in qualche modo nascosta in qualche meccanismo ed il concetto se lo sia portato dietro. Il concetto, dall’altro lato, sa di essere onnipotente, nel senso che esso ha bruciato tutto ciò che di estrinseco era fuori di sé, ma ha veramente anche mediato quella funzione originaria dell’intelletto, in quanto capacità di intrappolare in una Totalità un principio universale? Ha mediato l’intelletto il concetto, per cui l’intelletto è un momento del concetto: ma quella funzione dell’intelletto universalizzante, il concetto l’ha veramente superata e tolta come altro da sé e posta come un sé da sé nell’esito finale del sapere assoluto fenomenologico? La risposta pobabilmente è nella stessa Scienza della Logica riproposta da Andrè Leonard: poiché Hegel dovrà scrivere una logica oggettiva e soggettiva per poter ricomprendere, in una sorta di random o autoanalisi di se stesso (da qui la dinamica dell’espressione della massima potenza del Negativo, poiché il negativo tenuto a freno nella Fenomenologia dello Spirito non è probabilmente certezza di risoluzione della questione fondamentale, cioè della mediazione della funzione dell’universale dell’intelletto). Hegel non lo può dire, anche perché altrimenti non arriverrebbe a scrivere il sapere assoluto come ultimo capitolo della fenomenologia, ma il sospetto che Hegel faccia riaccendere il motore del sapere assoluto (dopo la conclusione della fenomenologia), denota che la conclusività del Sapere Assoluto nella Fenomenologia era solo apparente. Per essere reale, esso non deve essere solo pratico-fenomenologico, ma anche astratto-predicativo: poiché lo Spirituale deve essere assolutamente certo che quella stessa unità che esso avrebbe raggiunto ab intra (in modo reale, concreto, ricco e non intellettualistico, negando la condizione di una soggettività intellettualistica a tutti i livelli e a tutte le sfere, dal naturale allo spirituale), deve capire del perché questo altro da sé gli ritorni. Infatti la Logica dell’essere, se Hegel non sentisse questa non quadratura del cerchio raggiunta, non l’avrebbe scritta. Solo che Hegel, nella perfezione del suo sistema, non può dircelo o anticiparlo, ma c’è un punto dove probabilmente l’intelletto re-siste anche nel sapere assoluto. Certamente, si può dire che il primo momento astratto-intellettuale era stato superato ormai precedentemente dal Concetto attraverso i momenti negativi-dialettici dello stesso Intelletto, ma il paradosso è proprio qui: la prima funzione dell’intelletto unitotale e rappresentativa è superata dall’intelletto stesso attraverso il secondo momento negativo-razionale, ma è veramente così? Oppure siamo difonte ad un protocollo che ha attivato l’intelletto e che il concetto ha poi giudicato congruo? I primi due momenti della logicità dello Spirito della dialettica sono momenti intellettuali (anche se da sempre governati dalla Negazione) e non è escluso che, in questi passaggi, il “controllore” che è l’intelletto e che controlla se stesso in quanto negazione di se stesso probabilmente abbia occultato in qualche passaggio questa dimensione di controllore. E che quindi abbia salvato in qualche modo almeno un’intenzione o sotto-funzione che il concetto nella sua negazione della negazione non ha probabilmente colto, poiché non risale formalmente lo Speculativo fino al primo momento, ma risale a partire dal secondo momento: quello per il quale l’intelletto già aveva esaurito il primo momento, che è il suo stesso primo movimento. Se la negazione dello speculativo ha rotto col momento rappresentativo o astratto intellettuale, questo il concetto lo sa fino ad un certo punto, poiché entrambe le funzioni sono attività intellettuali come momenti del concetto, ma come momenti del concetto non propriamente endogeni al Concetto stesso (poiché l’intelletto è altro dallo speculativo, anche se momento dello speculativo). Questo ha generato e portato sottotraccia un vulnus (errore) che il Concetto dalla sua suprema altezza e forza non ha visto e che si è ritrovato dentro di sé, quando ormai nasceva la Sostanza come sapere assoluto. Perché appunto la Autocoscienza assoluta reinizia non a porre in discussione quel dualismo (universale particolare), ma a porre in discussione in qualche modo quell’Unità, poiché inizia a pensare un’alterità che non c’è più. Quasi in una condizione in cui ha chiuso la “stalla ma dopo che le vacche tutte nere dell’assoluto Schellingiano, erano uscite”(n.d.a). Quindi quell'”alterità”, mai veramente superata viene rimossa, ma non la rimozione del dualismo e dell’oggettività del “due”, per cui questa Autocoscienza Assoluta deve ricominciare a pensare ad un’oggettività, quanto la dimensione dell’Unità che ha dei problemi ad essere mediata. Insomma il problema deriva dal fatto che, una volta raggiunta l’unità e l’identità dell’universale e del particolare, quel terzo momento speculativo e positivamente razionale, Hegel deve essere convinto che non sia una presupposizione del primo momento in realtà intellettuale o dell’intelletto presupposto dal concetto.

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Riflessioni sulla teoria dell’argomentazione e la logica

Stefano Cazzato, La quasi logica. Pratiche del consenso e del dissenso,
Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero (NO) 2020

Nicola Cotrone

Il libro di Stefano Cazzato, nello svolgere un interessante e preciso percorso storico-filosofico sulla teoria argomentativa e logica, vuole mettere in risalto, anche con casi empirici, quanto oggi sia necessario e urgente, anche in ambito politico, ritornare a riflettere e ripensare le regole che fondano la logica, la retorica, il ragionamento.

L’arte dialettica (dal gr. dialektikòs, der. di dialègomai “conversare” e, con un significato più ampio, abilità e tecnica oratoria finalizzata a persuadere un interlocutore) insieme alla «scienza – di cui era la parente debole – e con la retorica – di cui era la parente forte -» (pp. 57-58) è stata, secondo gli antichi filosofi greci, all’origine del pensiero occidentale perché è alla base del corretto ragionamento sia da un punto di vista morale, sia da un punto di vista sintattico-grammaticale.

La storia delle idee da Platone a Wittgenstein, passando per Austin, Perelman, Toulmin, Heidegger, Gadamer, è caratterizzata da una continua evoluzione e “trasformazione semantica dei concetti” che spesso è legata a filo doppio con l’orizzonte storico, la società, i valori che in quel momento sono condivisi – o non condivisi -, le tradizioni, il tipo di potere politico, le maggioranze o le minoranze. Le interdipendenze tra tutte queste variabili contribuiscono, ci spiega l’autore, a trasformare continuamente i significati dei termini che sono alla base delle idee e che, in apparenza universali e immutabili sono, invece, in lento cambiamento.

La teoria dell’argomentazione e lo sviluppo del pensiero logico-filosofico – come ben ci illustra Stefano Cazzato – dimostra infatti che «alla base di questo divenire dei concetti non operano il caso, l’arbitrarietà e la soggettività ma criteri razionali di negoziazione e di cooperazione in base ai quali un significato viene accettato e condiviso solo quando viene giustificato agli occhi di un uditorio e riesce a ottenere un consenso, a produrre un accordo generato dalla persuasione e non dalla forza» (p. 186).

Parlare, argomentare, prendere la parola, come spiega bene l’autore, identifica le capacità dialogiche dell’uomo che, necessariamente, sono «legate alla parola, alla persuasione, alla propaganda, al proselitismo discorsivo» (p. 219). Attraverso il linguaggio è possibile ingannare, ma anche dare speranza, raccontare un progetto, costruire un percorso formativo, impostare un discorso persuasivo, argomentare un programma di governo, strutturare un processo di persuasione, narrare, semplicemente, la propria storia – si pensi alle recenti ricerche in merito all’importanza delle strategie narrative quale condizione ontologica della vita sociale in particolare nelle questioni migratorie.

Con Heidegger, Gadamer e Feyerabend – sostiene Stefano Cazzato – si è avviata nel pensiero filosofico del ‘900 una rimodulazione, un processo di ripensamento, una rielaborazione che va a ri-definire i ragionamenti di tipo induttivo e/o analogico che, come un filo rosso, ed è questo uno dei principali meriti dell’autore, lega tra loro le argomentazioni dei diversi capitoli e i molteplici riferimenti bibliografici agli autori contemporanei delle diverse scuole di pensiero. Tra questi: Habermas, Michelstaedter, Carnap, Wittgenstein, Sandel, Taylor, Dworkin, Adorno, Putnam, Austin, solo per citarne alcuni dei più significativi. Con le sue puntuali riflessioni, pertanto, l’autore ha saputo mettere in evidenza la contrapposizione – nata in epoca antica tra Platone e Aristotele e proseguita, successivamente in epoca medievale, con la disputa tra Agostino e Tommaso – tra le due forme di sapere, l’una più “forte”, l’altra più “debole”. Un dualismo che vede l’aspetto «logico e quello quasi-logico» (p. 72), la scienza da un lato e la saggezza dall’altro, una conoscenza certa e una «prodotta dalla giustificazione» (ibidem). In definitiva viene chiarito come, nella ricerca del sapere – seppur l’argomentazione di tipo socratico conduca a conclusioni attendibili e permesso il salto epistemologico dalla filosofia dei Naturalisti a quella successiva – non si deve confondere e porre una netta distinzione «ciò che è “noto per sé stesso” e ciò che è noto “per mezzo di altre cose”, cioè per mezzo di ragionamenti, elenchi di motivazioni, prove». (ibidem). Il processo argomentativo non ha lo scopo di dimostrare e non definisce le proprie conclusioni come certezze incrollabili, ma concede che si possa mettere tutto in discussione e che solo nel confronto è possibile determinare quale possa essere l’idea e l’opinione più valida. La filosofia, grazie alla razionalità argomentativa, si colloca – secondo Theodor Adorno e Hilary Putnam – in una posizione intermedia tra «l’oggettività della scienza e la soggettività delle visioni del mondo, tra un sapere certo e uno del tutto opinabile» (p. 19). La rinascita della dialettica ha avviato quel processo che sta portando a sostituire, nella filosofia contemporanea, il “paradigma scientista e positivista” – inaugurato con l’età moderna e che ha prodotto quella cesura tra la retorica classica e la nascente e forte ragione moderna di Cartesio -, con quello ermeneutico-linguistico. In tal modo si ridefinisce il modello argomentativo e si indirizza il pensiero occidentale contemporaneo verso nuove piste di ricerca.

Oggi la teoria dell’argomentazione – dialettica nell’antica Grecia – è definita New Dialectic grazie anche agli studi di Chaïm Perelman che, come sottolinea l’autore (esperto studioso del pensiero del filosofo belga), «l’ha sottratta all’oblio in cui era caduta nell’età moderna restituendole rilevanza teorica e pratica e allargandone le applicazioni ad ambiti come la letteratura, la linguistica, la semiologia, le scienze umane e della comunicazione». (p. 57). Il Trattato dell’argomentazione (1958) di Perelman, nell’analizzare una serie di argomenti che vanno dalla politica alla filosofia, dall’etica al giornalismo, diventa il punto di riferimento della corrente filosofica che non si riconoscono nel “paradigma positivista” e, rifiutando anche la prospettiva neopositivista, intendono approfondire «una razionalità dell’agire pratico, senza fondamenti, capace di guidare gli uomini nello spazio pubblico delle moderne polis verso comportamenti sociali e ragionevoli» (p. 58). Lo stesso anno Stephen Edelston Toulmin pubblica Gli usi dell’argomentazione, dove il filosofo britannico, partendo dal presupposto che la logica è empiricamente orientata ed è alla base delle discussioni e delle valutazioni di argomenti pratici, non può rimanere ai margini della scienza, ma deve ricoprire un ruolo cardine nel contesto storico, nella pratica sociale e politica e nella dialettica concreta. Con queste due opere Perelman e Toulmin, intraprendono due progetti di ri-fondazione della logica – che potremmo definire complementari -, avviano un fondamentale processo di rivalutazione delle regole e delle procedure argomentative e intraprendono un percorso autonomo che si discosta dalla scienza, così come è generalmente intesa. In tal senso, sottolinea Stefano Cazzato, si tratta «di procedure razionali ma non dimostrative, rigorose ma non nel senso dell’esattezza e della precisione richieste dalla scienza. Anzi, è proprio l’unicità, l’universalità, l’esclusività dei metodi dimostrativi, e la loro propensione a operare anche nella sfera del discorso pratico, regolato dalla sapienza fronetica e prudenziale, che Perelman e Toulmin, da prospettive e con esiti spesso diversi, hanno inteso contestare» (p. 61). Entrambi gli autori, pertanto, nel contrapporsi al modello cartesiano, non hanno inteso rinnegare la razionalità ma, appunto, ridefinirla a partire dal modello della “retorica classica”.

L’argomentazione, sostiene Stefano Cazzato, è simile alla dimostrazione ma non coincide propriamente con essa. Le premesse di colui che argomenta «non possiedono quel grado di certezza che è tipico dei procedimenti dimostrativi. Le prove argomentative non sono così strette e vincolanti, necessarie e evidenti, come quelle logiche. Le conclusioni del discorso non così cogenti» (p. 59). In politica una delle sedi più idonee per esporre le proprie opinioni e poter argomentare è, senza dubbio, la pratica della democrazia deliberativa. Qui, a differenza del modello rappresentativo che prende in considerazione la semplice aggregazione di preferenze, l’opinione deve essere sostenuta e supportata dalla logica e dalle argomentazioni efficaci, indipendentemente da chi prende la parola. Per Seyla Benhabib il processo deliberativo deve seguire norme di uguaglianza e tutti devono avere la possibilità di «avviare atti linguistici, porre domande, interrogare e aprire un dibattito» (S. Benhabib, Toward a Deliberative Model of Democratic Legitimacy, 1996, p. 69). È qui che l’argomentazione diventa razionale pur non essendo le sue premesse universali, «le sue conclusioni verosimili anche se mantengono sempre un margine (più o meno basso) di opinabilità» (ibidem).

La partecipazione democratica, pertanto, non può, necessariamente, fare a meno della logica perché, come spiega l’autore in una sua recente intervista, viviamo in una democrazia quando «rifiutiamo la ragione della forza, per la forza delle ragioni». I processi e gli assetti democratici non riguardano solo gli equilibri sociali, l’equità e la redistribuzione economica, i valori, i fini, ma anche le procedure che avviano e permettono di formare e assumere decisioni. Le cosiddette “democrazie carismatiche” indirizzano le loro scelte, proposte e decisioni all’emotività dei singoli e della comunità, vale a dire alla “pancia” dell’elettorato e alle sue “reazioni elementari”, e possono, pertanto, fare a meno della logica. La vera democrazia, invece, ha bisogno di una partecipazione larga e condivisa. Ha necessità di essere veicolata da una giusta e veritiera informazione che sia pluralistica, riflessiva, esercitata e praticata con responsabilità in vista del bene comune. In tal senso il logos e il dia-logos sono “il sale della democrazia” che deve comprendere anche contrasti, dispute, discussioni e contrapposizioni nelle quali tutti dovranno essere coinvolti in quanto cittadini e individui che hanno diritto a prendere parte al discorso pubblico. L’autorità epistemica – ritiene Jürgen Habermas – non è una questione privata dei “singoli parlanti” ma coinvolge le pratiche e le prassi sociali dell’intera “comunità linguistica”. Per il principale esponente della Scuola di Francoforte la «lingua non è proprietà privata di un individuo, ma produce una connessione di senso intersoggettivamente condivisa, incarnata in enunciati culturali e in pratiche sociali» (J. Habermas, Verità e giustificazione. Saggi filosofici, 2001, p. 135). L’astratto schema conoscitivo soggettivo dovrà cedere il passo al paradigma intersoggettivo che dovrà gettare le basi per una nuova “ragione comunicativa”.

La partecipazione alle comunità discorsive non è riservata esclusivamente a esseri con capacità razionali e argomentative – come auspicato e sostenuto a più riprese da Habermas e Rawls – ma anche a soggetti concreti «persone in carne e ossa, coi loro caratteri, vissuti e tratti culturali specifici» (p. 22) e con capacità morali che compongono «una comunità situata, localizzata» (ibidem). È qui che è possibile ritrovare ancora un confronto tra le riflessioni dell’autore e la politologa turco-americana Seyla Benhabib quando illustra e immagina nuove «forme di agency e soggettività politica capaci di anticipare nuove forme della cittadinanza politica» (S. Benhabib, I diritti degli altri, 2006, p. 143) che sono presentate attraverso il concetto di “iterazioni democratiche”: «complessi processi pubblici di argomentazione, deliberazione e scambio che hanno luogo tra le diverse istituzioni giuridiche e politiche e nelle associazioni della società civile» (ibidem). È nella sfera pubblica delle democrazie liberali, quindi, che è possibile, attraverso la discussione e l’argomentazione pubblica, istituzionalizzare la democrazia deliberativa aperta anche alle associazioni della società civile e ai mezzi di comunicazione di massa. L’obiettivo è trovare la sintesi tra i principi universalistici del diritto e le rivendicazioni particolaristiche che inevitabilmente devono essere «contestati e contestualizzati, invocati e revocati, proposti e situati» (ibidem).

Per concludere, anzi, come scrive l’autore, per “far finta di concludere”, tra i diversi meriti dell’opera di Stefano Cazzato, è possibile rintracciare almeno altri due aspetti.

Il primo, per rimanere nel solco di una “retorica razionale” e senza cadere in una “retorica propagandistica”, mette in evidenza, tra i principali compiti dell’argomentazione filosofica, quella di poter dimostrare, in una controversia, non il punto di vista vincente legato all’intuizione, ma il discorso argomentativo e razionale che riesce ad essere condiviso dalla maggioranza dell’uditorio. Ecco che, nel ricco e articolato V Capitolo, l’autore mette in evidenza casi empirici di vita pratica come quelli del Prof. Toby Ord e del signor Kravinsky, presi in prestito dall’interessante libro di Peter Singer. Qui sono presi in esame non solo i presupposti teorici ma, soprattutto, i “dispositivi applicativi” i quali permettono sia la rinascita dell’argomentazione logica, sia l’implementazione di fondamenti, procedure, tecniche e “finalità speculative” che definiscono i discorsi argomentativi filosofici insieme agli aspetti formativi che sono tipici di una scuola politica (si vedano i diversi tipi di sillogismo – scientifici, dialettici, retorici, eristici – di cui si occupa Aristotele nei Topici).

La seconda considerazione riguarda la possibilità e la capacità di «impugnare le conclusioni di un discorso seppure sembrino decisamente fondate» (p. 153) definita “argomentazione aperta”. Espressamente nel paragrafo 5.5 Impugnare e riaprire si confuta la tesi secondo cui la ripresa economica in un determinato Paese – dimostrata dall’inequivocabile aumento dei posti di lavoro – si possa mettere in dubbio attraverso la domanda: “Che cos’è il lavoro”? Così come insegna Socrate nei suoi dialoghi, la riflessione, a priori, sulle definizioni dei termini in gioco permette di orientare l’argomentazione in un verso piuttosto che in un altro. Se, pertanto, per “lavoro” si intende una «mansione stabile a tempo indeterminato, garantita sul piano salariale, tutelata a livello legislativo, che consente a chi la possiede e la esercita continuativamente concreti progetti di vita personale e familiare» (p. 154) e la maggior parte dei nuovi posti di lavoro sono precari e occasionali, allora è possibile dimostrare che non solo non è reale l’aumento dei posti di lavoro ma che anche la «ripresa economica appare un lontano miraggio» (ibidem). Ecco che, a ragione, l’autore conclude che le “buone parole”, che indagano e ricercano definizioni veritiere possano smentire “cattivi fatti”.

La capacità di argomentare del singolo, se fondata su definizioni appropriate e correlate alla realtà, può stimolare la riflessione e influenzare la comunità coinvolgendola «attivamente in un progetto comune di ricerca del senso, di costruzione della verità» (p. 221). Parimenti l’arte di manipolare, persuadere, convincere attraverso menzogne e “suggestioni emotive” può orientare negativamente l’opinione pubblica, ingannarla, disorientarla all’interno di comunità virtuali sempre più ampie e confuse.

Attraverso il linguaggio, come afferma Wittgenstein in Ricerche filosofiche (1953), è possibile una “molteplicità di azioni linguistiche” come: descrivere, costruire, comandare, elaborare, riferire, rappresentare, recitare, inventare, risolvere, tradurre, chiedere, ecc. John Austin in Come fare cose con le parole (1962) afferma che, attraverso il “dire”, il linguaggio si caratterizza verso tre direzioni. È possibile utilizzare atti locutori che fanno riferimento alla grammatica e alla fonetica e che si riferiscono al significato nel senso più tradizionale; atti illocutori per informare, attestare, ordinare, affermare e, infine, atti perlocutori che permettono – e riguarda la capacità argomentativa – di ottenere e riuscire a fare qualcosa attraverso il linguaggio: «qualcosa, come convincere, persuadere, trattenere, e persino, per dire, sorprendere e ingannare» (p. 218). Per il fisico e filosofo Peter Janich è possibile comprendere il linguaggio, le argomentazioni e le decisioni dell’altro grazie alla condivisione di un medesimo “quadro culturale” che permette di affrontare il percorso argomentativo-comunicativo grazie alla giustificazione e alla confutazione in «una rete comune di attese, di credenze e di valori, di prescrizioni, di divieti» (p. 68).

È interessante, infine, chiudere con la stretta relazione, proposta dall’autore, tra i termini che definiscono il perenne divenire dei fenomeni naturali – potenza e atto (presi a prestito da Aristotele) – e le teorie dell’argomentazione: «un libro sull’argomentazione, dunque, non può che restare aperto e prestarsi a integrazioni continue: nuovi esempi, osservazioni, modelli, divagazioni, casi, dubbi, conferme, riletture, ribaltamenti, ripensamenti, critiche. È un libro in potenza. Quando si parla di parole le parole non finiscono mai. Ma il rischio è quello di non chiuderlo mai, che non diventi mai un libro in atto». (p. 222).

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Il libro di Nicola Cotrone su Seyla Benhabib

Nicola Cotrone, Seyla Benhabib. Nuovi paradigmi democratici, Mimesis, Milano 2019 (presentazione con richiami a un articolo di Edoardo Greblo) Pasquale Amato pdf Seyla Benhabib afferma: «l’attraversamento dei confini e la rivendicazione dell’accesso a una comunità politica differente non costituisce un … Continua a leggere

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 1

A partire da una ateologia

Pasquale Amato

Introduzione: la filosofia e l’Uomo

«Quelque fois je pense, donc quelque fois je suis»: con questa parafrasi cartesiana di Jean Wahl, il 22 aprile 1993 Paul Ricœur concludeva un incontro organizzato presso il Dipartimento di Filosofia della Terza Università degli Studi di Roma per la presentazione della prima edizione italiana di Soi-même comme un autre. Al di là del sorriso che strappa, questo gioco di parole potrebbe seriamente rappresentare la discontinuità di assetto e la fragilità che contraddistinguono l’uomo nel suo peculiare essere razionale e, insieme, irrazionale.

La riflessione filosofica occidentale si è sviluppata sul terreno solido della razionalità, forte di una fede nella ragione che ne ha sostenuto l’architettura, tutelandoci, finché ha potuto, dall’angoscia del non oggettivo, del non immutabile, del non intelligibile. Caduta la certezza fondativa di un tale sistema, la nostra epoca sperimenta l’inquietudine di un pensiero senza riferimenti stabili: al culmine di una pista su cui i pensatori greci mossero i primi passi, l’hegeliana immanenza della ragione nella storia sembra aver innescato la reazione di un’indagine nuova, più calata nella concretezza del vivere, spingendo la riflessione contemporanea ad avviare un confronto diretto – umile e rispettoso – con l’incommensurabilità dell’uomo che siamo. Uomo autentico, reintegrato delle sue dimensioni irrazionali, che mostra finalmente tutta la sua problematicità e recupera le sue espressioni più creative, di nuovo legittimate.

La filosofia non può ignorare questa realtà – più vera e, perciò, più drammatica – e, rimettendo in discussione la sua funzione, deve assumersi il compito di inoltrarsi in essa.

Paul Ricœur, in piena consapevolezza e con passione, si fa carico del rischio e affronta questa affascinante – e inquietante – avventura: tra le righe dense ed intense dei suoi scritti, l’uomo così rinnovato risulta, sì, soggetto-oggetto di indagine, ma anche e soprattutto destinatario di un tentativo generoso e appassionato di aprirgli una strada verso la ri-costituzione di un proprio senso.

Come non provare interesse e simpatia per uno studioso che sceglie di imbarcarsi in questa impresa, conscio fin dall’inizio del rischio di approdare ad una filosofia, potremmo dire, “dell’Uomo fragile”, e perciò fragile essa stessa? Un pensiero, vedremo, solido ma non stabile (troppo dinamico per esserlo), stimolante ma non convincente (lontano com’è dalla dimostrazione logica), filosofico… ma anche non filosofico.

Non potrebbe essere che così: la posta in gioco è proprio la filosofia, il cui rinnovamento parte, secondo Ricœur, dalla ricollocazione dell’uomo in una dimensione riflessiva che sia più prossima alla sua esistenza nella realtà del mondo. Ed è qui che, al cospetto di un pensiero tradizionalmente consolidato, si presenta una struttura filosofica apparentemente incoerente, poco rassicurante, opaca: insieme con il logos, il mito; a fronte dell’univocità della logica formale, la plurivocità dei simboli; in contrasto con il processo di demitizzazione, il recupero del mito come discorso in cui, prima ancora della filosofia, tutto è stato già detto.

Cercheremo, nel presente studio, di cogliere la genesi strutturale di tale proposta, prendendo avvio dall’opera Della interpretazione. Saggio su Freud, dalla quale estrapoleremo le parti che offrono, a nostro avviso, un abbraccio più immediato delle componenti di fondo del pensiero di Paul Ricœur e dei termini progettuali che ne esprimono la portata.

Facendo qualche passo indietro, poi, attraverso un necessario sforzo di sintesi, ripercorreremo i sentieri della Filosofia della volontà, articolata nei tre libri Il volontario e l’involontario, L’uomo fallibile e La simbolica del male, che riproporranno il progressivo costituirsi della piattaforma del pensiero ricœuriano.

Vedremo che, nel descrivere il cammino ricœuriano, per il periodo in esame si potrà parlare di un primo momento rappresentato da una “eidetica della volontà”, al quale seguono una “empirica del servo arbitrio” e la “simbolica del male”.

Un successivo ritorno al Della interpretazione ci condurrà alle soglie dell’ermeneutica generale promossa da Ricœur, attraverso un complesso confronto tra Freud ed Hegel che sfocerà in una “dialettica del simbolo”.

Queste le tappe preliminari che noi ripercorreremo e che, secondo il dichiarato intento dell’autore, avrebbero dovuto condurre ad una “Poetica della libertà”, ancora oggi solo annunciata, della quale è comunque possibile cogliere, qua e là nelle opere posteriori, argomentazioni che ne suggeriscono le linee guida[1].

Proseguiremo con alcune tra le tante letture critiche, che testimoniano del riscontro che l’opera di Ricœur raccoglie nella cultura contemporanea.

La parte conclusiva consisterà nell’imboccare il sentiero di Religione, Ateismo, Fede, saggio ricœuriano del 1969 che ha particolarmente stimolato il nostro interesse per due principali ragioni, una delle quali riguarda l’impressione di assistere ad un esercizio di applicazione “pratica” – ma potremmo dire, meglio, “poetica” – delle tematiche che costituiscono la trama di fondo delle precedenti opere, in un ambito esistenziale preciso e problematico come quello dell’atteggiamento religioso dell’uomo.

L’altra ragione è più sentita che pensata: dopo un lungo tempo di astensione dal confronto con lo smarrimento determinato, a livello strettamente personale, dall’abbandono dell’ingenuità della fede condizionata e condizionante dell’infanzia, dagli scritti di Ricœur, e da questo in particolare, traiamo il piacere rinnovato di incontrare un pensiero che “ci si confà”, che ci indica una via possibile, che ci restituisce, almeno, i contorni sfumati di una speranza.


[1] cfr. Dornisch L., Introduzione a Ricœur P., Ermeneutica biblica.Linguaggio e simbolo nelle parabole di Gesù, Morcelliana, Brescia 1978, p. 28, dove la Dornisch riporta un interessante schema progettuale della “Poetica”, la cui prima parte sembra riferirsi al testo di Ricœur La metafora viva.

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Paul Ricœur. Sul sentiero di “Religione, Ateismo, Fede” – 2

A partire da una ateologia

Pasquale Amato

  1. Della interpretazione. Saggio su Freud – Problematica

Fedeli al dettato ricœuriano che pone la comprensione nella dinamica di un circolo ermeneutico, prenderemo il via da una posizione avanzata del testo su Freud, scegliendola come punto dal quale cominciare a percorrere questo circolo perché convinti che il nostro movimento di studio chiarirà, fin dall’inizio, il “posto” dal quale Ricœur parla.

In un discorso riferito al contrasto tra il “sospetto” e la “fede” – il primo come forma di indagine condotta e inaugurata da Marx, Nietzsche e Freud a favore dello smascheramento di quegli atteggiamenti dell’uomo fondati sull’illusione e sul desiderio, la seconda intesa come ragionevole e critica attesa di un’interpellanza da parte della “Parola”, di una rivelazione di senso che si colloca nella dimensione del sacro – Paul Ricœur scrive: «In verità debbo dire che è quest’attesa che anima tutta la mia ricerca»[1]. È la dichiarazione, da parte di un pensatore credente, della volontà di porsi in gioco, in quanto uomo e in quanto filosofo, in una riflessione che non escluda le implicazioni più umane dell’essere.

Questa attesa – che è speranza – implica, dice egli stesso, l’essere fiduciosi in un linguaggio che pone gli uomini nella condizione di ascoltare più che di dire, un linguaggio che «non è tanto parlato dagli uomini, quanto parlato agli uomini»[2].

Il Della interpretazione si articola in tre libri, Problematica, Analitica e Dialettica[3], nei quali la teoria psicoanalitica freudiana viene affrontata a partire dalla constatazione della ricerca in atto che, dice Ricœur, si propone oggi di dar conto del rapporto tra i diversi modi in cui l’uomo esprime il significato del proprio essere, prospettandone l’iscrizione in una grande filosofia del linguaggio che si faccia carico del problema dell’unificazione del parlare umano.

Nel considerare il sogno quale oggetto primario di indagine, Freud rileva la necessità di un’interpretazione che, sostituendo ad un senso esplicito un senso nascosto, dia l’accesso all’originaria espressione del desiderio. Ma il sogno è «anche modello di tutte le espressioni, travestite, scambiate, fittizie del desiderio umano»[4], cioè di tutte le produzioni psichiche – motti di spirito, miti, opere d’arte, religione, ecc. – che esprimono e insieme nascondono il desiderio, e che, in quanto «significazioni complesse in cui un altro senso nello stesso tempo si dà e si nasconde in un senso immediato»[5], sono da collocare nel dominio del senso duplice, in quella regione del linguaggio, cioè, a cui Ricœur assegna la definizione di “simbolo”.

Ricœur introduce le problematiche connesse alla necessità di una definizione preliminare di che cosa si debba intendere per “simbolo” e per “interpretazione”, in entrambi i casi tentando una mediazione tra una definizione troppo ampia, in cui i termini perdono la loro peculiare consistenza, e una troppo sacrificata che ne riduce la piena significatività[6].

Definizione “troppo larga” del simbolo è, a detta di Ricœur, quella di Cassirer che, nel comprendere qualunque espressione ci serva da veicolo di oggettivazione della realtà, vanifica la fondamentale possibilità di differenziare il linguaggio univoco da quello multivoco. È viceversa “troppo ristretta” la definizione che vuole la funzione simbolica ridotta alla analogia, considerata invece da Ricœur soltanto come una delle possibili relazioni che determinano il legame tra senso manifesto e senso latente.

In definitiva, Ricœur propone l’alternativa di una definizione che conservi al simbolo quell’enigmaticità che il termine greco gli attribuisce e in virtù della quale l’intelligenza viene provocata, spinta ad operare un’interpretazione. Si può parlare di simbolo, quindi, se «l’espressione linguistica, a causa del suo senso duplice o dei suoi sensi multipli, si presta a un lavoro di interpretazione»[7].

Dal De Interpretatione di Aristotele, Ricœur trae la definizione  di interpretazione intesa come significazione di qualsiasi enunciato passibile di risultare vero o falso, definizione troppo “lunga” in quanto si riallaccia al simbolo così come viene posto da Cassirer, e dunque ad una univocità logica che taglia fuori la possibile molteplicità del senso[8]. Seppure più vicina alla nostra ermeneutica, l’esegesi biblica ci fornisce, invece, una definizione di interpretazione limitata al risolvere analogie, per di più sottoposta ad un’autorità – che per i cristiani è quella della Chiesa – e, in quanto “scienza scritturale”, rivolta esclusivamente a testi. L’interpretazione “media” proposta da Ricœur è più vicina a questa seconda definizione, ma è rivolta a qualsiasi produzione umana il cui senso non sia univoco ed è estesa agli altri modi, diversi dall’analogia, di leggere il senso duplice.

A proposito di tale scelta, Ricœur ricorda Nietzsche, al quale assegna il primato della trasformazione di tutta la filosofia in interpretazione nel momento in cui la comprensione viene a significare smascheramento dell’illusione. Il successivo confronto con Freud pone in luce che, nel riconoscere l’interpretabilità, oltre che di un testo, di qualunque produzione psichica dell’uomo, egli si proietta nella apertura di nuove possibilità di comprensione operata da Nietzsche, e in più sposta la concezione del senso duplice dalla menzogna (in qualche modo consapevole) dell’illusione, alla dissimulazione inconscia del desiderio.

Il simbolo, però, e dunque il senso duplice, viene accolto dalla fenomenologia della religione, non come maschera o dissimulazione, ma perché espressione rivelativa del sacro: con questa considerazione Ricœur ci conduce alla conseguente consapevolezza di un’ermeneutica che, in quanto «intelligenza del senso duplice»[9], si presenta in maniere contrapposte, ora come tensione a smascherare l’illusione e a demistificare il desiderio, ora come tentativo di restaurazione di una manifestazione del sacro.

In tal senso, secondo Ricœur, l’attuale problema del linguaggio, nel delinearsi come crisi in ragione dell’oscillazione tra demistificazione e restaurazione del senso, appartiene a noi che «siamo oggi quegli uomini che non hanno completato l’opera di far morire gli idoli e cominciano appena a comprendere i simboli»[10].

Siamo dunque combattuti tra sospetto e fede, una contesa implicita in quella crisi di valori di cui tanto si parla: dove rintracciare la fede? Ricœur ritiene che la fenomenologia della religione si offra quale «strumento dell’ascolto, della meditazione, della restaurazione del senso»[11] per un’interpretazione e una ricerca che ci riconduca ad una fede che sia “nuova ingenuità”.

L’approccio fenomenologico ricœuriano richiama le sue radici husserliane: il riferimento a Husserl è dichiarato ed essenziale per delineare l’epoché, quella neutralità sottintesa nel voler descrivere e non spiegare, nel voler chiarire l’oggetto, in questo caso religioso, nella sua intenzionalità, nel suo essere cioè “il qualcosa in-teso” proprio del rito, del mito, della credenza, con l’attenzione a non ridurlo alle sue funzioni, ai modi del suo nascere, alle sue motivazioni.

Ma nel simbolo si attua il “plenum del linguaggio”, quel legame indissolubile in virtù del quale «il senso secondo abita in qualche modo il senso primo»[12]: l’espressione multivoca si offre alla comprensione in veste di dono in quanto « ciò che dice»[13], mentre le espressioni tecniche, oggetti di calcolo, non possono che restituire quel che in esse viene posto. Il simbolo implica questo legame in maniera duplice risultando legato al senso letterale che veicola nell’“opacità” dell’analogia il senso simbolico, ma anche legato da questo secondo significato che si offre nella parola grazie al potere di rivelazione proprio del simbolo stesso. A questa duplice connessione, che è offerta ma anche appello all’intelligenza, si riferisce Ricœur – come vedremo meglio in seguito – nella ben nota formula “le symbole donne à penser”.

Nel successivo passaggio, il vivo della posizione ricœuriana: io , uomo che accoglie l’offerta del simbolo e ne ascolta l’appello, del simbolo colgo il “rivolgersi a me”, e «ciò che lega il senso al senso mi lega»[14]. Nell’analogia che esprime il potere rivelatore del simbolo mi si annuncia una similitudine che non posso guardare con distacco oggettivante: in forza del mio “interesse” per questa rassomiglianza essa «è una assimilazione esistenziale del mio essere all’essere secondo il movimento dell’analogia»[15], è un invito a partecipare del senso secondo.

Ecco perché il filosofo Ricœur esprime il suo interesse per l’oggetto della fenomenologia del sacro misurandone il valore nel sentirsene interpellato, nel sentire che il simbolo, nel modo enigmatico che gli è proprio, si rivolge all’uomo: spinto a riflettere dall’attesa dell’interpellanza, per sua stessa ammissione, egli ha «infranto la “neutralità” fenomenologica»[16] in nome di una dichiarata decisione filosofica che, riproponendo in chiave moderna la platonica reminiscenza, denota «un desiderio nuovo di essere interpellati, oltre il silenzio e l’oblio»[17], oltre i prodotti della consuetudine con l’univocità dei segni tecnici che è propria dell’uomo contemporaneo.

La “scuola della reminiscenza”, portatrice di un’ermeneutica restauratrice del senso, incontra però la radicale opposizione del pensiero dei tre “maestri del sospetto”. Ricœur individua il nucleo di tale pensiero attribuendo a Marx, Nietzsche e Freud il comune esercizio di falsificazione della coscienza, estensione del dubbio cartesiano sulla cosa a quella che Ricœur definisce la «fortezza cartesiana»[18], all’indubitabile coincidere, cioè, della coscienza con ciò che appare a se stessa. A partire dal comune presupposto della coscienza “falsa”, seppure differenziato nei tre registri, il loro contributo essenziale consiste nell’aver creato, «con e contro i pregiudizi del tempo, una scienza mediata del senso, irriducibile alla coscienza immediata del senso»[19].

Attraverso la “triplice astuzia” che confluisce nella promozione di un’esegesi del senso, di un movimento ermeneutico che proceda in senso inverso rispetto all’opera di falsificazione dell’uomo che dissimula, Marx, Nietzsche e Freud, da “detrattori” della coscienza quali apparivano, risultano al contrario fautori di una sua estensione, e la loro opera di “distruzione” in nome del sospetto si rivela ora, dice Ricœur, necessaria a sgombrare il campo per l’avvento di «una parola più autentica, per un nuovo regno della Verità»[20].

L’ermeneutica demistificante si oppone, in definitiva, all’illusione, e mette in discussione il cuore “mitico-poetico dell’Immaginazione” in forza della “rude disciplina della necessità”. Ricœur, richiamando la riflessione di Spinoza sull’uomo che, resosi consapevole di essere schiavo della necessità, deve comprenderla per poi liberarsi in essa, percepisce però che una tale “ascesi del necessario” porta con sé una privazione: «mancano la grazia dell’immaginazione, l’emergenza del possibile»[21], e il desiderio di recuperarle ci riconduce, ragionevolmente, alla “Parola come Rivelazione”.

Al punto in cui psicoanalisi, conflitto ermeneutico e problematica del linguaggio esprimono quella crisi della riflessione che Ricœur definisce «avventura del Cogito e della filosofia riflessiva che da esso deriva»[22], sorge l’esigenza di valutare se i confini di una filosofia della riflessione riescano ancora a contenere i termini di questa analisi.

Quel che finora si è detto del simbolo ne considerava l’aspetto meramente semantico rappresentato dalla sua struttura sovradeterminata, dal suo offrirsi, cioè, con un’eccedenza, un sovrappiù di senso che fa appello alla sola interpretazione. Ma un secondo tratto la cui considerazione, sostiene Ricœur, induce alla riflessione filosofica sul simbolo, è il suo presentarsi anche in forma di racconto, di mito che narra dell’inizio e della fine del male.

Possiamo riassumere la disamina di Ricœur limitandoci a dire che al valore espressivo linguistico che la semantica fa emergere, va aggiunta la stima del valore euristico rilevabile nei simboli in forma mitica, dal momento che essi «conferiscono universalità, temporalità e portata ontologica alla comprensione di noi stessi»[23].

Rimandiamo la discussione più dettagliata di questi aspetti alla trattazione della Simbolica del male, e osserviamo intanto che le caratteristiche del simbolo esposte consentono a Ricœur di affermare che «il simbolo stesso […] è aurora di riflessione»[24]. In virtù della sua doppia veste semantica e mitica, e della dinamica molteplicità del suo senso, il simbolo provoca la riflessione dall’interno stesso, cosicché essa si scopre inevitabilmente implicata dal problema ermeneutico.

E ancora: i simboli mitici del male si rivelano come rovescio del più ampio simbolismo della Salvezza che, a sua volta, «conferisce il suo vero senso a quello del male»[25] nel delinearlo come “sottoinsieme” interno all’ambito simbolico religioso. Da una totalità così riconsiderata e ricomposta deriva il monito di «sfuggire al fascino di una simbolica del male, recisa dal resto dell’universo simbolico e mitico»[26], e in più un ulteriore impulso a riflettere, perché riflessione e speculazione possano, nei propri termini, “dire” questa integrità simbolica.

Ma il proposito di attingere alla fonte simbolica e convertirsi in ermeneutica, per la filosofia della riflessione suona come uno “scandalo” che, secondo Ricœur, si connota in una triplice aporia: la proverbiale universalità filosofica si incontra, nel ricorrere alla memoria mitica greca, o ebraica, o babilonese, con le singolari contingenze di culture diverse; la riflessione filosofica vede il suo rigore in balia di linguaggi equivoci; il discorso “spezzato” dell’interpretazione, la “guerra” delle ermeneutiche, compromette la coerenza del logos.

Eppure, nell’aporia Ricœur avverte la concretezza. Cardine della riflessione filosofica, a partire da Cartesio, è l’io sono, io penso, la posizione del , «insieme la posizione di un essere e di un atto, di una esistenza e di una operazione di pensiero»[27]. Questa fondamentale verità risulta però astratta nella sua inaccessibilità ad una riflessione che non può coglierla nell’immediatezza ma può solo riafferrarla «“mediata” dalle rappresentazioni, azioni, opere, istituzioni, monumenti, che la oggettivano; è in questi oggetti, nel senso più vasto della parola, che l’Ego deve perdersi e trovarsi»[28].

Le argomentazioni ricœuriane conducono all’affermazione di una coscienza che si delinea non come un dato, ma come un fine da raggiungere, e quindi di una riflessione il cui scopo, o meglio il cui compito, è far coincidere il sé dell’uomo con il suo concreto esistere. È in questa finalità che la filosofia, dice Ricœur, è veramente etica, e, con un richiamo all’Eros platonico e al conatus spinoziano, affida i termini di concretezza della riflessione alla proposizione che la definisce come «l’appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio d’essere, attraverso le opere che testimoniano di questo sforzo e di questo desiderio»[29].

La riflessione, dunque, per essere concreta, deve farsi ermeneutica ed aprirsi a tutte le discipline il cui tentativo è di comprendere l’uomo decifrandone i segni poiché, sostiene Ricœur, non potremmo cogliere «l’atto di esistere in altro luogo che nei segni disseminati nel mondo»[30].

È quindi il momento, in nome della concretezza, di accettare l’idea di un inevitabile orientamento dell’indagine filosofica ad opera della memoria greca dalla cui base il filosofo “inizia”, perché «solamente la riflessione astratta parla da un punto zero»[31].

Per questo debito nei confronti delle contingenze culturali, che implica il ricorso all’equivocità delle espressioni simboliche, l’ermeneuta porge il fianco a possibili e temibili obiezioni da parte dei logici, fautori di un simbolismo logico – la cui connotazione si oppone totalmente al simbolo ricœurianamente inteso – che ha proprio la funzione di eludere l’equivocità.

Una logica del senso duplice deve, nell’ambito stesso della riflessione, articolarsi in rigore, complessità e non arbitrarietà, pur non riducendosi alla linearità della logica formale: la convivenza tra queste due logiche, sostiene Ricœur, risulterebbe indifendibile se attuata ad uno stesso livello. La logica del senso duplice deve costituirsi non nella dimensione del formale ma del trascendentale, riferita, cioè, alle condizioni di possibilità: «una logica trascendentale si costituisce infatti al livello […] non delle condizioni di oggettività di una natura, ma delle condizioni dell’appropriazione del nostro desiderio d’essere»[32].

All’interno della riflessione, allora, logica simbolica e logica trascendentale possono coesistere in ambiti distinti: mentre l’una è rivolta ad un simbolismo vuoto e mirato all’eliminazione dell’ambiguità, l’altra, decifrando la ricchezza di significatività di un simbolismo pieno proprio nell’attingerne l’equivocità, vuole «porre in luce mediante un procedimento regressivo le nozioni presupposte dalla costituzione di un tipo di esperienza e di un corrispondente tipo di realtà»[33].

Se riteniamo vero che il richiamo reciproco tra riflessione e simbolo fondi l’ermeneutica, riassume Ricœur, possiamo giustificare l’ambiguità, l’espressività indiretta nella riflessione dicendo che un tale linguaggio «può essere valido, non perché è equivoco, ma benché sia equivoco»[34].

Alla critica esterna del logico “intollerante”, però, si aggiunge un’aporia interna alla riflessione stessa che, nella necessità di farsi ermeneutica in nome della concretezza, rischia di frammentarsi per l’improponibilità di un’ermeneutica generale.

Se la transizione da una riflessione astratta a una riflessione concreta comporta la contraddizione delle ermeneutiche, è in questo conflitto che la crisi del linguaggio, suggeriva Ricœur, si estende ad una crisi della riflessione. Fenomenologia della religione e psicoanalisi, restaurazione e demistificazione del senso, producono entrambe, nella riflessione, uno spostamento di fuoco, un decentramento a seguito del quale «il fuoco del senso non è la “coscienza”, ma altro dalla coscienza»[35].

Le due ermeneutiche “più lontane”, quindi, ci pongono di fronte a un medesimo interrogativo che resta in sospeso: può, il primo atto di riappropriazione della coscienza, in quanto atto di riflessione, essere uno spostamento del suo nucleo su qualcosa che sia altro dal cogito stesso?

Nella prospettiva di un’ermeneutica, ancora tutta da costruire, che medi tra mito e filosofia, Ricœur assume una posizione interlocutoria che  aspira alla possibilità di un comune radicamento nella riflessione delle ermeneutiche in conflitto. La sua proposta preliminare si delinea come esigenza di affrontare, in un movimento unico, le tre “crisi” da cui sono attraversati il linguaggio, l’interpretazione e la riflessione, nella convinzione che una riflessione concreta possa non solo incorporare la rivalità delle interpretazioni, ma anche giustificarla nel farsene “arbitro” e nel promuoverne la comprensione.

Oltre questo progetto si intravede, conclude Ricœur, una riflessione rinnovata, che «non sarà più la posizione, esangue quanto perentoria, sterile quanto irrefutabile, dell’“io penso, io sono”»[36] ma, in virtù della “grazia” e insieme della “rudezza” dell’ermeneutica, sarà finalmente riflessione concreta.

Quest’ultima considerazione porta a termine l’esposizione del Libro Primo del Della interpretazione, attraverso il quale possiamo dire di avere una prospettiva abbastanza ampia degli intenti di Ricœur. Ci sembra utile, ora, ripercorrere lo studio condotto nei libri della Filosofia della volontà, alla scoperta dei momenti preliminari e costitutivi di quelle premesse alle quali il Della interpretazione attinge.


[1] Ricœur P., Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Melangolo, Genova 1991, p. 40.

[2] ivi, p. 40.

[3] La nostra esposizione  prescinderà dall’Analitica (Libro Secondo), specifica lettura ricœuriana del pensiero freudiano e, in quanto tale, marginale rispetto alle finalità del presente studio.

[4] ivi, p. 15.

[5] ivi, p. 17.

[6] cfr. ivi, pp. 20-28.

[7] ivi, p. 27.

[8] Anche se, dice Ricœur, «la sua discussione delle significazioni molteplici dell’essere [“L’essere si dice in più modi…”] apre una breccia nella teoria puramente logica e ontologica dell’univocità». Cfr. ivi, p. 34.

[9] ivi, p. 18.

[10] ivi, p. 38.

[11] ivi, p. 39.

[12] ivi, p. 41.

[13] ivi, p. 41.

[14] ivi, p. 42.

[15] ivi, p. 42.

[16] ivi, p. 42.

[17] ivi, p. 42.

[18] ivi, p. 43.

[19] ivi, p. 44.

[20] ivi, p. 44.

[21] ivi, p. 46.

[22] ivi, p. 47.

[23] ivi, p. 49

[24] ivi, p. 49.

[25] ivi, p. 50.

[26] ivi, p. 50.

[27] ivi, p. 53.

[28] ivi, p. 53.

[29] ivi, p. 56.

[30] ivi, p. 56.

[31] ivi, p. 58.

[32] ivi, p. 59.

[33] ivi, p. 62.

[34] ivi, p. 64.

[35] ivi, p. 65.

[36] ivi, p. 66.

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