Metodo storico e teoria decostruzionista a confronto: alcune osservazioni in merito alle loro epistemologie e obiettivi

Samir Galal Mohamed

Abstract: In the present paper we have set out to analyze, through epistemological and theoretical-critical profiles, on one side the contemporary historical method and, on the other side, the deconstructionist philosophical activity. Our intention is to deepen the relationship between historical-critical method and deconstructive criticism; indeed, our aim is not only to identify the conflicting, contradictory aspects of this relationship, but especially to underline the collaborative, cooperative ones, which could trigger unprecedented insights of reflection and nourish with new lymph the two research perspectives. We shall start from the reconnaissance of historical method and of deconstruction; then we shall emphasize their specific issues and, eventually, we shall connect the two study methodologies to expose their components of discrepancy and proximity.

 

Keywords: History; Deconstruction; Criticism; Theoretical Philosophy; Epistemology.

 

  1. Premessa

Nel contesto della querelle epistemologica[1] intercorsa – e a oggi non completamente appianata – fra storici e decostruzionisti, concernente cioè l’evoluzione del pensiero storiografico contemporaneo e lo sviluppo di una parte della riflessione filosofica, ci siamo proposti di analizzare, sotto ai due profili epistemologici e teorico-critici, il metodo storico contemporaneo, da un lato, e l’attività filosofica decostruzionista dall’altro. L’intenzione è quella di approfondire il rapporto fra metodo storico critico e critica decostruzionista; mentre il nostro fine è di individuarne gli aspetti conflittuali, oppositivi ma, soprattutto, evidenziarne quelli collaborativi, cooperativi, che potrebbero innescare inediti spunti di riflessione e innervare con nuova linfa le due prospettive di ricerca.

Partiremo dalle ricognizioni di metodo storico e di decostruzione; ne sottolineeremo caratteristiche e questioni specifiche, per poi connettere le due metodologie di studio ed esplicitarne le componenti di discrepanza e vicinanza.

Gli interrogativi dai quali prendiamo le mosse sono quelli posti dall’esperto di storia e cultura medievale Tommaso Di Carpegna Falconieri, che, nel suo Medioevo, quante storie! Fra divagazioni preziose e ragioni dellesistenza[2], si impegna in una utilissima ricostruzione dei rapporti intercorsi tra metodo storico e decostruzionismo. Seguiamone, da vicino, alcuni passaggi.

In primo luogo, Di Carpegna Falconieri riporta all’attenzione i quesiti più pressanti sui quali, da anni, storici, linguisti, semiologici e filosofi dibattono:

la storia è una scienza o un’arte retorica? Qual è la distanza tra il saggio e il romanzo storico? Qual è il confine tra ricerca e invenzione? La parola, che non era stata pronunciata e che tuttavia si distendeva nel sottofondo del nostro discorso, era decostruzionismo[3].

Per poi proseguire con una efficace ricognizione della disputa fra decostruzionisti e storici, stando alla quale:

secondo i filosofi decostruttivisti la fonte storica e la ricostruzione di un fatto operata da uno storico sono entrambi solamente testi, cioè discorsi costruiti secondo codici linguistici e comunicativi svincolati dalla realtà. Il che significa che non vi è una relazione di realtà tra il fatto e i suoi racconti e che non vi è nulla al di fuori del testo: «Il ny a pas de hors-texte» (Jacques Derrida)[4].

Pertanto, commenta lo studioso:

La ricaduta delle teorie decostruzioniste sul modo di pensare e poi di usare la storia è notevolissima. Infatti, partendo dal presupposto che il dato reale sia comunque inattingibile, la storiografia viene privata del suo statuto di scientificità e viene ricondotta a un’arte retorica[5].

A sostegno delle riflessioni proposte da Tommaso di Carpegna Falconieri, troviamo il notevole volume di Sandro Rogari[6], apertamente impegnato nel processo di «difesa» della storia come scienza sociale e, come tale, in grado di fornire verità, sia pure parziali e relative.

L’Autore passa in rassegna gli attacchi a cui viene sottoposta la storia, dedicando spazio all’assalto proveniente da taluni ambienti filosofici e, in particolar modo, da quello decostruzionista:

L’attacco si può sintetizzare nella tesi della non conoscibilità del passato come realtà obiettiva. Questa tesi mina l’assunto per cui, tramite la ricerca sulle fonti, lo storico possa giungere ad acquisire verità, sia pure circoscritte e limitate, come del resto sono quelle di ogni altro campo dello scibile umano. È pleonastico sottolineare che questa tesi, elaborata da dotti filosofi, esaspera la soggettività del lavoro dello storico[7].

E ancora, precisamente nel merito di questo contesto epistemologico, si è andata sviluppando la tesi secondo la quale «la trama della narrazione storica risponde agli artifici retorici che il soggetto narrante, lo storico, conferisce al suo racconto»[8].

Stando alla ricognizione operata da Rogari, gli esponenti di questa teoria storiografica, tra i quali figura Hayden White[9], non contestano «il valore del lavoro che lo storico fa rovistando negli archivi e acquisendo documentazione a sostegno della ricostruzione del passato»[10]. Tuttavia questi negano de facto «che il risultato del lavoro abbia un valore oggettivo»[11]. Per autori come White, dunque, il lavoro dello storico consiste piuttosto in un elaborato:

che intreccia vuoti e pieni, ossia dati documentari e assenza di documenti, quindi vuoto conoscitivo, inseguendo un principio di consequenzialità narrativa che è un mito soggettivo che non corrisponde alla consequenzialità obiettiva di eventi e processi. Senza considerare, poi, che anche i documenti reperiti e dei quali lo storico si avvale sono a loro volta frutto di una selezione[12].

L’approccio storico «decostruzionista», ammonisce Rogari, profila «un soggettivismo estremo che porta fino all’annientamento del lavoro dello storico come scopritore di verità storiche, se pure di natura relativa»[13], in ragione del fatto che «tutto l’accento è posto sulla rappresentazione operata dallo storico»[14].

Ora, l’integrazione che si siamo proposti di sostenere non intende minare in alcun modo lo statuto della storia in quanto scienza sociale, né, d’altro canto, abilitare in questo senso l’attività decostruzionista. È nostro interesse tentare di argomentare in favore di una divisione meno netta, che merita di essere sfumata: questa integrazione non concerne, infatti, primariamente l’orizzonte epistemologico, bensì quello delle finalità, della prospettiva critica che, sia storici che decostruzionisti, a nostro parere, dovrebbero condividere.

Secondo lo studioso Marcello Mustè, del quale riportiamo le stringenti affermazioni, «la scienza storica può oggi recuperare il suo ruolo critico, ristretto ma indispensabile, che consiste sostanzialmente nella cura della conoscenza e nella ricerca della verità»[15]. E ancora: «La conoscenza rigorosa del passato costituisce l’obiettivo fondamentale della ricerca storica»[16]. Lo storico, prosegue Mustè:

entra in contatto con i segni del ricordo per il tramite di frammentari documenti, labili tracce e problematiche testimonianze, che in effetti sono spesso costituite da memorie, autobiografie, resoconti di cose viste e ascoltate[17].

La decostruzione consiste anzitutto nell’assumere che un determinato insieme di dati ci perviene in maniera fortemente opaca. Il punto, quindi, non sta nell’assimilare il dato a qualcosa di irraggiungibile per definizione, ma nel constatarne la mancanza d’immediata chiarezza[18].

Di nuovo: ciò che trattiamo come chiaro, non lo è affatto. Volendo utilizzare un’espressiva figura rappresentante, potremmo dire che, in filosofia come in storia, il decostruzionismo solleva della polvere da terra, graffia e raschia tra le fenditure e le intersezioni di un piano.

D’altro canto – e torniamo alle feconde osservazioni sviluppate da Di Carpegna Falconieri – sappiamo che:

raccontare una storia significa creare un ordine, cioè classificare la realtà secondo il nostro metro. Ma siamo anche convinti che il dato di realtà sia accessibile e che l’obiettività sia un risultato cui si deve tendere[19].

 

  1. Metodo storico ed ermeneutica decostruzionista

È proprio questo aspetto a innervare il lavoro del decostruzionista: la consapevolezza, cioè, che qualsiasi ordine è stato stabilito in base a complessi fattori particolari, che vanno analizzati e, se necessario, ricomposti provvisoriamente secondo un’inedita articolazione, un inedito sviluppo. «Dunque un dato reale è raggiungibile», afferma lo storico; «ma per raggiungerlo dovremmo intraprendere percorsi alternativi, strade minori, secondarie» – aggiunge il decostruzionista, concludendo con il corollario secondo il quale occorre stare in agguato rispetto a ogni percorso, in quanto ogni percorso si articola a partire da specifiche strutture che andrebbero verificate o, meglio, fatte emergere.

Dichiarando che non è possibile raggiungere il dato reale si dichiara al contempo che non vi è più certezza degli accadimenti, che non vi è gerarchia delle interpretazioni, le quali tutte finiscono con l’equivalersi, che non esiste un confine oggettivo tra realtà e finzione, che dunque qualsiasi revisionismo diviene possibile e che, di conseguenza, sarebbe per esempio credibile anche il negazionismo come interpretazione storicamente fondata[20].

D’altra parte, come suggeriscono gli storici, dovremmo ripartire da un principio epistemologico evidente: ci sono fatti storici dei quali possiamo attestare la veridicità – e che non possiamo non riconoscere come veri – e fatti dei quali non possiamo verificare il reale accadimento.

Al contrario, ciò che non dovremmo fare, è assumere che le nostre interpretazioni – quand’anche esse si rivelino fondate su indagini estremamente accurate e verificate – siano immutabili.

La soluzione sta nel ribadire che la storiografia, pur con tutti i suoi limiti, è una disciplina il cui fine non è inventare e mentire, ma ricostruire criticamente le vicende umane nei loro processi diacronici e che dunque negare un accadimento di cui permangono tracce e testimonianze non è un atto scientifico, non è storia[21].

Decostruire è ricostruire criticamente, è far vacillare o smantellare; è ricomporre secondo criteri e strutture inedite, inascoltate, taciute. Decostruendo, e cioè attraverso la ricostruzione-(ri)produzione di un articolatissimo e vertiginoso itinerario etimologico, filosofico, linguistico, logico, sociologico e, non in ultimo, storico, i teorici decostruzionisti si propongono di enucleare meticolosamente contraddizioni, contraffazioni, paradossi, retaggi, sottotraccia, voltafaccia di un concetto, di un nome, di una parola, di un insieme o mondo semantico. Di un testo.

A questo proposito, leggiamo una definizione formulata dal filosofo francese Jean-Luc Nancy, secondo il quale: «“Decostruire” significa […] smontare ciò che si è edificato sugli inizi per lasciare arrivare ciò che si scava sotto di essi»[22]. Anche a detta del celebre storico Jacques Le Goff:

il carattere del materiale storico non è mai innocuo e oggettivo, ma ha sempre una natura “monumentale”, è sempre il risultato di una manipolazione, di un montaggio, consapevole o inconsapevole, compiuto dalle società che lo hanno prodotto e dalle epoche successive. Non esiste – incalza lo studioso – un “documento-verità”.[23].

L’ermeneutica decostruzionista pensa una tradizione non come un insieme coerente di “scritture” a noi simultanee e trasparenti, ma come una struttura dinamica prodotta da cesure, discontinuità, non trasparenze. Nei fatti, la decostruzione si occupa dell’analisi degli intervalli di una traditio. Principio del decostruzionismo è: gli oggetti della interpretazione e, cioè, i testi, le iscrizioni, i concetti, pervengono in una condizione di opaca materialità. Essi sono tracce non presentificabili. Il compito della decostruzione – l’obiettivo primario – consisterà allora nel pensare la differenza, pensare la distanza che separa la nostra interpretazione dagli oggetti a cui ci accostiamo. Il procedere decostruttivo in qualità di attività filosofica diviene un domandare senza risposte perentorie, ma non privo di effetti. Nel rilevamento, di volta in volta, della incommensurabilità del comprendere rispetto all’oggetto della comprensione, i segni e le tracce dei concatenamenti di realtà mai pianamente intellegibili. Mai pienamente pensati; mai pienamente descritti.

Da un punto di vista epistemologico e, più precisamente, in riferimento al trascendentale kantiano, potremmo sostenere l’affermazione secondo la quale il filosofo decostruzionista concepisce l’analisi delle condizioni di possibilità dell’esperienza come la rivelazione dei nodi nevrotici che la regolano, che ci siano più o meno noti, che siano più o meno voluti. Dunque, ancora in relazione – e in opposizione – a Kant e al trascendentale come descrizione dei presupposti e dei requisiti che regolano il nostro rapporto con il mondo, ciò che Derrida, per primo, ha chiamato “decostruzione”:

consiste nel tentativo, condotto attraverso la lettura di testi della tradizione, di esplicitare le contrapposizioni del discorso filosofico, mettendo in luce le rimozioni su cui si istituiscono, i giudizi di valore che incorporano spesso inavvertitamente o almeno implicitamente, e dunque di rivelare la struttura totale della nostra razionalità, che si manifesta piuttosto in negativo che non in positivo, attraverso delle resistenze invece che in tavole delle categorie. Derrida ha sottolineato, a buon diritto, che la decostruzione è anche costruzione. In effetti, ne è la prosecuzione con altri mezzi, quelli del giudizio riflettente che prende il posto del giudizio determinante: invece di partire dalle strutture per venire al dato, si parte dal dato, e si rivelano le strutture e le condizioni che lo determinano. La regola generale è che dove c’è esperienza c’è resistenza, e dove c’è resistenza c’è anche, da qualche parte, un apriori nascosto[24].

Per quanto possa configurarsi debole o mobile, la tensione etico-politica è costantemente alla guida del lavoro. Se ogni emancipazione e ogni rischiaramento portano con loro nuove rimozioni e nuovi taciuti, compito del filosofo sarà quello di segnalare queste rimozioni concettuali e storiche, materiali. Ma ben al di là dell’attività critica, la decostruzione ci porta dove le questioni si mostrano irresolubili; dove l’apertura stessa della domanda non è più pienamente padroneggiata.

La pratica decostruttiva tenta di farci vedere come ogni percorso di illuminazione sia sempre parziale, laterale, e che occorre sempre ricominciare, spostandosi, non per accumulare pian piano nuove conoscenze, ma per mostrare ogni volta le incrinature che attraversano ciò che, a una luce diretta, appare compatto, pienamente chiaro e determinato. Non si tratta semplicemente di distruggere, ma di far emergere le strutture portanti: ecco perché Derrida, nel tradurre e adottare il termine déconstrution[25], optò in favore di un lemma più debole e meno annichilente, il quale intrattiene un rapporto semanticamente più stretto con la parola costruzione. Derrida denominò decostruzione l’attività filosofica di analisi interminabile delle condizioni di possibilità che appaiono in negativo, attraverso resistenze e rimozioni – non ne offrì mai una definizione compiuta.

La decostruzione derridiana si avvale di «uso enfatico e deviante del principio ermeneutico della sola scriptura»[26], scrittura il quale referente principale è altra scrittura: tradizione filosofica, metafisica, politica, religiosa, artistica, ecc. In una parola: concetti; concetti all’interno di un ordine del discorso. Dunque, nonostante la decostruzione sia un’attività strettamente teoretica, la portata dei suoi effetti è essenzialmente e primariamente critica: una critica applicata a una scrittura che altrimenti saremmo portati a leggere come omogena, trasparente e traducibile e che, soprattutto, saremmo pronti ad accogliere senza scrutarne gli aspetti residuali e non esplicitati. E questa fondamentale componente non è una differente riproposizione dell’ermeneutica della scuola del sospetto[27].

La critica del decostruzionismo non prende le mosse dalla volontà di scoperchiare una tradizione per liberarne il senso autentico, la verità essenziale. Il decostruzionismo si occupa di emancipazione, in qualche modo. Di affrancamento. E di affrancamento linguistico, soprattutto. Di deflagrazione di significanti e significati.

Ciò che i decostruzionisti mettono in atto è un complicato lavoro della lingua con la lingua, della lingua su se stessa. Il fine è quello della creazione di un nuovo luogo di scrittura attraverso il quale articolare un inedito rapporto tra esperienze (gli avvenimenti) e i concetti. In tal senso, la trasformazione semantica rappresenta una delle modalità di rapportarsi alle strutture del reale e, più precisamente, una modalità di rilevare alcune insufficienze nelle categorie che regolano il nostro spazio mentale o il nostro modo di rapportarci a quelle stesse strutture del mondo che vorremmo descrivere.

Il lavoro teoretico non rappresenta soltanto uno straniamento dalla modalità di pensiero “corretta”, ma si pone in una prospettiva sperimentale, cioè critica e inventiva a un tempo.

L’attività filosofica decostruzionista si muove nel gioco e nella trasformazione linguistica, nell’invenzione semantica entro quelle stesse scritture, per sospenderne o indebolirne la perentorietà; per rilevarne i non pensati e i taciuti; per scioglierne i tratti inflessibili. Funzione critica della decostruzione è slegare, dissolvere e intervallare i modelli istituiti di interpretazione attraverso l’introduzione di scarti o margini di gioco, dove per margini di gioco intendiamo, anzitutto, l’utilizzo di un tipo di scrittura dal carattere fortemente non ostensivo.

Testi, documenti, oggetti sociali, concetti, sono il terreno di indagine nel quale individuare le categorie da decostruire, esaminare e ricostruire teoreticamente. Tuttavia, l’ermeneutica decostruzionista è pienamente consapevole che le sue operazioni riusciranno a dire – ricostruire – un senso, una storia, in maniera fortemente incompleta.

Questo, se vogliamo, è anche l’aspetto più interessante del processo decostruttivo: la fecondità di un’analisi viene prima della sua verità o, meglio, prima dell’accettazione o del rifiuto dell’analisi stessa. Nella decostruzione è più importante il segmento conoscitivo che percorriamo che il punto di arrivo, specialmente se quel punto è pensato per essere definitivo. Il valore della fertilità delle aporie di fronte alle quali l’analisi ci pone è prioritario rispetto alla possibilità di chiudere il cerchio.

La decostruzione si propone in qualità di dispositivo che permette di sottoporre ad analisi; di verificare in quale modo e attraverso quali stratificazioni di senso determinati concetti sono entrati a far parte del nostro background cognitivo e storico-filosofico. L’analisi può articolarsi nella critica culturale, nella ricostruzione etimologica e terminologica, in quella filologica, in quella della storia della filosofia o in quella logica, ecc. La decostruzione richiama qualcosa che è nell’ordine di un agire e che suggerisce l’immagine di una filosofia in rapporto problematico con se stessa, che si interroga e che si incalza inesauribilmente.

 

  1. Conclusioni

 

Se ogni documento è potenzialmente menzognero, il compito prioritario dello storico risiederà nella “destrutturazione” del documento stesso, nella «sua critica in quanto monumento e risultato di un complicato processo di manipolazioni e deformazioni»[28].

In questo senso, le tesi di Le Goff collimano con quelle dei teorici decostruzionisti e critici-genealogici, Derrida e Foucault su tutti: «bisogna anzitutto smontare, demolire quel montaggio, destrutturare quella costruzione e analizzare le condizioni in cui sono stati prodotti quei documenti-monumenti»[29].

Pertanto, in ambito storiografico, al pari del decostruzionista, Le Goff si relaziona al materiale di studio, e nel suo caso storico, come a un oggetto complesso, lavorandolo dall’interno ed elaborandolo, organizzandolo.

Insomma, nelle intenzioni del metodo critico c’è, anzitutto, quella di assicurare «un livello di verifica empirica al discorso storico, che rende controllabili dalla comunità scientifica le sue singole asserzioni»[30]. Proprio per questa ragione:

nella teoria della storiografia si usa dire che il “riferimento” delle proposizioni che riguardano il passato non consiste nei fatti o nelle fonti come tali: esso consiste, piuttosto, nella procedura critica stessa, che lo storico esibisce come prova della validità delle sue affermazioni[31].

Lo storico e il decostruzionista condividono perciò il medesimo interesse per la ricostruzione critica delle narrazioni: da una parte avvenimenti, dati e fatti materiali, dall’altra categorie, concetti, tradizioni di pensiero con risvolti materiali. Lo storico e il filosofo dovrebbero intrattenere un duetto, non un duello.

Si pensi al fatto che i filosofi decostruzionisti sono, a ben vedere, storici della filosofia, ovvero ricercatori e interpreti di concetti all’interno di tradizioni scritte. In questo senso, la filosofia non farebbe altro che lavorare all’interno delle tradizioni di pensiero, tentando di vivificare il dibattito rilanciandone le categorie.

Lo storico, d’altro canto, si preoccupa di risalire criticamente e di ricostruire un avvenimento del passato con le fonti di cui dispone, al pari di un filosofo del linguaggio, che tenta di verificare il contenuto di una proposizione, che a sua volta consiste in una formalizzazione arbitraria ma condivisa della realtà fenomenica.

Il torto che il decostruzionista ha operato nei confronti dello storico non consiste che in questo: se i testi pervengono in condizioni opache, perché sofisticati da modalità di letture “interessate”, con profondi risvolti etici e politici, il suo compito consisterà nel riesaminare non solo i documenti pervenutici, ma anche e soprattutto i risultati e le interpretazioni storiche – prodotte del lavoro degli storici – che si sono succedute.

Secondo il decostruzionista, le letture vengono prodotte con discernimenti orientati da questo o da quel determinato interesse particolare[32].

Lo storico, dunque, non potrà prescindere dallo studio del pensiero filosofico o della storia dell’arte e, più in generale, dal contesto culturale di un determinato periodo. Allo stesso modo, il decostruzionista (o lo storico della filosofia) non potrà fare a meno di conoscere, in maniera profonda, il contesto storico, politico, sociale ed economico del quale intende decostruire le categorie di pensiero.

Dal recente libro Il mestiere di pensare[33] di Diego Marconi, ricaviamo importanti indicazioni in merito all’operatività di una certa parte della filosofia continentale, quella che l’Autore chiama, appunto, genealogia. Seguiamo da vicino la ricostruzione di Marconi:

L’effetto della decostruzione genealogica è la perdita dell’innocenza nei confronti di un concetto, modello o problema: esso non ci appare più come un tratto necessario del nostro panorama concettuale, o come l’unico modo di render conto di certi fenomeni. Che le ricostruzioni genetiche abbiamo questa efficacia, o possano averla, sembra chiaro[34].

E ancora:

la genealogia è efficace prima di tutto perché costruisce uno spazio di possibilità concrete intorno all’alternativa risultata vincente, e quindi ne fa di nuovo oggetto di scelta; poi perché sostituisce all’oggettività della “cosa” (che è comunque “là fuori”, e che si tratta solo di interpretare in un modo o in un altro) l’oggettività dell’istituzione, che certo appartiene al mondo reale, essendo stata costruita da esseri umani, ma prima non c’era, e perciò non è da sempre, né necessariamente per sempre[35].

Nella condivisione di un background scientifico e culturale molto simile[36], e all’interno del quale le operatività si esplicano attraverso metodologie diverse, storia critica e decostruzionismo condividono non poche affinità, partecipano a delle intenzioni comuni: la ricostruzione critica di una storia (fattuale o concettuale).

È evidente che, se gli esiti non sempre convergono, la volontà che muove gli studiosi dovrebbe ragionevolmente coincidere, quanto meno, in vista di una collaborazione proficua nella ricerca delle verità.

 


Bibliografia 

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  • , The Content of the Form: Narrative Discourse and Historical Representation, The John Hopkins University Press, Baltimora 1987.

Note

[1] Cfr. P. Fazzi, Narrare la storia: la lezione di Jerzy Topolski, in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», “Costruire. Rappresentazioni, relazioni, comunità”, 2015, n. 22 [http://www.studistorici.com/wp-content/uploads/2015/06/11_FAZZI.pdf (28.12.2018)], pp. 1-14: «In questo scenario, la lezione di Jerzy Topolski (1997) è da cogliere come il tentativo di sistematizzazione del lavoro dello storico, una costruttiva mediazione tra due poli opposti: dallo scientismo positivista, ancorato ai suoi modelli nomologici, che assegna all’attività storiografica un posto fra le scienze esatte, al decostruzionismo, che riduce il testo a pura costruzione linguistica, in un percorso di ricerca privo della nozione di “verità” e, dunque, senza rispondenza alcuna con la realtà» (pp. 1-2).

[2] Cfr. T. Di Carpegna Falconieri, Medioevo, quante storie! Fra divagazioni preziose e ragioni dellesistenza, in I. Lori Sanfilippo (ed.), Medioevo. Quante storie, Atti della V Settimana di Studi Medievali, “130 anni di storie”, Giornata conclusiva (Roma, 21-23 maggio 2013), Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 2014, pp. 109-137.

[3] Ivi, p. 113.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 114.

[6] Cfr. S. Rogari, La scienza storica. Principi, metodi e percorsi di ricerca, Utet – De Agostini, Novara 2013; in particolar modo, si faccia riferimento alle pp. 81-83 e alle pp. 95-101.

[7] Ivi, pp. IX-X, con leggere modifiche.

[8] Ivi, p. 82.

[9] Cfr. H. White, Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth Century Europe, The John Hopkins University Press, Baltimora 1973 e, dello stesso autore, The Content of the Form: Narrative Discourse and Historical Representation, The John Hopkins University Press, Baltimora 1987.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem, con leggere modifiche.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 83.

[14] Ivi, p. 96.

[15] M. Mustè, La storia: teoria e metodi, Carocci, Roma 2006 [Ia ed. 2005], p. 8.

[16] Ivi, p. 10.

[17] Ibidem.

[18] In questo senso, il lavoro di C. Ginzburg e, in particolare, il testo dal titolo Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, Einaudi, Torino 1976, si rivela fondamentale; cfr. P. Fazzi, Narrare la storia: la lezione di Jerzy Topolski, cit.: «tra documento e racconto, vi è un rapporto più sottile e intricato. La narrazione incorpora ed esplicita gli ostacoli, le tecniche, le implicazioni insite nel processo della ricerca, lascia trasparire la funzione di “filtri e intermediari deformanti” che a volte i documenti hanno. Essa, in breve, non coincide sic et simpliciter con l’intramazione retorica o non è solo riducibile ad aspetti stilistici, ma riflette il processo della ricerca, denunciando il valore ideologico, a volte occultante, della documentazione» (p. 8).

[19] T. Di Carpegna Falconieri, Medioevo, quante storie! Fra divagazioni preziose e ragioni dell’esistenza, cit., p. 116.

[20] Ivi, p. 120.

[21] Ivi, pp. 120-121.

[22] J.-L. Nancy, Filosofia senza condizioni [Philosophie sans Conditions], in C. Ramond (ed.), Alain Badiou. Penser le multiple, Actes du Colloque de Bordeaux 21-23 octobre 1999, Paris, L’Harmattan, Paris 2002, pp. 65-79 ; tr. it., Filosofia senza condizioni, in J.-L. Nancy, F. De Petra (eds.), Politica e «essere-con». Saggi, conferenze, conversazioni, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 153.

[23] Cfr. J. Le Goff, Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982 [voci “Memoria” e “Storia” pubblicate originariamente in R. Romano (ed.), Enciclopedia Einaudi, vol. VIII, vol. XIII, Einaudi, Torino 1977-1984]; riportiamo il passaggio citato in M. Mustè, La storia: teoria e metodi, cit., pp. 21-22, con leggere modifiche.

[24] M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2008 [Ia ed. 2003], p. 55, con leggere modifiche.

[25] La comparsa del termine déconstrution si deve al testo di J. Derrida, De la grammatologie, Les Éditions de Minuit, Paris 1967; tr. it., Della grammatologia, di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Jaca Book, Milano 1998 [Ia ed. it. 1968] all’interno del quale viene proposto come la traduzione di Destruktion (o Abbau, cioè “destrutturazione”) della tradizione metafisica occidentale, tematizzata da Heidegger prima in Problemi fondamentali della fenomenologia, corso del semestre invernale 1919/20 presso la facoltà di Filosofia dell’Università di Friburgo, poi in Essere e tempo del 1927.

[26] M. Ferraris, Invecchiamento della scuola del sospetto”, in G. Vattimo, P. A. Rovatti (eds.), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2011 [Ia ed. it. 1983], pp. 120-136: p 133.

[27] L’atteggiamento “smascherante” ascritto alla triade Marx-Nietzsche-Freud da P. Ricoeur, De linterprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris 1965 ; tr. it., Della interpretazione. Saggio su Freud, di E. Renzi, il Saggiatore, Milano 1966, consiste, in buona sostanza, nella demistificazione programmatica e radicale e, più precisamente, nella posizione che vede nel “pensare” un interpretare. Tradizioni, idee ricevute, ideologie sarebbero ingannevoli e, per di più, la stessa nozione di verità risulterebbe il prodotto di una stratificazione storica, frutto degli attriti del pensiero interessato e teso al potere. Questa, in estrema sintesi, l’ermeneutica della cosiddetta «scuola del sospetto».

[28] M. Mustè, La storia: teoria e metodi, cit., p. 22.

[29] Cfr. J. Le Goff, Storia e memoria, cit., p. 455; riportiamo il passaggio citato in M. Mustè, La storia: teoria e metodi, cit., p. 22.

[30] Ivi, p. 31.

[31] Ibidem.

[32] Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit.: il caso esemplare, com’è noto, è quello della supremazia della voce sulla scrittura. Il “logocentrisimo” (“metafisica della scrittura fonetica”) si oppone alla scrittura intesa come l’insieme dei segni che esteriorizzano e corrompono il significato puro. Secondo Derrida, questa dicotomia caratterizza il pensiero filosofico occidentale. Il “logocentrismo” traina con sé il primato dell’anima sul corpo, dello spirituale sul materiale, dell’incorruttibile sul corruttibile, della continenza sulla sensualità ecc.

[33] Cfr. D. Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014.

[34] Ivi, p. 140.

[35] Ivi, p. 143.

[36] Per esempio, a oggi, in Italia, la classe di concorso per l’insegnamento delle discipline filosofiche e storiche nelle Scuole Secondarie di Secondo Grado è la medesima (A019, filosofia e storia). Cfr. con la Tabella A del D.P.R. del 14 febbraio 2016, n. 19, in merito alle «disposizioni per la razionalizzazione ed accorpamento delle classi di concorso a cattedre e a posti di insegnamento»: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/02/22/16G00026/sg (28.12.2018).

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