Lo stato d’eccezione per Paolo Virno

Pasquale Amato

Premessa

Questo lavoro prende spunto da due suggestioni: la prima fa da sfondo, e viene dalle lezioni del corso di Filosofia Politica tenuto da Federica Giardini nel primo semestre dell’Anno accademico 2012-13 (Università Roma Tre, Facoltà di Filosofia), un percorso che mi ha aiutato a comprendere meglio il malessere che da tempo vivo (come tutti, penso) per la situazione socio-politica del Paese; l’altra è legata al fascino di Antigone e della storia che Sofocle ci racconta, con il ventaglio dei suoi tanti e diversi piani di lettura.

Scelgo, per il mio tentativo, di riferirmi ad alcuni dei temi – secondo me i più significativi – della lezione del 14 gennaio 2013, e di integrarli poi con una breve analisi dell’Antigone. A quella lezione, la docente invitò Paolo Virno (Università Roma Tre, Filosofia del Linguaggio) per dare il suo contributo alla riflessione su “La crisi della misura”.

 

Introduzione

L’assunto preliminare è che, ovunque si dia una crisi della misura – o, più specificamente, una crisi dell’unità di misura –, si segnala uno stato di eccezione.

In generale, mi sembra valida la definizione di Giorgio Agamben[1] (autore caro a Virno) che, ritenendo lo stato d’eccezione attualmente molto diffuso, lo analizza come vuoto giuridico, come ius-stitium paradossale, come sospensione del diritto legalizzata, e perciò differente dalla dittatura[2]. Virno, però, ne amplia l’analisi rivolgendo l’attenzione a quella che chiama “la collezione”, alle relazioni interne, cioè, tra diverse accezioni che vari pensatori hanno proposto di tale espressione.

Cercherò di cogliere i punti salienti della pregiata esposizione, con la speranza che la mia sintesi ne renda sufficientemente ragione, consentendomi poi di individuare, alla luce degli impulsi riflessivi raccolti, le possibili connessioni all’Antigone.

Ammesso che io riesca nel mio intento, la lettura della tragedia di Sofocle, già proposta dalla professoressa Giardini, anche con illuminanti riferimenti ermeneutici a Benveniste, potrà così risultare ulteriormente arricchita.

 

Lo stato d’eccezione

Eludo la sequenza espositiva di Virno, propongo il seguente schema, e prendo il via dal pensiero di Hobbes[3], che ipotizza uno stato di natura in cui gli uomini, non ancora associati fra loro, né disciplinati da un apparato governativo e da leggi, sono in guerra, ognuno contro tutti: bellum omnium contra omnes; homo homini lupus[4].

Ma lo stato di natura non è quello ferino, osserva Virno, non è il mondo delle pulsioni pre-linguistiche o pre-razionali. È invece una condizione equivalente a quella che Wittgenstein[5] e Schmitt[6] chiamano, rispettivamente, regolarità e normalità; è il presupposto dello stato civile, della condizione in cui le regole sono positivamente determinate e la loro applicazione più o meno omogenea.

Richiamando Wittgenstein, la regolarità è “il modo comune di comportarsi degli esseri umani”[7], i desideri e le attitudini da cui derivano i comportamenti pre-regolativi, un criterio di orientamento ispirato a quel che accade per lo più. E dunque, la regolarità è il sottofondo antropologico di qualsiasi regola positivamente definita.

Schmitt, anziché di regola, parla di norma e, conseguentemente, di normalità, cioè della “normale strutturazione dei rapporti di vita”[8].

I due pensatori concordano nell’affermare che la regola/norma si applica, in una condizione di stato civile, in modo omogeneo, perché la prassi, le istituzioni, ci hanno addestrato socialmente a questo; può accadere, però – e accade nello stato di eccezione – che la regola, l’unità di misura, venga applicata in maniere difformi. Entrambi concepiscono questo iato antropologico tra unità di misura e loro applicazione, tra regole e loro realizzazione concreta, e con parole simili mettono a fuoco la crisi della misura. Wittgenstein, per esempio, dice che nello stato di eccezione, nella crisi della misura, il criterio diventa paradossale, diventa dismisura.

Lo stato di eccezione, dunque, è quello che fa emergere, che spinge in primo piano la regolarità della vita umana, che di solito, al contrario, sta sullo sfondo. Nella crisi della misura, perciò, si torna a quella che è la matrice di ogni nostra possibile regola, ai comportamenti, alle aspettative, ai desideri, a quel carattere pre-giuridico su cui si deve far conto per la definizione di ogni nuova norma.

E, tirando le fila, Virno aggiunge: lo stato di eccezione è la sospensione delle norme usuali, sospensione che lascia affiorare la normalità di pratiche, usi, rapporti, inclinazioni, conflitti. È qualcosa di diverso dalla anarchia e dal caos, e allora non è vuoto, anzi, è quanto mai gremito di cose che nello stato ordinario non si vedevano: quello che Agamben definisce un vuoto giuridico, ci appare ora come un pieno antropologico. In più, si mostra rivelativo di un ordinamento, non giuridico, che consiste nel modo di comportarsi comune degli uomini (Wittgenstein), nella strutturazione normale dei rapporti di vita (Schmitt). Un ordinamento che prova a tener conto dell’amor proprio, della rivalità, delle istanze di sopravvivenza, cioè degli elementi basilari senza cui, semplicemente, la nostra forma di vita non sarebbe quello che è, non sarebbe una forma di vita umana.

Credo sia importante, a questo punto e prima di andare avanti, inserire una postilla che deve servire da chiave di lettura. Questo scritto isola una componente significativa dal quadro generale del corso, ma è in riferimento all’insieme che va interpretato; si potrebbe essere portati, altrimenti, ad assimilare l’idea di misura, o di unità di misura, alla dimensione della legge scritta, della norma istituzionale. In realtà, invece, Giardini ci ha efficacemente insegnato che la misura è un “operatore di scambio”, un “connettore” che mette in relazione tra loro sfere diverse (pubbliche, collettive, sociali, ecc.). L’operatore di scambio può attribuire valore o disvalore, rendere visibile o invisibile lo stesso soggetto appartenente a un qualsiasi ambito e, nella dimensione temporale, rendere rilevante o irrilevante l’aspettativa di valori o disvalori. In quanto tale, la misura si determina secondo criteri, secondo principi che mutano storicamente, che agiscono a livello linguistico, nell’ambito del discorso pubblico: la misura diventa perciò dispositivo, discorso pubblico che organizza, che seleziona, che orienta.

Attribuire valore, valutare, non è mai un atto individuale, è sempre un’operazione collettiva – persino il proprio giudizio personale, sottolinea Giardini, è necessariamente confinato entro coordinate collettive –, e la storicità implicita in ogni cultura, dunque, contribuisce alla creazione di valori, di criteri per gli operatori che stabiliscono il regime di scambio e di valutazione, contribuisce cioè alla definizione della misura.

Ancora: noi non siamo agenti esterni che applicano la misura, siamo anzi strettamente implicati nel suo funzionamento, ci stiamo dentro. E allora, questa famiglia di principi che sono assunti a regole interne dello scambio tra realtà diverse, viene “naturalizzata”, assume una sorta di oggettività riconosciuta, diviene ciò che è naturale, ciò che è vero, ciò che non può essere altrimenti. Non parlerò, ora, del lavoro di svelamento e denaturalizzazione (termine al quale Foucault affida il senso del togliere necessità al funzionamento dell’operatore in cui siamo immersi) sottinteso a tutto lo sviluppo del corso, ma sarà interessante, forse in futuro, approfondirlo.

Concludo questo inciso, evidenziando che Virno sicuramente teneva in conto tali considerazioni sulla misura, qui sinteticamente riportate, quando all’inizio del suo intervento, in scioltezza, nel premettere che avrebbe usato regola come sinonimo di misura e di unità di misura, puntualizzava: regola e non norma, perché norma è un’accezione più specifica, più calcata, più particolare, più inclinata di regola, che è invece di maggiore e più ampia portata. E, nel richiamare le caratteristiche della regola (o unità di misura), compendiava: la misura, sia pure provvisoriamente, sancisce, fissa storicamente che cosa è corretto o scorretto, giusto o sbagliato e, in alcuni casi, vero o falso.

La forma di stato di eccezione da cui Virno prende il via è quella dei rapporti di produzione, individuata da Marx[9] nel cosiddetto Frammento sulle Macchine[10]. Marx osserva che i rapporti sociali di produzione, nell’economia moderna, hanno avuto come misura il tempo di lavoro, cioè il tempo erogato per produrre una determinata merce, tempo incorporato in quella merce in quanto ne definiva il valore. Alla fine dell’800, quella misura salta, entra in crisi: diventa effettivamente, materialmente rilevante, non più il tempo newtoniano (omogeneo, uguale a se stesso, sia esso usato dall’operaio, dal raccoglitore di frutta o dall’impiegato), ma la cooperazione linguistica, il sapere e la scienza. Queste, dice Marx, sono ora le principali forze produttive e, fin dall’inizio, sono da considerare totalmente sociali, sovra individuali, non riconducibili al singolo. Ciò che davvero conta è la qualità della cooperazione sociale, in termini di informazione, di comunicazione, di pensiero, cioè di quei beni che sono beni comuni, più dell’acqua. Ma è tipico del capitalismo, ammonisce Marx, continuare, nella nuova realtà la cui forza produttiva è il logos – sinonimo di pensiero, di cooperazione sociale, di cultura –, nella società del General intellect[11], a usare la vecchia unità di misura, e a calcolare la ricchezza in segmenti di tempo vuoto newtoniano. La misura, così, diventa dis-misura, ed è questo, sostiene Virno, il nostro ingresso in uno stato di opacità tuttora vigente, che possiamo considerare come lo stato di eccezione permanente.

Viviamo, oggi, in un frattanto, in quel lungo spazio temporale compreso tra un non-più e un non-ancora, dove le vecchie regole persistono pur essendo “scadute”, dove le misure adeguate alla nuova realtà non sono state ancora formulate. Constatazione che associo al versante genealogico del nostro studio, dal quale Giardini richiama i diversi tributi di Nietzsche (cui affiancherei, come lui “maestri del sospetto”, Marx e Freud) e di Foucault. Giardini guarda al Novecento come al secolo in cui abbiamo abbandonato, perfino nelle scienze, l’illusione di criteri oggettivi di giudizio, in cui ci chiediamo se, totalmente implicati in ciò che osserviamo, sia possibile prenderne le distanze. Assecondando, poi, l’approccio denaturalizzante foucaultiano, inscriviamo le attuali contingenze tra le ripetizioni della storia, le storicizziamo. E valutiamo che le misure vigenti, connettori di sfere diverse della realtà, appaiono, alla luce dei mutamenti in atto in quegli ambiti, inadeguate e destinate a trasformazioni. C’è, dunque, il riferimento alla metamorfosi, c’è l’istanza storicizzante, ma c’è anche una implicita conflittualità. Queste le dinamiche, e noi – che ci stiamo dentro – possiamo, storicizzando e comprendendo mutamenti e conflitti, ritagliarci uno spazio di lettura e di interpretazione. Giardini conclude questo capitolo proponendo di superare, in un certo senso, Nietzsche e Foucault, la postura critica del loro approccio storicizzante, e da una dimensione storica ricollocata nel presente, per il presente, attingere a soluzioni del passato che ci suggeriscano strumenti, rappresentazioni, forme di organizzazione alternative e rinnovate.

Virno prosegue individuando, per lo stato di eccezione, i principali pensatori che, dai rispettivi punti di vista, ne propongono la lettura. Riconosce, tra gli altri, a De Martino[12], sulla base di quella che chiama apocalisse culturale[13], la disposizione a definirne il livello antropologico. L’unità dell’Io penso kantiano, base trascendentale dell’intera esperienza del soggetto, è friabile, e la formazione di ciò che ci rende umani può sempre recedere; Heidegger, d’altronde, dice che non c’è un Io che contempla il mondo, ma un Io sempre nel mondo compreso, coinvolto, e che questo essere nel mondo, stato di difetto, è motivo di sconfitte, di tracolli, di angoscia. De Martino incalza, e mostra che lo stesso essere nel mondo, risultato antropogenetico reversibile, è passibile di crisi. In alcuni casi, tale crisi della presenza – così De Martino la designa, traducendo con “presenza” il dasein heideggeriano – assume le forme tragiche della psicopatologia, ma più frequentemente si incarica di una sorta di contenimento del crollo conseguente alla regressione antropogenetica. Questa, che Virno assimila a una discesa all’inferno di carattere rituale, è l’apocalisse culturale, crisi ma anche rimedio e ripresa, perché si ricomincia a “giocare alla storia”, si determinano cioè nuove forme di socialità e nuove regole.

Virno annette poi al piano antropologico uno stato d’eccezione logico, esemplificandolo con il rumore che, nelle telecomunicazioni, si sovrappone al vero segnale, inquinandolo. Lo stato di eccezione logico interviene quando, nel nostro pensiero e nella nostra prassi, prevale quello che i Greci chiamavano ápeiron, cioè l’illimitato, l’impertinente. C’è un ápeiron esterno, contingente, che viene dalle circostanze della vita, rappresentato nella tragedia greca, per esempio, da una catena virtualmente illimitata di vendette; ma a noi interessa molto di più l’illimitato che parte da noi stessi, lo smisurato che il pensiero e la prassi umana subiscono, in una spirale che la logica chiama regresso all’infinito, quando l’apparente soluzione di un problema ci ripropone lo stesso problema in forma più sofisticata. Come accade nella condizione di angoscia, che Virno delinea come “la paura di aver paura di aver paura di aver paura” (l’elemento meta-discorsivo o meta-linguistico, in questi casi, è sempre presente), come una paura che è stata sottoposta al regresso all’infinito.

Ne Le Eumenidi di Eschilo, ricordiamo, la catena di vendette (ápeiron etico) viene spezzata con la prima istituzione, in Atene, di un tribunale guidato dalla dea Atena, e con il giudizio sul matricidio di Oreste. Una decisione, dunque, tronca l’ápeiron e determina una nuova situazione. E la decisione è, anche rispetto agli esempi di regresso all’infinito con i quali abbiamo presentato (attenzione, non l’eccezione, ma) il regime medio della prassi umana, la risorsa adattativa di qualsiasi, dice Virno, sciaguratissima creatura. Decisione, precisa, in un senso che è radice di qualsiasi altra accezione: non un diritto aristocratico, ma semplicemente il tagliar corto con la paura di aver paura di aver paura, con la vergogna di aver vergogna di aver vergogna, dunque con quella possibilità, che è nel nostro stesso modo di pensare (curiosamente, è il nostro stesso pensiero/linguaggio, che dovrebbe aiutarci a vivere e darci misure determinate, a produrre lo smisurato), che è in noi stessi, di proseguire all’infinito.

Aristotele, aveva premesso Virno, nel Libro IV della Metafisica, argomentava: chi non rispettasse il principio di non contraddizione, non sarebbe più un àntropos ma un gallo. Per De Martino, analogamente, il principio di non contraddizione segna una soglia antropogenetica, tiene ritualmente distinta la condizione pre-umana dell’indeterminatezza semantica dalla vita propriamente umana: introduce alla scena della vita umana ma, in quanto soglia, guarda ancora alla vita non umana, all’indistinzione e alla contraddizione; è, in certo qual modo, la misura che ristabiliamo dopo una crisi di follia, o dopo comportamenti collettivi inconsulti.

Abbiamo già accennato, nella prima parte, a Carl Schmitt e a Ludwig Wittgenstein, e al loro collocare lo stato di eccezione nella terra di mezzo tra norma/regola e normalità/regolarità, pensieri e luoghi che Virno assegna, rispettivamente, alle specie del giuridico e del linguistico.

Carl Schmitt, uno tra i maggiori pensatori della politica e del diritto di tutta la modernità (malauguratamente schierato senza esitazione e fino in fondo con il regime nazionalsocialista di Hitler), è l’autore che più ha messo in primo piano, nel pensiero politico-giuridico, lo stato di eccezione, la crisi della misura come condizione interna agli organismi istituzionali.

In Wittgenstein, che ha dato contributi di primaria importanza allo sviluppo della logica e della filosofia del linguaggio, è centrale il tema dell’applicazione della regola: cosa significa attenersi alle regole? La legge, l’unità di misura generale, lascia aperta la questione della sua applicazione in circostanze contingenti.

Caratteristica comune a Schmitt e Wittgenstein, avverte Virno, è il rifiuto dell’idea – infondata giuridicamente, linguisticamente e antropologicamente – che una regola indichi, già di per sé, i modi in cui debba essere applicata nei casi particolari: entrambi attribuiscono al momento applicativo una fortissima autonomia. Con parole quasi identiche, nelle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein e nel saggio di Scmhidt Teologia Politica, viene ribadita la convinzione che, ogni volta che una regola è applicata in una circostanza particolare, si ha qualcosa della decisione, del tagliar corto. Tutti e due ritengono che, per una regola, per un’unità di misura, esiste virtualmente un’infinità di possibili differenti applicazioni, alcune anche in contrasto tra loro. Qui e ora, applico la regola così, ma potevo applicarla in un altro modo, e in quell’altro ancora: questo è decidere.

Ma, si chiede Wittgenstein, che cosa succede, che cosa dire, se uno si attiene alla regola in un certo modo, mentre un altro usa un modo diverso? E chi dei due ha ragione?[14]. Dicevamo, prima, che è ormai abituale, ormai considerata normale, l’applicazione omogenea, a causa dell’addestramento sociale osservato da Wittgenstein. Accade, però, nello stato di eccezione, che l’unità di misura venga applicata in maniere discordanti e, conclude Virno, nessuno può dire a priori chi abbia ragione (al punto, sottolinea, che alcuni filosofi politici più estremi paventano che i nostri siano tempi di guerre civili).

Perfino Kant aveva dovuto affrontare la questione, e scrisse la Critica del Giudizio: in questo passaggio dalla norma universale alla sua attuazione, serve il giudizio, e l’estetica e l’arte sono solo ambiti di applicazione alla stregua di altri.

A questo punto, Virno ricorda che il termine greco nomos significa legge, e che la caratteristica del nomos, della legge, della regola, è di poter essere applicata a oggetti diversi in circostanze diverse. Non c’è, nello stato di eccezione, un vuoto di unità di misura, ma le misure hanno meno, o niente affatto, la forma del nomos, della regola generale: hanno, invece, e moltissimo, la forma dello psephisma, cioè del decreto.

E, anche in questo caso, è d’obbligo il riferimento ad Aristotele, che nel Libro VI dell’Etica Nicomachea rilevava il problema dell’applicazione del nomos in casi contingenti e particolari. Già nel Libro V, però, notava che, a differenza del nomos, della norma generale, il decreto, lo psephisma, non riguarda una quantità indefinita di casi, bensì un evento circoscritto, un avvenimento unico, e ha una durata limitata nel tempo. Lo psephisma è simile al regolo di piombo usato nelle costruzione della città di Lesbo, annotava Aristotele, che si adatta alla forma della pietra, che non rimane rigido.

Il decreto è dunque una regola che si conforma a un singolo, particolare evento, una unità di misura che si adatta agli avvenimenti e serve una volta sola.

Sia sul piano politico e giuridico (che, di fatto, fa da piattaforma alle decisioni economico-finanziarie), sia su quello linguistico, lo stato di eccezione vede prevalere lo psephisma sul nomos, il decreto sulla legge. Sarebbe però sbagliato non cogliere il fatto che, pur adattandosi sinuosamente alle circostanze e valendo per un caso solo, il decreto si presenta, per forma e struttura, simile alla regola: il decreto è una regola paradossale. Questo è solo uno dei paradossi dello stato di eccezione; il primo e principale, segnalato da Schmitt e ripreso, con grande vigore teoretico, da Agamben nel suo Homo Sacer[15], è che lo stato di eccezione viene sancito dal sovrano: il sovrano ha il potere, pur essendone parte, di uscire dall’ordinamento, e quindi collocarsi in un’indistinta posizione, tra l’essere fuori e l’essere dentro l’ordinamento regolare.

Vale la pena rilevare che Wittgenstein tiene molto (ma, in qualche misura, anche Schmitt) a far notare che in condizioni, diciamo così, “fisiologiche” – e perciò, non nello stato d’eccezione –, laddove sia necessario capire come applicare una certa regola al caso particolare, entra comunque potentemente in campo la regolarità: non posso applicare quella regola senza far riferimento alla normale strutturazione dei rapporti di vita, senza tenere in conto il modo di comportarsi comune degli uomini. C’è, in ogni applicazione (e applicazione significa anche decisione) di una regola a un caso particolare, il ricorso al sottofondo antropologico, a ciò che sta al di qua delle regole a costituirne il presupposto. Potremmo dire che, in condizioni ordinarie, non di crisi, un frammento di stato d’eccezione è comunque incuneato, confitto nell’applicazione contingente e particolare della regola.

Lo Stato moderno e la sua dottrina hanno teso a separare nettamente la regolarità dalle regole, hanno concepito, per la sfera pubblica, regole strutturate solamente in ragione della coppia regola-applicazione, escludendo, mettendo tra parentesi, la regolarità, troncando i ponti cioè con un dato antropologico di fondo invece ineludibile, lasciando in ombra il terzo incluso, il modo comune di comportarsi degli uomini. Tali regole, la cui applicazione è univoca, certa, comandata, non contemplano quell’elemento di variabilità, quell’apertura, propria della regolarità, alla produzione eventuale di nuove regole. È ovvio, precisa Virno, che sbaglierebbero comunque quei filosofi, o giuristi, o politologi, che promuovessero la regolarità contro le regole, perché la regolarità, da intendersi come matrice che non si accompagni ai suoi prodotti che sono le regole, risulterebbe inverosimile e, naturalmente, estremamente rischiosa.

Il punto è: possono, questi tre fattori – la crisi dell’unità di misura, la modalità di applicazione, la possibilità di usare la regolarità come matrice per l’individuazione di nuove regole, di nuove misure –, giocare esplicitamente insieme?

Ora, se volessimo fare quella che Foucault chiama ontologia del presente, vedremmo il manifestarsi, in una forma politicamente effettuale, più potente che in passato, in ogni caso obliqua, di una triade anziché di una coppia. E il gioco, non a due ma a tre, apre una situazione post sovranità statale, post monopolio della decisione politica, una situazione propriamente attuale.

Ricapitolando: la condizione contemporanea è determinata essenzialmente da una oscillazione fra normalità e norme, tra regolarità e regole, e quindi, parafrasando Hobbes, tra stato di natura e stato civile. Se è vero che, per stato di natura, possiamo intendere quello che Wittgenstein chiama il modo di comportarsi comune degli uomini, quello che Schmitt chiama la strutturazione normale delle forme di vita, cioè quello che la politica moderna tende a distinguere e separare drasticamente dal binomio regola-applicazione, sulla base di questa equivalenza risulta ovvio affermare che viviamo in un contesto caratterizzato dall’impossibilità di uscire dallo stato di natura, in una situazione, quella contemporanea, che vede la continua sovrapposizione tra ambito della regolarità/normalità e ambito della regola/norma/misura.

La coppia formata da regolarità e regola fa anche riferimento all’accostamento che l’antropologia filosofica del ‘900 opera tra i termini mondo e ambiente. Il vivente che ha un mondo è essenzialmente un vivente disambientato, non ha cioè una nicchia ecologica in cui insediarsi, all’interno della quale orientarsi e agire con sicurezza, così come accade per altre specie animali. Il mondo non è quindi la somma di tutti gli ambienti concepibili, come il pensiero comune ritiene, anzi, la nozione di mondo implica una condizione di mancanza, di disambientamento. Avere un ambiente è avere una certa sicurezza di cosa fare a vantaggio della propria vita, mentre in un mondo questa sicurezza manca, e prevale la categoria filosofica del possibile, della contingenza, un margine di indeterminato e di imprevisto.

La regolarità o stato di natura, allora, è la relazione con il mondo, in quanto costituito dall’assenza del riparo tipicamente ambientale; la regola, d’altronde, insieme alla sua applicazione (la misura e le singole, concrete misurazioni), ha a che vedere con il tentativo di stabilizzare, di delimitare la nostra vita. Tentativo che mira alla costruzione di pseudo ambienti storico-culturali (per esempio, il borgo contadino, in cui i nostri nonni conducevano la loro vita, rassicurati da prevedibilità e ricorrenze).

La regola, l’unità di misura, è sempre finalizzata a contrastare l’eccesso di instabilità che la relazione con il mondo, e quindi la regolarità, comporta. In uno pseudo ambiente ci sono regole determinate, “regole cornici”, che marcano il confine tra il dentro e il fuori, che escludono il rumore della vita, la sua carica di contingenza e imprevedibilità.

Eppure, il mondo, lo stato di natura, si insinua comunque nello pseudo ambiente storico-culturale, vi introduce la sua complessità, e a volte il suo disordine: quando la cornice salta, quando le regole non funzionano più, subentra lo stato d’eccezione, e non c’è più distinzione tra il fuori e il dentro. Il principio di non contraddizione, in fondo, pretende di essere una cornice abbastanza capiente da valere per il mondo, e non per un singolo specifico pseudo ambiente.

Lo stato d’eccezione si instaura, dunque, nel momento in cui il mondo (contingenza, imprevedibilità, complessità della vita umana) irrompe nello pseudo ambiente storico-culturale e sgretola le regole che ne facevano un riparo, un ambito in cui, entro certi limiti, si sapeva che cosa era utile o nocivo, in cui ci si sapeva orientare. Oggi, nell’epoca della comunicazione, del pensiero, della cooperazione, delle relazioni, della globalizzazione (o, meglio, del capitalismo contemporaneo), la produzione non può funzionare senza una continua commistione tra mondo e ambiti ben perimetrati, non si può produrre se non lasciando aperta la porta al rumore, tenuto invece fuori nelle società tradizionali. È ormai inevitabile, non più facoltativa, la commistione tra norma e normalità, tra regola e regolarità.

Intorno agli anni ‘80, si cominciò a dire che lo stato d’eccezione è diventato permanente. L’interpretazione pungente di questa affermazione, secondo Virno, è che viviamo una fase in cui non è più possibile separare il mondo dagli pseudo ambienti incorniciati da regole determinate, in cui la regolarità, la normalità, anziché starsene sullo sfondo e rimanere presupposto celato, seppur decisivo, balza in primo piano, addirittura con la connotazione di protagonista assoluta.

Per Hobbes, decisivo è il momento in cui si entra finalmente nella storia, nella dimensione politica, il momento dell’uscita dallo stato di natura. Sollecitato dalla domanda “Perché bisogna ubbidire?”, si sottrae al regresso all’infinito della catena di risposte prospettate da altri teorici (Kelsen, per esempio): si obbedisce perché lo impone la legge, d’accordo, ma perché bisogna obbedire alla legge? Forse perché lo impone una legge ancora più fondamentale, come la Costituzione? Ma allora, perché bisogna obbedire alla Costituzione? Hobbes interrompe il regresso all’infinito rinunciando all’illusione di poter riconoscere, prima o poi, una legge che sia fondamento primo, e comprende che non è una legge a determinare l’obbligo all’obbedienza, ma un fatto. È cioè proprio con l’uscita dallo stato di natura che ci si obbliga a obbedire; non solo: in quanto esci dallo stato di natura, hai un obbligo preventivo all’obbedienza, devi obbedire prima ancora di sapere che cosa ti sarà comandato. Il popolo, definito come corpo unitario dall’accettazione preliminare di obbedienza, allorché si svincoli dall’obbligo, perde la sua unità, si scompone. Diviene moltitudine, termine tecnico con il quale Hobbes delinea il riemergere dello stato di natura in una sfera pubblica affollata da una pluralità di individui che non soggiacciono all’obbligo integrale di obbedienza. Nello stato d’eccezione, dunque, non c’è più popolo ma moltitudine.

Carl Schmitt, negli anni ‘60, scrive che l’epoca dello Stato è tramontata, che questa grande macchina concepita dalla modernità è ormai un ricordo patetico. Naturalmente, poi lo Stato perdura, ma quella che ne è l’essenza concettuale, dice Schmitt, cioè il monopolio della decisione politica, via via si sgretola.

La crisi dello Stato moderno può essere letta come l’impossibilità, oggi, di differenziare il dentro e il fuori, le regole e la regolarità, il modo comune di comportarsi degli uomini e le norme positivamente definite. Le forme di vita, i giochi linguistici, la produzione contemporanea, si svolgono tutti ormai in una sovrapposizione costante fra normalità e norme, ed è ovvio che questo stato di eccezione reale, questo strascico, questo proseguire oltre il tempo massimo della sovranità statale, il suo dispiegarsi come un che di continuo, di non eccezionale, è anche una testimonianza, un attestato del carattere deperibile della statualità.

E Virno propone di considerare lo stato di eccezione permanente come un laboratorio, in cui gli aspetti finora esposti possano essere utilizzati positivamente, in prospettiva, per future istituzioni non più statali. La nostra, dice, è una condizione in cui vale la pena di chiedersi quali istituzioni e quali nuove unità di misura possano sorgere. Alcune riflessioni di Wittgenstein ce ne suggeriscono esempi all’altezza dell’inseparabilità tra regolarità e regola. Parlando della genesi storica delle norme, dice che le regole hanno sempre una genesi empirica (noi potremmo dire storica), e si fa beffe della distinzione tra fatti e norme, o anche tra piano empirico (i fatti) e piano grammaticale. Nel suo ultimo testo, Della certezza, egli scrive: “ci si potrebbe immaginare che certe proposizioni, che hanno forma di proposizioni empiriche [cioè relative a fatti] vengano irrigidite e funzionino come una rotaia [cioè come una regola] per le proposizioni empiriche non rigide, fluide […], e proprio questo rapporto dal fluido al rigido cambia con il tempo, in quanto le proposizioni fluide si solidificano e, al contrario, le proposizioni rigide, le regole, diventano di nuovo fluide”[16]. Molte norme, quindi, molte regole, molte unità di misura, potenzialmente, tornano a essere fatti della vita, e questo è decisivo, perché questo movimento dal fluido al rigido e dal rigido al fluido è, in una forma temibile, ciò a cui assistiamo nello stato d’eccezione. Nello stato di eccezione diventa regola lo psephisma, il decreto riferito a una particolare circostanza, e alcune norme, d’altro canto, tornano ad essere elementi empirico-fattuali: alcune norme tornano ad essere fatti, alcuni fatti diventano norme. La forma aberrante di stato di eccezione che abbiamo conosciuto e continuiamo a conoscere è qualificata da questo doppio movimento, che però potrebbe diventare un positivo criterio costituzionale. Sarebbe molto interessante riuscire a immaginare le nostre unità di misura proprio a metà di quella trasformazione, sempre semisolide o semifluide, sarebbe, sotto il profilo teoretico, ma anche politico-giuridico, un vero colpo di ingegno, assicura Virno.

È decisiva, in forma di articolo dell’ipotetica costituzione di una repubblica non più statale, non più monopolistica, immagina Virno, una successiva osservazione di Wittgenstein: “la medesima proposizione può essere trattata, una volta come proposizione da controllare, un’altra come una regola di controllo”[17]. Ciò che misura, l’unità di misura, non è trascendente rispetto al misurato, può essere, essa stessa, sottoposta a misurazione: questo è il carattere anfibio delle unità di misura. Questa sorta di indistinzione è molto presente nello psephisma: nella regola di un singolo caso non c’è alcuna distinzione fra applicazione pratica e regola. Questa dimensione, che rimane intermedia rispetto alle vecchie polarità, potrebbe diventare semplicemente centrale da un nuovo e diverso punto di vista.

Virno sottolinea ancora che, mentre per Schmitt, e ancor prima per Hobbes, lo stato di eccezione è una prerogativa riservata al sovrano, che solo può sospendere le regole ordinarie e creare l’indistinzione tra fatti e norme, in tutta l’impostazione di Wittgenstein è determinante che lo stato di eccezione sia esperienza permanente di ogni singolo parlante. Ciascuno di noi, non solo può decretarlo, ma con lo stato d’eccezione fa inevitabilmente i conti. È uno stato di eccezione prêt-à-porter, è degiuridicizzato, e fa parte della comune esperienza umana.

Per finire, Virno propone la nozione extra-statuale di stato di eccezione con cui De Martino si allinea a Wittgenstein: le apocalissi culturali non sono appannaggio del sovrano, ma sono qualcosa con cui, nei momenti di crisi biografica o collettiva, abbiamo a che fare tutti[18].


[1] Giorgio Agamben (Roma, 22 aprile 1942) è un filosofo italiano. Laureatosi in giurisprudenza nel 1965 con una tesi su Simone Weil, ha scritto diverse opere, che spaziano dall’estetica alla politica.

[2] Giorgio Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Iustitium, sospensione della giustizia, si forma da ‘ius’ e ‘-stitium’, dal verbo ‘sto’ o ‘sisto’, stare, fermarsi.

[3] Thomas Hobbes (Westport, 5 aprile 1588 – Hardwick Hall, 4 dicembre 1679), filosofo britannico, autore nel 1651 dell’opera di filosofia politica Leviatano. Hobbes oltre che della teoria politica si interessò e scrisse di storia, geometria, etica, ed economia. Inoltre, la descrizione di Hobbes della natura umana, descritta come sostanzialmente competitiva ed egoista, esemplificata dalle frasi Bellum omnium contra omnes (“la guerra di tutti contro tutti”, nello stato di natura), e Homo homini lupus (“ogni uomo è lupo per l’altro uomo”), ha trovato riscontro nel campo dell’antropologia politica.

[4] Thomas Hobbes, Leviatano, 1651.

[5] Ludwig Josef Johann Wittgenstein (Vienna, 26 aprile 1889 – Cambridge, 29 aprile 1951), filosofo, ingegnere e logico austriaco, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio. Unico libro pubblicato in vita da Wittgenstein fu il Tractatus logico-philosophicus, la cui prefazione venne curata dal filosofo e matematico Bertrand Russell, suo maestro, considerato una delle opere filosofiche più importanti del Novecento. Le raccolte di appunti, le lezioni, i diari, le lettere – che costituiscono tutto il resto della sua vastissima opera, detta nel complesso il secondo Wittgenstein – vennero pubblicate solo dopo la sua morte.

[6] Carl Schmitt (Plettenberg, 11 luglio 1888 – Plettenberg, 7 aprile 1985), giurista e filosofo politico tedesco. Come giurista è uno dei più noti e studiati teorici tedeschi di diritto pubblico e internazionale. Le sue idee hanno attratto e continuano ad attrarre l’attenzione di molti filosofi, studiosi di politica e del diritto, tra cui Walter Benjamin, Leo Strauss, Jacques Derrida, Gianfranco Miglio, Giorgio Agamben, Martti Koskenniemi.

[7] Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, G.E.M. Anscombe e R. Rhees, Oxford, 1953; trad. it. Ricerche filosofiche, a cura di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1967.

[8] Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, 1922; trad. It. Teologia politica, in Le categorie del ‘politico’,Bologna, Il Mulino, 1972.

[9] Karl Heinrich Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883), filosofo, economista, storico, sociologo e giornalista tedesco. In italiano è a volte chiamato Carlo Marx, col prenome tradotto. Il suo pensiero, incentrato sulla critica, in chiave materialista, dell’economia, della politica, della società e della cultura capitalistiche, ha dato vita alla corrente socio-economica del marxismo. Teorico della concezione materialistica della storia e, assieme a Friedrich Engels, del socialismo scientifico, è considerato tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico, filosofico ed economico nella storia del Novecento che ha avuto un peso decisivo sulla nascita delle ideologie socialiste e comuniste.

[10] Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, 1859; trad. it. Enzo Grillo Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 2, La Nuova Itala, Firenze 1970, p. 389.

[11] Ivi, p. 403.

[12] Ernesto De Martino (Napoli, 1º dicembre 1908 – Roma, 9 maggio 1965), antropologo ed etnografo italiano.

[13] Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002.

[14] Wittgenstein, op. cit., § 206.

[15] Giorgio Agamben, Homo Sacer, Einaudi, Torino 2005.

[16] Ludwig Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino 1999.

[17] Ivi.

[18] De Martino, Op. cit.

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