Paolo Calandruccio
Il seguente contributo intende essere una riflessione sul concetto identità in sé distinta, a partire dall’idea di “Ethos del trascendimento” di Ernesto De Martino. Il concetto suddetto, così come lo intendo in questo studio, è quello elaborato da Guido Traversa nel suo testo L’identità in sé distinta. Agere sequitur esse (Editori Riuniti University Press, Roma 2012). Ritengo necessario, inoltre, far riferimento ad altri studi di Guido Traversa che mi hanno permesso di giungere all’elaborazione di questo mio lavoro e, cioè, Metafisica degli accidenti. Dalla logica alla spiritualità: il tessuto delle cose (Manifestolibri, Roma 2004) e Identità etica. Questioni di storiografia filosofica e di consulenza filosofica (Manifestolibri, Roma 2008).
L’indagine che ho intenzione di portare avanti, in questo scritto, prende le mosse da un concetto del pensiero di Ernesto De Martino, che è quello di “Ethos del trascendimento”.
Tale concetto, purtroppo, ad oggi, è ancora poco noto e sembra risultare di rilevanza fondamentale esclusivamente per gli studi demartiniani e per le riflessioni inerenti a questo pensiero. In realtà, il potenziale teoretico-riflessivo che l’idea di ethos del trascendimento porta con sé non inerisce esclusivamente al pensiero del filosofo ed etno-antropologo campano ma, se indagato accuratamente, “concede”, appunto, un enorme “potenziale d’azione” per il pensiero filosofico tout court che si interroga sulla persona, in relazione alla sua esistenza e, brevemente, “in generale”, sulla questione del senso e della complessità di questo quid poliedrico che è la persona; tutto ciò non può che portare, infatti, ad un aumento di ricchezza teorica e teoretica per chi si interessa a cogliere gli elementi riguardanti la questione dell’identità e, “principalmente e perlopiù”, per chi volge il proprio sguardo verso quella concezione dell’identità non univoca (senza, con ciò, rischiare minimamente di cadere nel tranello del relativismo), per cui si sostiene che questa non possa minimamente essere irretita in un monadistico determinismo definitorio, l’essenzialismo, che racchiude in-sé la totalità delle possibilità dell’identità singola ma, volendoci spingere ancora oltre, della questione dell’identità in sé; quest’ultimo atteggiamento, infatti, equivarrebbe praticamente ad attribuire al concetto di “identità”, e non meno alle singole identità, la caratteristica di essere il già detto, di non poter essere altro da ciò a cui sono condannate ad essere, da quella condanna per l’essere umano che, in altri termini, è l’“omnimoda determinatio”.
Da ciò, l’importanza di far trascendere la questione dell’ethos del trascendimento dalla prospettiva originaria, ipostatizzandola a questione filosofica autonoma[1], al fine di proporre un’ulteriore plausibile idea di identità in sé distinta.
Non sarà, tuttavia, un lavoro facile; è, infatti, diffuso l’atteggiamento per cui un “problema” o, meglio, una “questione” filosofica, appartenente ad un orizzonte concettuale, rientri a pieno titolo e per lo più in quel determinato panorama d’appartenenza che è il pensiero che l’ha generata; come se, per qualche astruso motivo, gli elementi, i concetti, le questioni e le categorie che nascono da un “pensiero” debbano, a mo’ di condanna, rimanere intrappolate all’interno di una ragnatela teoretica che è il pensiero stesso che le ha generate.
È mai possibile, concretamente, che un pensiero, incentrato sull’individuazione, l’analisi e la spiegazione di una comprensione strutturale dell’essere umano, possa relegarsi, esclusivamente, a “questione” di una “specifica” filosofia – in questo caso, in particolare, quella di De Martino – che l’ha posta in essere, e non trascenderla, logicamente, ontologicamente ed eticamente, istituendosi in quanto questione filosofica in-sé e generando, così, pragmaticamente, effetti generativi trasformazionali[2]?
Personalmente ritengo, infatti, che la questione dell’“Ethos del trascendimento”, individuata e analizzata da Ernesto De Martino, durante i suoi viaggi-studio nell’Italia del Sud, negli anni ‘50 del 1900[3], debba essere ipostatizzata ad argomento filosofico in-sé, al fine di poter tentare di individuare, a partire da questa concezione, un’ulteriore concezione di identità individuale polisemica che, garantendo e richiedendo necessariamente la singolarità individuale e socio-culturale di ogni individuo, riesca esaustivamente ad individuare ciò che è massimamente comune, un carattere universale, dunque, nell’Uomo.
Ovviamente, questo “distaccamento” della questione dal pensiero originario non annullerà lo sfondo da cui questa emerge e, anzi, sicuramente, porterà con-sé il carattere degli studi che l’hanno coniata, ma analogamente al parricidio di cui parla Derridà[4] (“richiamando” le riflessioni platoniche), che si genera per ogni opera una volta prodotta dall’autore[5], similmente il concetto, in quest’orizzonte di possibilità, abbandonerà il padre quasi “uccidendolo”, ma portando con sé i tratti genetici dello stesso e, così, iniziando una nuova vita propria e generando, conseguentemente, ulteriori riflessioni in colui che intraprenderà l’analisi di una tale questione.
Dunque, fatte queste doverose premesse, procederò nel seguente modo:
- Ritengo necessario, come primo punto, esplicitare intenzionalmente l’obiettivo di questo studio.
- In secondo luogo, come credo debba essere svolto in ogni lavoro rigoroso, analizzerò i termini della questione che, in questo caso, sono, appunto, “universale”, “particolare” ed “Ethos del trascendimento”.
- Dopodiché, una volta analizzati questi termini, cercherò di evidenziare ed esplicitare – riavvicinandomi al primo punto ma, ora, in maniera dimostrativa e non intenzionale – come, effettivamente, il concetto di ethos del trascendimento è una possibilità “logica, ontologica ed etica” di comprensione dell’uomo, che rispetta la pluralità della singola esistenza, denotando, comunque, un carattere generalissimo e, conseguentemente, massimamente comune nell’uomo.
- Fatto ciò, come quarto punto, cercherò di problematizzare questo argomento, ponendo alcuni interrogativi che non possono essere non considerati in un’indagine di questo tipo e tentando, conseguentemente, di dare alcune risposte che mi permetteranno, poi, di giungere al punto successivo.
- Infine, come conclusione, ricapitolerò brevemente il lavoro svolto e risponderò ai possibili argomenti problematici precedentemente ipotizzati. Tutto ciò al fine di poter tessere una trama che, partendo da queste ultime risposte, giunga ad una la concezione antropologico-filosofica dell’ethos del trascendimento come effettivo connotato comune dell’umano, che preserva, legittima e necessita dell’identità polisemica in quanto categoria logica, ontologica ed etica e, conseguentemente, concretamente di ogni individuo.
a) Argomentazione intenzionale
Chiarire l’intenzione è, dunque, il momento fondamentale di ogni lavoro scientifico, senza il quale, volente o nolente, si rischia di perdere di vista, o quantomeno di sfocare, l’obiettivo del lavoro, se non proprio il lavoro stesso; ogni obiettivo, in quanto tale, ha dunque la pretesa e la caratteristica di essere il “primo movens” della ricerca stessa.
In questa prospettiva, l’intenzione che è alla base di questo scritto è quella di far emergere, tramite un’accurata analisi dei concetti di universale, particolare e, principalmente, di ethos del trascendimento, la sua caratteristica trascendentale-universale, che appartiene, dunque, all’uomo in quanto uomo, pur preservando legittimamente e necessariamente (proprio in virtù dell’idea stessa di ethos del trascendimento) le singolarità dell’uomo in quanto “individuo”.
Questa particolare prospettiva sull’umano, dunque, ha la potenzialità di trovare il comune denominatore – e da qui il terreno fertile o, ancora più precisamente, la possibilità reale di un’ulteriore prospettiva su una teorie dell’identità in sé distinta[6] – di ciò che, dunque, definisce “uomo”, “persona”, non cadendo nell’errore classico delle prospettive essenzialiste deterministe, di far dissolvere il particolare nell’universale, né, contrariamente, accettando la delirante prospettiva relativista, per cui si sostiene che è impossibile individuare un comune denominatore “reale” che riguardi i singoli individui, poiché la pluralità delle esistenze non è riconducibile ad una determinazione universale che sia, dunque, massimamente comune[7].
La possibilità che concede questa prospettiva, dunque, nell’ambito di una riflessione su un determinato modo di intendere il concetto di identità, è quella sia di permettere legittimamente di comprendere una peculiarità massimamente comune nell’Uomo in quanto tale, un elemento costitutivo, necessario, dell’essenza stessa, senza però far crollare la peculiarità e la ricchezza esistenziale del singolo individuo, senza, in breve, dissolvere l’esistenza individuale nell’essenza; d’altra parte, un elemento caratteristico di questa prospettiva è di non concedere alcuna legittimazione al rischio del relativismo, che si manifesta ogniqualvolta si inizi una riflessione sull’identità che deve, per necessità, far fronte alle “unicità” dei singoli individui.
b) Analisi dei termini della questione
Come precedentemente accennato, un tassello fondamentale, precedente alla possibilità di una dimostrazione, risiede nella chiarificazione definitoria dei termini stessi della questione; in altre parole, dunque, sarà necessaria, ora, l’analisi dei termini della questione.
Ciò per vari motivi, principalmente:
- Per prima cosa, questo procedimento servirà a ricordare la genealogia della questione dell’ethos del trascendimento e, così facendo, servirà anche a dimostrare la legittimità, che ho già sostenuto, di distaccare la questione dal suo contesto originario e renderla, così, un in-sé autonomo filosoficamente definito.
- In secondo luogo, l’analisi dei termini servirà a impostare e dirigere il ragionamento del punto successivo, al fine di permettermi di dimostrare ciò che, solo a livello intenzionale, ho espresso nel punto precedente.
- In terzo luogo, l’analisi dei termini servirà a portare chiarezza anche sull’utilizzo, in questo scritto, degli stessi, al fine di evitare incomprensioni e possibili “oscurità” del ragionamento o, anche, critiche non fondate; chiariti i termini (o, meglio, ciò a cui ci si riferisce in questo scritto, utilizzando questi termini fondamentali per tutto questo ragionamento), perciò, ogni forma di obiezione e perplessità, se realmente coerente con l’intento dell’analisi dei termini della questione, sarà legittima e, sicuramente, spunto di ulteriori riflessioni sull’argomento.
Iniziamo, perciò, l’analisi dei termini con l’individuazione, la scomposizione e la chiarificazione degli stessi.
Qui i termini fondamentali da analizzare saranno: universale, particolare ed ethos del trascendimento.
Universale
Universale, dal greco καθόλου; con universale mi riferisco a ciò che vi è di massimamente comune, ciò che appartiene a “x” e, appartenendogli, è un elemento caratterizzante di “x”, dove “x”, in questo caso, è “l’uomo”.
Tentare di individuare un carattere universale proprio di ogni uomo equivale, dunque, a individuare ciò che è massimamente comune agli uomini, tanto da essere una di quelle determinazioni peculiari che li accomuna; li accomuna, tuttavia pur non definendoli totalmente; il rischio di un pensiero simile sarebbe, infatti, quello di un determinismo gnoseologico ed ontologico.
Quando mi riferisco ad universale, qui, intendo una caratteristica massimamente comune che inerisca all’essenza, ma che non riduca quest’ultima ad essa; infatti, per essenza ci si riferisce a ciò che Aristotele, nella Metafisica, definiva come: τὸ τί ἦν εἶναι[8].
Individuare l’universale vuol dire, pertanto, cogliere quella peculiarità che riguarda tutti gli appartenenti ad una specie, a un genere, a un “gruppo” ma, tuttavia, non soddisfa, necessariamente, tutte le altre componenti di ciò che si dice essenza; con universale, dunque, mi riferisco a ciò che, pur riguardando tutti gli appartenenti alla categoria indagata ed essendone anche un tratto distintivo, tuttavia, non determina esclusivamente l’essenza; diversamente, invertendo i termini, alla definizione essenziale di quella categoria indagata deve necessariamente appartenere quel tratto universale per essenza.
Capisco, a questo punto, che sorge necessaria una chiarificazione, al fine di non incorrere nel rischio di creare fraintendimenti nel lettore; quando parlo di elementi che sono massimamente comuni ad “x”, pur non definendone l’essenza, non mi sto riferendo a quelli accidentali più propri di una sostanza, ma ad una caratteristica che non può non essere presente nella definizione essenziale di “x”; se si studia, infatti, l’analisi di ciò che Aristotele intende con accidente[9], si nota che l’autore distingue tra due modi di dire “accidente”: vi sono accidenti che possono appartenere o meno ad una determinata sostanza (“ciò che appartiene ad una cosa e che può essere affermato con verità della cosa, ma non sempre né per lo piú”) e vi sono, invece, accidenti “più propri”: “gli attributi che appartengono a ciascuna cosa di per sé, ma che non rientrano nella sostanza stessa della cosa”.
In entrambi i casi, comunque, il quid proprio dell’accidente è di non rientrare nell’essenza di ciò che si sta indagando.
Quando parlo di elemento universale, differentemente, mi riferisco ad un elemento che è propriamente della sostanza indagata, ma che non è l’unicum definitorio; un unicum definitorio, infatti, all’interno di un’indagine che, riguardando l’identità, non può che inerire anche al concetto di essenza, finirebbe per intrappolare, condannare e dissolvere la singolarità nell’essenza, imponendo l’impossibilità della polisemia, differentemente, propria dell’Identità.
Particolare
Particolare, dal latino particularis: con particolare mi riferisco, in termini prettamente linguistici, a ciò che è parte di; tuttavia “ciò che è parte di” non è necessariamente identico a ciò di cui è parte, né si dissolve in ciò a cui “partecipa”, perdendo, così, le sue proprie peculiarità.
Il particolare “partecipa di” e “partecipando di” ne è una parte, ed essendone una parte contribuisce, con la sua singolarità, alla totalità stessa che, in mancanza di quella parte, sarebbe differente da come è.
In relazione a ciò che ho esposto sull’universale, e in relazione a quanto appena detto sul particolare, quando parlo di particolare intendo un “elemento” che partecipa all’universale, ma partecipando all’universale non permette che “sbiadisca” la sua peculiarità: il particolare partecipa di quell’elemento universale in quanto “partecipante” di quello stesso elemento, ma non si riduce a quello, poiché, in quanto particolare reale, mantiene la sua individualità, quell’identità in-sé-distinta a cui mi sto rifacendo costantemente[10] e che vedremo essere una caratteristica peculiare e necessaria della concezione dell’ethos del trascendimento.
Il particolare, dunque, partecipa dell’universale, ma non si riduce né logicamente né ontologicamente all’universale; proprio in quanto particolare, infatti si può dire partecipante dell’universale ma, qualora fosse identico a quello, sarebbe l’universale stesso; ecco, perciò, che proprio logicamente e ontologicamente si demarca la “barriera di contatto” particolare/universale: l’universale e il particolare, così intesi, si richiamano a vicenda, ma non si fondono l’uno nell’altro per quella necessità logica e ontologica di distinzione “richiamante” che è insita in entrambi i termini della questione.
Ethos del trascendimento
Ethos del trascendimento: questo concetto, come precedentemente detto, è stato coniato dal filosofo, storico delle religioni ed etno-antropologo Ernesto De Martino, e si presenta come elemento universale che caratterizza l’uomo. Ma a cosa si riferisce De Martino quando parla di Ethos del trascendimento?
Analizziamo “questo termine della questione”, cercando di giungere in primis alla comprensione formale di ciò di cui parla il pensatore campano, per poi cercare di comprenderne, così, a fondo il senso e, infine, lasciar emergere spontaneamente il concetto ipostatizzato in-sé, che conserverà certo la sua traccia genetica e genealogica nella propria struttura, ma potrà così, poi, presentarsi come categoria filosofica in-sé (che trascende l’orizzonte da cui è sorta) e che mette in luce l’elemento universale che istituisce la legittimità nomotetica del particolare; tutto ciò, individuando nell’“umano” la capacità che gli è più “comune” e che, per necessità intrinseca, per nessun motivo tende ad assorbire la singolarità individuale: la trascendenza valorizzante nella situazione.
Dunque, partiamo dall’analisi formale di ciò di cui parla De Martino e vediamo dove ci condurrà un’accurata analisi di questo pensiero.
De Martino, analizzando il concetto di “presenza” (e parlando di presenza si riferisce al modo di essere specifico dell’uomo – che è, appunto, l’ethos del trascendimento[11]), sostiene che è «movimento qualificante “al di là” della situazione, e per questo “al di là” essa è ethos del trascendimento»[12].
Ma cosa intende il pensatore campano con “essere al di là”? E, verrebbe da chiedersi, “al di là” di cosa?
La risposta più pertinente mi sembra possibile riscontrarla a partire dalla precisazione del background culturale demartiniano; infatti, il pensatore campano ha studiato a lungo l’esistenzialismo e l’ontologismo heideggeriano e, perciò, poi, la fusione tra questi studi filosofici (ma anche la vicinanza all’esistenzialismo “positivo” italiano) e le sue ricerche etno-antropologiche lo ha portato a coniare una propria prospettiva: l’uomo, per De Martino, infatti, è certamente “gettato” nell’esistenza, in senso ontologico ed esistenziale ma, in quanto “presenza”, ciò che lo caratterizza principalmente è quella possibilità di andare “al di là” e, cioè, di trascendere la situazione in cui è gettato – in maniera volontaria o involontaria, consciamente o inconsciamente. La geniale peculiarità demartiniana, però, a mio avviso, risiede nella qualità di quel trascendimento che avviene, quasi “per natura”, nell’essere situati e dall’essere situati in un determinato contesto; infatti, il trascendimento di cui parla De Martino è un trascendimento che ha una caratterizzazione culturale e, conseguentemente, tipicamente sociale e anche stricto sensu personale, notevolissima: ed è l’ethos il motore del trascendimento, dove per ethos si intende la capacità di valorizzazione della situazione e di se stessi nella-situazione (ripeto in maniera cosciente o meno). Ed è per questo che, poi, De Martino sosterrà che “ethos” e “presenza” coincidono[13]; proprio in virtù di tale, strutturale ed essenziale, caratteristica dell’uomo di “trascendere la situazione nel valore”.
Si può leggere, infatti: «Questo ethos coincide con la presenza come volontà di esserci in una storia umana, come potenza di trascendimento e di oggettivazione. È infatti norma costitutiva della presenza l’impossibilità di restar immediatamente immersa, senza lume di orizzonte formale, nella semplice polarità del piacere e del dolore e nel gioco delle reazioni e dei riflessi corrispondenti: se vi si immerge, dilegua come presenza»[14].
Così, l’uomo si trova in un continuum di trascendenza valorizzante, poiché si instaura una sorta di dialettica per la quale, che ne sia cosciente o meno, proprio per struttura esistenziale, l’uomo trascende costantemente la situazione valorizzandola e, una volta trascesa, si trova in un’ulteriore “situazione” che fa innescare, nuovamente, il trascendimento valorizzante; ciò De Martino lo spiega come segue: Presenza significa «farsi presente alla situazione»: non è quindi la existentia della ontologia tradizionale, la Vorhandenheit. Farsi presente alla situazione significa trascenderla nel valore, staccarsi da essa valorizzandola, ed emergere come presenza in virtù di tale valorizzazione, nella misura in cui ha luogo il trascendimento valorizzante. Il trascendimento poi prepara una nuova situazione, e quindi una nuova emergenza, senza che mai si possa parlare di una situazione iniziale assolutamente senza trascendimento valorizzante, e di un trascendimento valorizzante che si aggiunga definitivamente alla situazione»[15].
Da ciò, ed i virtù di ciò, tornando analiticamente all’analisi dei termini della questione, con “ethos del trascendimento” mi riferisco a quel concetto demartiniano che ormai, chiarito e definito, può presentarsi in quanto questione in-sé, in cui si intravede quel gioco universale-particolare di cui parlavo nel punto a) e che tenterò di dimostrare nel punto c).
Quando mi riferisco a ethos del trascendimento, dunque, mi riferisco a quel peculiare modo d’essere dell’uomo per cui, gettato nell’esistenza, si instaura un meccanismo, che se ne sia consapevoli o meno, di trascendimento valorizzante di sé e della situazione, in cui il carattere della valorizzazione, tuttavia è propriamente e necessariamente soggettivo e socio-culturale.
c) Dimostrazione della questione
A questo punto, dunque, credo che si cominci ad intravedere quella struttura, quella caratteristica universale/particolare di cui parlavo e che, individuata, si erge come “questione filosofica in-sé” e, così, ci permette di proseguire verso un pensiero “nuovo” o, quantomeno, “in più” di identità polisemica: seguendo questo ragionamento, la costituzione dell’umano è caratterizzata da una sorta di dialettica culturale-esistenziale, per cui, “gettato nella situazione”, automaticamente, l’uomo la trascende valorizzandola e, così, si proietta in un momento successivo della sua esistenza – un’altra “situazione” – in cui riparte il “motore” del trascendimento valorizzante.
Tuttavia, continuando su questo binario, senza un’ulteriore precisazione, si rischierebbe di cadere in errore; infatti, per rendere schematicamente questo ragionamento – e capisco che risulterò eccessivamente riduttivo, però la caratteristica dello schema è proprio quella di essere riduttivo, ma graficamente “chiarificatore” – il procedimento in questione, qualora lo affrontassimo superficialmente, senza prestare la giusta attenzione a tutte le peculiarità dell’ethos del trascendimento, lo potremmo “formalizzare” come segue: gettatezza (G) – trascendimento valorizzante della situazione/presentificarsi (P) – gettatezza (G).
Formalmente, dunque, sarebbe:
G → P → G → […]
Ma se fosse semplicemente così, se la riflessione svolta finora, anche con l’analisi dei termini della questione, portasse a questo “risultato”, come si potrebbe salvare quella individualità particolare, che è il singolo e reale uomo? Come si potrebbe salvare quella relazione bidirezionale universale/particolare che è il focus di questo lavoro e di cui ho parlato nel punto a)? Inoltre, in questi termini, in realtà, si sarebbe esclusivamente individuata un’altra forma di essenzialismo determinista, che ridurrebbe l’esistenza del singolo individuo alla formula appena esposta.
Nulla di più lontano, dunque, dall’intenzione del punto a) e dal tentativo dimostrativo di questo paragrafo.
A questo punto, per sbrogliare la matassa e precisare la questione, è necessario riappropriarci di un altro elemento fondamentale, e pure già citato, nell’analisi della questione dell’ethos del trascendimento: l’aspetto “culturale”; ed ecco che, anche se trascesa come questione in-sé, la traccia genetica della questione torna a farsi sentire e si presenta come basilare; ogni singola presenza, infatti, è caratterizzata fortemente dall’elemento socio-culturale a cui il singolo appartiene. De Martino, infatti, nei suoi studi, parla di “mondo” in senso prevalentemente “culturale”: il mondo a cui si appartiene è il mondo entro cui si instaurano quelle categorie “logiche, ontologiche ed etiche” che restano valide per l’appartenente a quel mondo; ed è questa l’essenza stessa dello storicismo a cui si riferisce il filosofo ed etno-antropologo campano e che esplica come segue: «Storicismo significa una visione particolare della vita e del mondo, per cui si afferma in modo esplicito e impegnato che il reale è percepibile nella valorizzazione culturale umana, che tale valorizzazione comporta una origine e una destinazione integralmente umane dell’operare, e che non esiste prodotto culturale umano che non si possa integralmente ricondurre all’umanità dell’operare, sia poi tale integrale umanità non consapevole per gli operatori, i quali anzi credono a vario titolo di esser mossi da dèi, da forze sovrumane o subumane, dalla materia o dalla natura, dall’inconscio e da quant’altro si pone come “al di là” dell’uomo reale vivente in società»[16].
Tutto ciò, però, nel tentativo di combattere un essenzialismo deterministico, deve risultare lungi dall’essere confuso con una forma di relativismo antropologico, in virtù, appunto, di quella struttura esistenziale formalizzata poc’anzi e alla quale “partecipa” ogni singolo individuo – in maniera consapevole o meno.
L’aspetto culturale, dunque, deve far comprendere la legittimità della singolarità, del particolare, che partecipa di quella struttura universale che è massimamente comune all’uomo, pur, appunto, non dissolvendosi in essa, proprio grazie ed in virtù di quella caratteristica individuale che emerge dall’elemento socio-culturale e, non meno, prettamente individuale.
Perciò, se volessimo provare a formalizzare ora, con questa precisazione, questo discorso, dovremmo pensare, piuttosto, nei seguenti termini:
Gc → Pc → Gc → […]
Dove, per l’appunto, “G” rimane “l’esser gettato in una situazione” e “P” il meccanismo di “trascendimento valorizzante”, ma dove la “c” rappresenta quella peculiarità singolare che è determinata dai fattori socio-culturali e personali che fanno sì che, pur trovando una struttura universale massimamente comune all’Uomo, tuttavia la caratteristica individuale, particolare, del singolo – “unico e irriproducibile” – emerga e rimanga legittimamente e necessariamente sempre presente.
Eccoci giunti, così, al punto in cui emerge, spontaneamente, dal ragionamento quel carattere peculiare e autonomo, che si distacca dal pensiero originario, pur mantenendone – come abbiamo più volte già detto – la trama genetica e genealogica, e si giunge a quella situazione per cui la questione impone una nuova prospettiva, dimostrando quelle che prima, al punto a), erano le intuizioni iniziali.
La questione dell’ethos del trascendimento, infatti, è definibile, a questo punto, come una nuova prospettiva realista, che tenta di comprendere l’uomo e di individuare una caratteristica universale umana che, però, non annulli in sé il particolare e, anzi, lo legittimi in quanto irriducibile totalmente a sé e, perciò, allo stesso tempo, è una modalità che, così facendo, legittima il reale valore del particolare, del singolo individuo, non concedendo, però, la possibilità di alcuna forma di relativismo, poiché si dà, costantemente, come abbiamo visto, una peculiarità universale umana che, in quanto tale, è massimamente comune.
Questo percorso intellettuale e metodologico, dunque, detto in altre parole, mi ha portato a dimostrare che l’ethos del trascendimento è quell’elemento “che lega l’uno ai molti e i molti all’uno”[17], senza che nessuno dei due termini della questione si annichilisca, né possa annichilirsi, nell’altro.
Detto ciò, dimostrato, spero chiaramente ed esaustivamente, ciò che nel punto precedente a) avevo semplicemente esplicato come intenzione, adesso mi dedicherò a formulare delle potenziali critiche che potrebbero essere mosse ad una simile posizione, al fine di poter dare, ancora, successivamente (punto d), possibili risposte a queste potenziali critiche.
d) Possibili argomenti problematici
Siamo giunti, dunque, al momento della problematizzazione della questione; a tal fine, sarà utile comprendere quanto detto finora, al fine di poter far sorgere da-sé i possibili punti problematici: si è cercato, per prima cosa, di evidenziare l’importanza dell’intento di tradurre la questione dell’ethos del trascendimento dal contesto “originario”, per presentarla in maniera, per quanto possibile, autonoma e, dunque, in quanto questione in-sé. Perciò si è analizzata quella caratteristica universale umana che ci propone questa prospettiva (originariamente demartiniana), ed è quella che sostiene che l’esistenza di ogni singolo individuo è determinata “dal trascendere la situazione valorizzandola” (cioè valorizzando la situazione e sé stessi, consapevolmente o meno), e la si valorizza in relazione al proprio orizzonte socio-culturale d’appartenenza ed in relazione alla propria singolarità personale. Così facendo, si è delineato, perciò, un aspetto universale (la situazione che si trascende valorizzandola) e un aspetto “particolare” (il tipo di valorizzazione, determinata da fattori socio-culturali e personali). Dunque è emerso quel cruciale “elemento” che, in relazione ad una riflessione sull’identità in sé distinta, lega un elemento universale al particolare, non riducendolo a sé: l’ethos del trascendimento; quell’esclusivo modo d’essere dell’uomo – trascendere la situazione valorizzandola – che però, appunto, proprio in virtù del significato culturale (socio-culturale e personale) della “valorizzazione” richiede, legittimandola, la peculiare singolarità della persona.
Da ciò, possiamo cominciare a porci alcune domande sulla legittimità di tale prospettiva, per vedere, poi, nel punto successivo, se, una volta “messa alla prova”, questa prospettiva supererà o, quantomeno, possa superare la problematizzazione.
Per prima cosa, questa caratteristica universale, l’ethos del trascendimento, è veramente universale? Più nel dettaglio, 1) qualora si prendessero in esame casi in cui, apparentemente, alcuni singoli non “partecipino” a questo universale – ad esempio casi di persone in coma vegetativo irreversibile (con elettroencefalogramma “piatto”), i neonati (dove ancora non sono pienamente sviluppate le capacità cognitive), le persone affette da disturbi neuro-psichiatrici molto gravi, etc. – questo continuerebbe ad avere il valore di universale in quanto tale? E, conseguentemente, riflettendo su questi casi in cui questo universale dovesse venire a mancare e continuasse, tuttavia, ad essere tale, cosa se ne potrebbe dedurre? Le conseguenze potrebbero far nascere il pericolo di definire non-umani coloro i quali non potessero “partecipare” a quell’universale? Inoltre, 2) realmente la possibilità di dire che il particolare è legittimamente presente nell’universale e che il particolare partecipa di quel carattere universale che lo determina in quanto essere-uomo, che è l’ethos del trascendimento, riesce a produrre un’unità dinamica e non un appiattimento annichilente – simile al meccanismo della sintesi hegeliana – che annulla la singolarità nell’universalità? O, ancora, siamo sicuri che non possa manifestarsi uno “sbilanciamento”, anche se velato, verso uno dei due termini della questione (aprendo la strada al rischio di tornare o verso una concezione essenzialista determinista, che non tiene in considerazione il particolare, o, viceversa, verso un relativismo che tenta di infrangere la possibilità di individuare caratteristiche universali – senza le quali si rischierebbe di perdere l’orizzonte dell’indagine su ciò che è l’uomo e, conseguentemente, delle categorie logiche, ontologiche ed etiche che gli ineriscono)? E, in più, cosa garantisce che ci sia questo e che – assumendo questa prospettiva – questo perduri nel tempo?
Tutte queste domande, racchiuse in due punti per congruenza, possono insidiare notevolmente una prospettiva che si prefigge di riflettere, da un punto di vista antropologico e filosofico, su una determinata visione di identità non univoca e che, perciò, vuole giungere all’individuazione di un equilibrio armonico tra universale e particolare, che legittimi entrambi in un circolo di rinvii vicendevolmente legittimante.
e) Conclusione
In questa conclusione, come precedentemente esposto, cercherò di tessere una trama che metta in luce una prospettiva antropologico-filosofica fondata sull’ethos del trascendimento, in quanto universale che legittima e necessita del particolare nella sua più intima pluralità strutturale. Perciò, brevemente, sarà necessario ripercorrere i passi precedenti e, poi, rispondere alle domande esposte nel punto c); infine, da qui, tenterò di giungere alla conclusione appena accennata.
Dunque, primariamente si è deciso di presentare l’argomentazione, evidenziando l’importanza del background di derivazione della concezione dell’ethos del trascendimento, ma tentando di dimostrare come, poi, questa trascendesse l’orizzonte originario stesso, per ergersi a questione filosofica in-sé e, in relazione a ciò, si è anche esposta chiaramente l’intenzione del lavoro in questione; dopodiché si sono analizzati i termini principali dell’argomentazione, al fine di evitare varie forme di incomprensioni, derivanti dai possibili significati attribuibili agli stessi termini e, da ciò, si è passati alla dimostrazione di ciò che prima era semplicemente stato esposto in termini intenzionali: l’ethos del trascendimento è una caratteristica universale umana che, in quanto tale, accomuna l’uomo ma, tuttavia, non ha la pretesa né l’intenzione di ridurlo a sé e, anzi, valorizza e richiede necessariamente (per la propria struttura intrinseca) la sua singolarità che denota, nella trascendenza valorizzante, la sua partecipazione all’universale; a questo punto, si sono mosse alcune domande che rischierebbero di minare il terreno del percorso che potrebbe intraprendere chi volesse assumere questa prospettiva filosofica e antropologica.
Sarà necessario, perciò, tentare di dare risposte soddisfacenti alle questioni precedentemente esposte.
Si risponde che: 1) l’ethos del trascendimento è una caratteristica universale, poiché riguarda in potenza ogni essere umano; tuttavia, abbiamo detto, precedentemente, che ciò che è universale, in questo senso, inerisce all’essenza di ciò a cui ci si riferisce, ma non coincide con l’essenza stessa: ne è un elemento necessario e costitutivo, ma, appunto, non è l’essenza stessa, né è condizione sufficiente per definire l’essenza a cui ci si riferisce. Da ciò, ne consegue che, dunque, anche situazioni-limite in cui questo ethos del trascendimento non si potesse verificare in atto, tuttavia, in quanto elemento costitutivo dell’essere umano, è sempre presente in potenza. Dunque, i casi precedentemente menzionati, pur non “manifestando” in atto l’ethos del trascendimento nella situazione, sono costituiti, in potenza, da questo elemento universale, massimamente comune al genere umano. La possibilità d’essere in potenza dell’ethos del trascendimento, dunque, non fa che rinforzare l’appartenenza dei singoli (che, per i motivi prima enunciati, non possano esprimere in atto la propria esistenza in termini di ethos del trascendimento) all’essenza di “essere umano”, poiché, appunto, conservano questa peculiarità necessaria per l’Uomo in potenza e, prima o poi, potrebbero tradurla in atto; tuttavia, anche qualora non la traducessero, la manterrebbero in quanto massimamente propria del genere umano, dunque, presente comunque in potenza.
Si risponde che: 2) la questione stessa risponde a tali quesiti da-sé: questo elemento universale, che accomuna il genere umano, che sia presente nel singolo individuo in potenza o in atto, impone la necessità del riconoscimento del singolo individuo in quanto unicum, proprio in virtù della stessa natura di questo elemento universale in quanto tale: l’ethos umano del trascendimento, infatti, pur essendo un elemento universale, massimamente comune al genere umano, è costituito dall’essere “prevalentemente e perlopiù” un riconoscimento polisemico delle valorizzazioni socio-culturali e personali dei singoli individui (i particolari), tramite le quali, appunto, avviene il trascendimento della situazione.
Inversamente proporzionale è il discorso della singolarità che, letta nell’ottica dell’ethos umano al trascendimento, non può ri-aprire la strada alle varie forme di relativismo soggettivista, poiché, pur garantendo, come più volte detto, il carattere soggettivo-socio-culturale dell’elemento valorizzante, individua e ne impone la validità universale all’interno di tutte le singole esistenze: la trascendenza della situazione che avviene tramite la valorizzazione della situazione.
Pertanto, né un appiattimento annichilente per il singolo, per esempio nei termini del sistema hegeliano, né uno sbilanciamento verso uno dei due termini sono permessi dalla struttura costitutiva e costituente della questione in-sé, che garantisce, proprio in virtù di se stessa, un equilibrio armonico tra l’universale così inteso ed il particolare; equilibrio che richiede necessariamente, per essenza della struttura della questione, un “rinviare-respingendo” un termine della questione all’altro.
Questa prospettiva, perciò, ed in virtù della sua struttura stessa, esula da possibili alterazioni “logiche ontologiche ed etiche” e, dunque, trascende contemporaneamente ed implicitamente la possibilità di modificare questo equilibrio-armonico tra universale e particolare “nel tempo”.
Inoltre, fedeli a quel rigore logico del principio aristotelico di non-contraddizione, per cui «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo»[18], si garantisce così, dunque, il costante equilibrio-armonico tra universale e particolare, in relazione ad un’idea di identità polisemica, in sé distinta, che è garantita dall’individuazione di un carattere massimamente comune, universale, del genere umano, che legittima e pretende la singolarità del particolare, proprio all’interno dell’orizzonte strutturale di questo elemento universale e che, tuttavia, non lo costituisce nell’essere-quel-determinato-particolare, ma lo accoglie in un terreno comune, in cui il comune è proprio la molteplicità dei particolari che, così, a loro volta, esprimono la sussistenza dell’elemento universale stesso.
Bibliografia
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BANDLER – J. GRINDER, La struttura della magia, Astrolabio Ubaldini, Roma 1981.
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DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
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GALLINI – F. FAETA, I viaggi al sud di Ernesto De Martino, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
TRAVERSA, Identità etica. Questioni di storiografia filosofica e di consulenza filosofica, Manifestolibri, Roma 2008.
TRAVERSA, L’identità in sé distinta. Agere sequitur esse, Editori Riuniti Univ. Press, Roma 2012.
TRAVERSA, L’unità che lega l’uno ai molti, la Darstellung in Kant, Japadre Editore, L’Aquila-Roma 1991.
TRAVERSA, Metafisica degli accidenti. Dalla logica alla spiritualità: il tessuto delle cose, Manifestolibri, Roma 2004.
Note
[1] La “mossa” metodologica di far trascendere una questione filosofica dall’orizzonte concettuale in cui è sorta (o, meglio, in cui è stata portata alla luce per la prima volta), l’ho appresa da un passaggio contenuto nel testo di Traversa: L’unità che lega l’uno ai molti, la Darstellung in Kant (Japadre, L’Aquila-Roma 1991). Nel dettaglio, mi riferisco al punto in cui Traversa espone la questione riguardante lo schematismo trascendentale, sottolineando che si tratta di una questione sicuramente della filosofia kantiana, ma che, tuttavia, non può essere ridotta a quest’orizzonte concettuale e, necessariamente, trascende il “pensiero” nel quale viene concettualizzata e, così, diviene una questione filosofica in-sé (tant’è che, poche righe dopo, Traversa individua ed inizia un’indagine su due “filosofie” che assumono lo schematismo nella sua totale autonomia: la visione hegeliana e quella heideggeriana), ma leggiamo: «Bisogna dunque dimostrare che lo schematismo è un problema filosofico autonomo e in un certo senso preesistente a quelle filosofie nelle quali viene trattato esplicitamente e ciò va pensato tenendo sempre presente l’avvertenza trascendentale kantiana secondo cui la filosofia in senso “cosmico” è un’idea, quella della “relazione di ogni [cors. mio] conoscenza ai fini essenziali della ragione”, idea che non può essere data in concreto come completamente determinata» (p. 237).
[2] Per quanto riguarda tutto questo “interrogativo”, sono convinto che questo tipo di ragionamento sia valido, in generale, per ogni forma di “pensiero”; quando uso, infatti, termini quali “concretamente”, “pragmaticamente”, “generativo-trasformazionali” mi ricollego, appunto, ad un determinato modello di teoria della comunicazione, che è quello che si rifà alla concezione di pragmatica della comunicazione – diffusa “nella” e “dalla” scuola di Palo Alto – alla teoria linguistica di Noam Chomsky e alle, più recenti, riflessioni di Bandler e Grinder, racchiuse ne La struttura della magia (Astrolabio Ubaldini, Roma 1981). Detto ciò, è facile dedurre che chi scrive è convinto che se “una forma di pensiero”, una filosofia, è, banalmente, quantomeno, una forma di comunicazione di un quid determinato, conseguentemente i modelli ai quali mi sono appena rivolto valgono pienamente ed hanno, dunque, carattere generalissimo nella loro validità anche nei confronti delle riflessioni filosofiche.
[3] Cfr. C. Gallini – F. Faeta, I viaggi al sud di Ernesto De Martino, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
[4] J. Derrida, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 2007.
[5] Cfr. ibid.
[6] Cfr. G. Traversa, L’identità in sé distinta…
[7] Per quanto riguarda questa prospettiva, ritengo che tutto – e con tutto intendo i vari “filoni” etno-antropologici e filosofici che si connettono al relativismo – nasca e si concluda riconducendo queste prospettive a quella famosa, quanto delirante, affermazione “non esistono fatti ma solo interpretazioni” che, logicamente e credo anche ontologicamente, si auto-nega affermandosi.
[8] Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1994, 1028b 34.
[9] Cfr. ibid., 1025a 30-34.
[10] Op. cit.
[11] Cfr. E. De Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di M. Massenzio, Argo, Lecce 1995.
[12] Cfr. ibid.
[13] Cfr. E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[14] Cfr. ibid.
[15] E. De Martino, Storia e Metastoria…
[16] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002.
[17] Cfr. G. Traversa, L’unità che lega l’uno ai molti…
[18] Aristotele, Metafisica, 1005 b, 19-20.