Giuseppe D’Acunto
«Tutte le parole […]
sono parola altrui»*
- Il testo come enunciazione
Per una prima approssimazione alla nozione di testo, di cui dispone Bachtin, partiamo dal prendere in esame il suo saggio: Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane1. E ciò, innanzi tutto, perché tale saggio sviluppa un’«analisi filosofica» che non attiene a nessuna disciplina specifica, ma che si muove «in sfere di confine, alla frontiera cioè di tutte le discipline suddette [linguistica, filologia, teoria della letteratura], nei loro punti d’incontro e d’intersezione»2.
Muovendo dall’assumere il testo (scritto o orale) come «dato […] primario» (PT 291) e come «punto di partenza» (PT 303) di tutte le discipline appena menzionate e definendolo come «enunciazione» (PT 292), intesa quale «unità reale della comunicazione verbale»3, Bachtin lo vede costituito da due «poli […] assoluti» (PT 295). Da un lato, è un «qualcosa di individuale, unico e irripetibile», dall’altro, esso «presuppone un sistema intelligibile (cioè convenzionale all’interno di una data collettività) di segni»: il sistema della lingua. Nel primo momento «sta tutto il suo senso», mentre, per quanto riguarda il secondo, se dietro il testo non ci fosse la lingua, esso, propriamente, non si darebbe e avremmo solo dei fenomeni «privi di ripetibilità linguistica (segnica)» (PT 293). Tale «ripetibilità», se caratterizza il secondo momento, è, invece, completamente assente nel primo: il testo, nel suo profilo unico e individuale, si rivela, infatti, solo nel quadro delle «relazioni dialogiche» che intrattiene con altri testi e con la loro «irripetibilità significante (segnica)».
In altri termini, il testo, in Bachtin, è l’articolazione delle due facce di cui si compone il segno: il senso e il significato. Il primo coincide con l’aspetto originale e irriducibilmente nuovo di ogni atto di parola, il secondo con ciò che, proprio perché può essere riprodotto, è il cardine su cui fanno leva tutti i processi di identificazione4.
Ora, costitutivo per la vita del testo è, secondo Bachtin, non solo l’atto del nostro ritornare a esso (rilettura, citazione, ecc.), in quanto «nuovo anello nella catena storica della comunicazione verbale» (PT 294), ma anche la sua traducibilità: traducibilità come conversione non da una lingua a un’altra, ma dell’una e dell’altra in una «potenziale lingua unitaria» o «lingua delle lingue», la quale, ovviamente, non potrà mai «diventare una concreta lingua singola»5.
La dialogicità è, inoltre, un regime che governa non solo il rapporto dei testi fra loro, ma che vige anche all’interno di qualsiasi testo, singolarmente preso. Ad esempio, fra il testo stesso e il contesto, inteso come ciò che coincide con «il pensiero conoscitivo e valutativo dello studioso».
L’evento della vita del testo, cioè la sua autentica essenza, si svolge sempre sul confine tra due coscienze, tra due soggetti. […] È un incontro di due testi: di quello pronto e di quello che si crea in reazione al primo, quindi un incontro di due soggetti, di due autori (PT 295)6.
E il testo è a tal punto un “soggetto” e un “autore” che, essendo esso la «rivelazione, […] non premeditata dalla necessità empirica, di una persona», in qualche modo, partecipa della libertà che la caratterizza, presentandosi come dotato di un’«interiore necessità» e non ammettendo «né spiegazione causale, né previsione scientifica» (PT 295).
Circa questo nesso essenziale che corre fra il testo e la natura umana, Bachtin afferma anche che ognuno di noi, poiché «si esprime sempre (parla)», in qualsiasi caso «crea un testo (sia pure potenziale)», per cui il compito delle scienze umane è, appunto, quello di studiare l’uomo senza mai prescindere da un riferimento a esso7.
L’atto umano è un testo potenziale e può essere compreso (come atto umano e non come azione fisica) soltanto nel contesto dialogico del suo tempo […]. L’azione fisica dell’uomo deve essere intesa come atto, ma non si può comprendere l’atto fuori della sua possibile (da noi riproducibile) espressione segnica (PT 296 e 303).
Prima, dicevamo che il testo è concepito, da Bachtin, come «enunciazione». Ebbene, tutto ciò implica un confronto critico con la linguistica strutturale di Saussure. Rispetto al privilegio esclusivo accordato da quest’ultima alla lingua, Bachtin intende l’enunciato come un prodotto dell’interazione fra la lingua e il contesto dell’enunciazione: contesto che appartiene alla storia8. Il fatto che l’enunciato abbia un profilo unico e individuale è ciò che deve far sì, e non impedire, che di esso si dia una scienza: scienza cui egli dà il nome di “translinguistica” e che può essere fatta senz’altro corrispondere a ciò che noi, oggi, chiamiamo “pragmatica”9.
Ora, ciò che fa sì che un’«unità fraseologica nel senso ordinario» si converta in «enunciazione», e divenga, così, «rappresentante di uno stile, di una concezione del mondo, di un tipo umano», è la presenza, in essa, di «due voci»: parole che si danno a noi come dotate del carattere della «bivocità» (PT 296) solo se, nell’atto stesso in cui sono prese congiuntamente, si fanno carico del soggetto del discorso.
[C]ome enunciazione (o parte di enunciazione) nessuna proposizione, anche di una sola parola, può mai essere ripetuta: si tratta sempre di una enunciazione nuova10.
Si apre, qui, tutta una sfera che, fino a oggi, è «sfuggita alla scienza»: una sfera che «sta tra l’analisi attinente alla linguistica e quella attinente soltanto al senso», ossia che studia il testo articolando dialetticamente il momento linguistico dell’enunciazione con quello extralinguistico.
L’enunciazione nel suo complesso è organizzata formalmente come tale dai momenti extralinguistici (dialogici) ed è legata anche ad altre enunciazioni. Questi momenti extralinguistici (dialogici) penetrano l’enunciazione anche dall’interno. […] Dal punto di vista dei fini extralinguistici dell’enunciazione tutto ciò che è linguistico è soltanto un mezzo (PT 297).
Non diversamente, nello scritto che contiene la prima formulazione della teoria dell’enunciazione di Bachtin, leggiamo:
la situazione extraverbale è tutt’altro che una semplice causa esterna dell’enunciazione; essa non agisce sull’enunciazione dall’esterno, come una forza meccanica. La situazione entra a far parte dell’enunciazione in quanto parte necessaria costitutiva del suo contenuto semantico11.
In altre parole, mentre i rapporti linguistici sono «rapporti sistemici o lineari tra segni» (PT 314), quelli che l’enunciazione intrattiene con la realtà effettiva, con il soggetto del discorso e con le altre enunciazioni, sono, invece, «rapporti di senso» (PT 315) e tali che intrecciano, fra loro, «una viva trinità» (PT 313).
E proprio in merito al nesso che articola fra loro il momento linguistico e quello extralinguistico, Bachtin parla di una dialettica che si stabilisce fra il «dato» e il «creato». Se, infatti, l’enunciazione «crea sempre qualcosa che prima non era mai esistito, qualcosa di assolutamente nuovo e irripetibile», ebbene, una tale creazione è possibile solo «a partire da qualcosa di dato», qual è, ad esempio, la lingua stessa. In tal senso, «ciò che è dato è trasformato [dall’enunciazione] in ciò che è creato. […] Tutto il dato sembra creato ex novo nel creato e in esso trasfigurato» (PT 310-1). E nel processo della creazione, non solo l’oggetto si crea ex novo, ma lo è «anche il poeta, la sua visione del mondo e i suoi mezzi di espressione» (PT 311).
Nella dialettica che intercorre fra il «dato» e il «creato» si lascia scorgere, in particolare, l’esigenza di Bachtin di andare al di là dei semplici rapporti sincronici che vigono all’interno del sistema della lingua, per cogliere quest’ultima nella sua «poliedrica realtà» e nel suo «divenire» (PT 308): «non solo nelle forme prodotte, ma anche nelle forze produttive (Humboldt diceva: “energia, non ergon”)»12. E proprio in quanto tale, la lingua come sistema non ha che un «carattere puramente potenziale»: il significato di una parola si converte in espressione attuale «soltanto nell’enunciazione e attraverso l’enunciazione»: nel momento, cioè, in cui esso «acquista un rapporto […] con la realtà effettiva» (PT 308).
Soltanto l’enunciazione ha un rapporto diretto con la realtà e con il vivo uomo parlante (soggetto). Nella lingua ci sono soltanto le possibilità potenziali (schemi) di questi rapporti (PT 312).
Venendo, poi, al problema della «voce», la parola che, per Bachtin, funge da «materiale da costruzione dell’opera letteraria», e che è «condizione necessaria di ogni stile», è quella in cui l’autore «sente una voce altrui». In tal senso, egli opera sempre una “partizione delle voci”13, ossia si comporta, ogni volta, come un “drammaturgo”, in quanto «tutte le parole sono da lui distribuite tra voci altrui», compresa l’immagine che dà di se stesso, nonché le maschere dietro cui si nasconde.
Ogni voce autenticamente creativa può sempre essere soltanto una seconda voce nella parola.
Essa è quel «puro rapporto» (PT 299) che, in quanto è esclusivamente «legato al senso, funzionale» (PT 302), è «del tutto priv[o] di referenza ad un oggetto».
Lo scrittore è chi sa lavorare sul linguaggio, trovandosi fuori del linguaggio, è chi ha il dono del parlare indiretto.
Nel fornirci un’immagine di sé, l’autore, infatti, non solo si fa «oggetto per l’altro e per se stesso», ma può anche stabilire un «rapporto con sé come oggetto». L’uno è chiamato da Bachtin il «primo grado di oggettivazione», mentre l’altro è il «secondo grado».
Così facendo, la mia parola diventa oggetto e acquista una seconda voce, sua propria anch’essa. Ma questa seconda voce non ha più una sua ombra, poiché esprime un puro rapporto, mentre tutta la carne oggettivante, materializzante della parola è data dalla prima voce (PT 299).
Molto indicativa, in tal senso, è la distinzione, operata da Bachtin, fra spiegazione e comprensione: nella prima «si ha soltanto una coscienza, un soggetto», nella seconda, invece, «si hanno due coscienze, due soggetti» (PT 300). Quest’ultima, pertanto, possiede un profilo spiccatamente dialogico e ha un «carattere essenzialmente responsivo» (PT 301), laddove la precedente, al contrario, proprio non ce l’ha14. Mentre «la natura non la interroghiamo», perché «essa non ci risponde», laddove si dà un testo, invece, «la ricerca diventa interrogazione e conversazione, cioè dialogo. […] Studiando l’uomo, sempre cerchiamo e troviamo segni e ci sforziamo di comprenderne il significato» (PT 303): segni che ci aprono un accesso a lui, alla sua dimensione psicologica e sociale e alla sua vita15.
Lo spirito (sia il proprio che l’altrui) non può essere dato come una cosa (come l’oggetto immediato delle scienze naturali), ma soltanto nell’espressione segnica, nella realizzazione in testi sia per sé che per l’altro (PT 294).
La comprensione, poi, si dispiega attraverso diverse forme e queste, nella loro articolazione reciproca, mai esclusivamente linguistica, non presentano dei confini netti fra una e l’altra. Decisiva, al riguardo, è la stretta interazione che vige fra la nostra comprensione della lingua come sistema e quella che ha per oggetto un’opera determinata.
La comprensione di qualsiasi opera in una lingua ben conosciuta (sia pure quella materna) arricchisce sempre anche la nostra comprensione di una data lingua come sistema (PT 300).
E ciò perché la comprensione è una funzione destinata, in ogni caso, a completare il testo. Anzi, è proprio nell’atto con cui prolunga la creazione che essa «rivela la varietà dei suoi sensi»16.
Nel caso di opere che, per quanto riguarda lo stile, sono “polifoniche”, quel che la comprensione deve cogliere sono, inoltre, le «interrelazioni di senso» fra i diversi stili: il «senso totale» (PT 301) del loro dialogare. E questo perché nell’immagine artistica entra a far parte non solo ciò che è raffigurato, ma anche il rapporto che l’autore intrattiene con esso: la sua voce e i «riflessi delle altre voci» (PT 304).
Il rapporto dell’autore è un momento costitutivo dell’immagine. […] Non si può separare l’autore dalle immagini […], perché egli entra a far parte di queste immagini come loro componente inalienabile (PT 305).
All’opposto, laddove la dialettica dello stile non viene colta in quanto funzione reale del testo, come nel caso delle raffigurazioni reificanti dell’uomo (l’«approccio “induttivo”, […] proprio del realismo», o la «spiegazione causale» dei suoi atti e dei suoi pensieri, propria del naturalismo), lì alle «voci […] non si può più rispondere, con esse non si può più discutere e i rapporti dialogici con queste […] si spengono» (PT 301).
Affinché in un testo viga un regime strutturalmente dialogico, è importante, poi, che l’immagine del personaggio sia configurata dall’autore come un tu (alla seconda persona) e non semplicemente come un lui (alla terza persona). E l’affermarsi di un «tu autenticamente dialogico» è proprio quella condizione che rende possibile il darsi della “polifonia” nel romanzo dell’Ottocento: “polifonia” che, dopo Dostoevskij, «irrompe imperiosamente in tutta la letteratura mondiale» (PT 302)17.
Circa questo concetto di “polifonia”, una precisazione si fa doverosa. Essa non è semplicemente il concerto delle molte voci: «non è multi-fonia», ossia «un’interazione tra voci indivise». È, piuttosto, «una pluralità di voci divise, incrinate, internamente dialettiche e dialogiche». In poche parole, la condizione di possibilità della “polifonia” «va individuata nel conflitto, e non nel molteplice»18. E ciò, perché il principio costitutivo tanto di un personaggio quanto di un uomo reale è, per Bachtin, il principio di non-coincidenza, che è quello che gli fa dire:
L’uomo [in Dostoevskij] non coincide mai con se stesso. Non gli si può applicare la formula dell’identità: A uguale A19.
Nell’autopercezione naturale primitiva l’io e l’altro sono fusi20.
Ne discende che il discorso dell’autore, specialmente quando egli ricorre al parlare diretto, «è pieno di parole consapevolmente altrui» (PT 305)21. Nel senso che, se l’autore dialoga con un suo personaggio, questo, a sua volta, lo «ascolta […] ed è in grado di rispondergli». È così che la parola del personaggio, per quanto sia una creazione dall’autore, è un qualcosa che esorbita dal suo «orizzonte monologico»22. In tal senso, il rapporto fra l’autore e il suo personaggio è collocato, da Bachtin, all’insegna dell’«extralocalità» e della «trasgredienza»: del “trovarsi fuori” e dell’“eccedenza” del primo rispetto al secondo. Ed è proprio una tale condizione ciò che fa sì che il personaggio, venendo rivestito dall’autore di una «nuova carne», sia generato da lui come un «uomo nuovo su un nuovo piano dell’esistenza»23.
- Linguistica della parola dialogica
In precedenza, abbiamo incontrato la definizione secondo cui lo scrittore è chi ha «il dono del parlare indiretto» (PT 299). Ebbene, Bachtin vuole rimarcare, in tal modo, il fatto che ogni parola – e la parola romanzesca, in particolare – porta sempre iscritta in sé la “traccia dell’altro”24, intesa come cifra sia della sua provenienza (degli usi precedenti di essa), sia della sua destinazione (di colui cui è diretta). Anzi, se il parlante (lo scrittore) ha «diritti inalienabili» sulla sua parola, uguali diritti li ha anche l’ascoltatore (il lettore), nonché tutti quelli le cui voci passate risuonano in essa.
In ogni parola ci sono voci a volte infinitamente lontane, anonime, quasi impersonali […], quasi inafferrabili (PT 314).
È così che la parola è sempre «un dramma, in cui partecipano [almeno] tre personaggi», dramma che «si recita fuori dell’autore ed è inammissibile la sua introiezione all’interno dell’autore» (PT 312)25.
La «parola viva» del romanzo, e non l’«astratta parola linguistica», ha, infatti, una «vita sociale» che si svolge al di «fuori dello studio dell’artista, nella vastità delle piazze, delle vie, delle città». Essa è, pertanto, «pluridiscorsività sociale, […] plurilinguismo, e plurivocità individuale artisticamente organizzate». In tal senso, «storicamente reale è [solo] la lingua come divenire pluridiscorsivo, brulicante di lingue future e passate»26.
In merito a quest’ultimo punto, lo statuto della parola romanzesca è fatto consistere, da Bachtin, in una ben precisa «capacità della lingua»: quella grazie a cui essa «ne raffigura un’altra», nel senso che, in quanto «lingua raffigurata» funge, al tempo stesso, da «oggetto di raffigurazione», così che il «parlare di essa» è, simultaneamente, un «parlare in essa e con essa». La parola romanzesca opererebbe, così, una sorta di “rivoluzione copernicana” entro la storia della cultura umana: in quanto espressione di una coscienza linguistica che, rinunciando all’«assolutismo di una lingua unica e unitaria», non accetta più la propria lingua come «solo centro semantico-verbale del mondo», essa è caratterizzata dal fatto di riconoscere alla «pluralità delle lingue nazionali e soprattutto sociali» l’alta dignità di «lingue della verità»27.
Ora, tale «pluridiscorsività» funge da «punto di applicazione» non solo di quelle «forze […] centripete» che determinano l’«appartenenza [di ogni enunciazione] al sistema normativo-centralizzante della lingua unitaria», ma anche di quelle «centrifughe forze stratificanti»28 che, dando un’impronta di unicità allo stile e all’intonazione di essa 29, la configurano, propriamente, come espressione. Due sono, infatti, i momenti che caratterizzano l’enunciazione. Prima di tutto, attraverso la scelta dei mezzi linguistici e del genere del discorso, essa predispone un contenuto determinato all’«oggetto del senso». È il «momento iniziale dell’enunciazione, quello che determina le sue peculiarità stilistico-compositive». Dopo di che, c’è il «momento espressivo»: «il rapporto soggettivo, fatto di emozione e di valutazione, che il parlante instaura col contenuto dell’oggetto del senso della sua enunciazione»30.
Sulla polarità fra forze centripete unificanti e forze centrifughe stratificanti, Bachtin ha costruito anche l’opposizione fra poesia e romanzo, fra l’una che si sviluppa nell’alveo delle prime e l’altro che si sviluppa nell’alveo delle seconde. Ne discende che mentre la parola poetica, coltivando l’ideale di una lingua unica e unitaria, s’immerge in un oggetto che presenta una «inesauribile ricchezza», data dalla «sua natura “vergine”, ancora “non detta”», la parola romanzesca, in quanto «centro di voci pluridiscorsive», si offre, invece, nel segno dell’«opinione generale», del «noto» e del «già detto»31. Inoltre, mentre il poeta spoglia le parole dei toni e delle intenzioni “altrui” e le usa «in modo che perd[a]no il loro legame con determinati strati intenzionali della lingua e con determinati contesti», il romanziere è, invece, colui che, «accoglie[ndo] la pluridiscorsività e il plurilinguismo della lingua letteraria e extraletteraria nella sua opera»32, costruisce, proprio così, l’unità dello stile di essa. Qui, infatti, la stratificazione della lingua funge da principio sistematico nel cui segno lo scrittore articola e struttura il tema intenzionale della sua creazione. In tal senso, nella parola romanzesca, «il dialogo sociale […] risuona […] in tutti i suoi momenti sia “contenutistici” sia anche “formali”»33.
Il termine “risuonare”, usato, qui, da Bachtin in riferimento al modo in cui le voci “altrui” abitano, già da sempre, la parola romanzesca, la iscrive, al pari dell’enunciazione quotidiana, nel contesto tacito e non espresso della vita di una data comunità linguistica, con le sue scelte e le sue valutazioni implicite. Anzi, se già nella struttura grammaticale di un idioma «si riflette l’evento dell’interrelazione dei parlanti», tutto ciò conferisce un’impronta decisiva allo stile e al tono unitario della creazione romanzesca, relativamente al «grado di prossimità»34 che si stabilisce fra l’autore e suoi personaggi.
Il romanzo si caratterizzerebbe, così, per quella «parola a due voci» o a «doppia direzione»35 che, essendo la manifestazione della vera vita di essa, ha la proprietà di dirigersi, oltre che verso l’oggetto del discorso, verso la parola del personaggio elaborata come parola “altrui”. E ciò a differenza, ancora una volta, dalla parola poetica, la quale, proprio all’opposto, «esige l’uniformità di tutte le parole» e, cioè, «la loro riduzione ad un unico denominatore intenzionale»36. Sia chiaro, però. Non che parola poetica non presenti anch’essa una struttura «bivoca» e «bisensa», esattamente come la parola prosastica. È solo che, nella prima, il rapporto fra i due sensi non è mai di tipo dialogico. In essa, ciò che la «bisemia» del simbolo tende a soddisfare è sempre una sola voce, ossia un unico «sistema accentuale».
Tra la parola e l’oggetto si svolge tutto l’evento, tutto il gioco del simbolo poetico37.
Simbolo che non potrà sopportare mai l’irruzione della voce “altrui”, se non al prezzo della sua stessa dissoluzione. In sostanza, lo stesso fenomeno di «sdoppiamento (bivocità) della parola», mentre, nel caso della poesia, soddisfa un «unico sistema linguistico isolato e unitario», nonché uno «stile monologicamente controllato», nel caso del romanzo, invece, dà vita a «due voci dialogicamente correlate»: a un «dialogo concentrato di due voci, di due concezioni del mondo, di due lingue»38.
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Note
* Dagli appunti del 1970-71, in M. Bachtin, 1988: 361.
1 Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane (1959-1961; d’ora in poi, indicato direttamente con la sigla PT), in M. Bachtin, 1988: 291-319. Sotto il titolo: Il problema del testo, esiste un’altra tr. it., di N. Marcialis, di questo scritto di Bachtin. Si trova in: Aa. Vv., 1977: 197-229.
2 Sul concetto di confine, in Bachtin, come nucleo germinale della sua elaborazione teorica, in quanto chiave che gli consente di accedere alla vita della psiche, dei testi e della cultura, nonché di guadagnare una definizione del metodo stesso della sua analisi, cfr. S. Salvestroni, Il dialogo, il confine, il cronotopo nel pensiero di Michail Bachtin, in Aa. Vv., 1986: 17-34.
3 Il problema dei generi del discorso (1952-1953), in M. Bachtin, 1988: 253. Qui, leggiamo che la linguistica del XIX secolo, a partire da Humboldt, ha, «se non ignorata, certo sottovalutata [la funzione comunicativa del linguaggio]»: la lingua è stata studiata unicamente «dal punto di vista del parlante», come se quest’ultimo «parlasse solo». E laddove il ruolo dell’altro è stato preso in considerazione, lo è stato solamente come «ascoltatore, che si limita a intendere passivamente il parlante. […] Il linguaggio ha bisogno soltanto del parlante e dell’oggetto del suo discorso, e se poi può servire da mezzo di comunicazione, si tratta di una funzione accessoria, che non ne tocca la sostanza» (pp. 253-4).
4 Su questo punto, cfr. A. Ponzio, 1997: 101-15 (cap. V: «Segno e senso in Bachtin»).
5 È una tesi, questa, che è stata sostenuta anche da Benjamin, quando ha affermato, ad esempio, che il compito di chi traduce da una lingua a un’altra è quello di «far apparire […] entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande». Cfr. Il compito del traduttore, in W. Benjamin, 1981: 49.
6 Sulla nozione molto ampia di “autorialità”, di cui dispone Bachtin, per cui essa è una prerogativa non solo di persone, ma anche dell’enunciazione, quale si estrinseca tanto «in parole e testi», quanto «in pensieri e atti», cfr. K. Clark – M. Holquist, 1991: 100-1.
7 Su questo punto, cfr. T. Todorov, 1990, il quale sottolinea il fatto che, per Bachtin, ciò che costituisce l’oggetto delle scienze umane «non è semplicemente l’uomo», ma, più precisamente, «l’uomo in quanto produttore di testi» (p. 28). E proprio in tal senso, Bachtin afferma che lo «specifico delle scienze umane» consiste in «un pensiero che è rivolto su altri pensieri […], realizzati e dati allo studioso soltanto sotto forma di testo» (PT 292). «Quando l’uomo è studiato al di fuori del testo e indipendentemente da esso, non si hanno più scienze umane» (PT 296).
8 Su Bachtin critico di Saussure, cfr. M. Angenot, Bachtin critico di Saussure e la ricerca contemporanea, in Aa. Vv., 1984: 213-32. Qui, leggiamo che l’obiezione principale che Bachtin muove a Saussure è che egli opererebbe un depauperamento dei fatti linguistici, introducendo due feticismi, quello della sincronia e quello del codice o della langue. In base a quest’ultimo, le distorsioni del linguaggio, nonché i rischi annessi alla comunicazione, sarebbero attribuiti a fatti di parole, individuali, accidentali e, in quanto tali, non passibili di uno studio scientifico rigoroso.
9 In realtà, per designare la nuova scienza che ha in mente, Bachtin usa il termine metalingvistika e chi ha proposto di tradurlo con “translinguistica” è stato proprio T. Todorov, 1990: 37-43. E ciò molto opportunamente, perché «la metalingvistika di Bachtin è del tutto differente dal metalinguaggio». Cfr. G. Bottiroli, 2006: 310, nota 27. Circa l’opportunità di tradurre il termine bachtiniano metalingvistika con “translinguistica”, piuttosto che con metalinguistica, conviene anche J. Kristeva, Una poetica in rovina, in Aa. Vv., 1984: 57-72: 70.
10 Ed è proprio intorno a questo punto che si gioca la differenza sostanziale fra linguistica e “translinguistica”, chiarita molto bene da Bottiroli, nel testo da noi appena citato: «per la prima, due realizzazioni dello stesso tipo sono sostanzialmente identiche, la loro differenza è, per così dire, indifferente; l’individualità è una variabile opzionale, di cui la scienza ha diritto di non interessarsi; per la seconda, due enunciati sono due atti differenti, e la loro diversità è insopprimibile» (p. 312). In altri termini, «mentre [per la linguistica] le unità sintagmatiche della lingua, cioè le frasi, sono ripetizioni, [per la “translinguistica”] l’enunciato è ogni volta unico» (p. 311). In tal senso, nella “translinguistica” «è implicita […] una teoria dell’interpretazione» (p. 314).
11 La parola nella vita e nella poesia. Introduzione ai problemi di una poetica sociologica (1926), in M. Bachtin, 2003: 34-64: 42.
12 T. Todorov, 1990: 32. Un richiamo esplicito di Bachtin a Humboldt, facente leva sulla differenza fra linguaggio come «attività» e come «incessante processo creativo (energeia)» e lingua come «sistema […] stabile» e come «prodotto realizzato (ergon)», si trova in Le più recenti tendenze del pensiero linguistico occidentale (1928), in M. Bachtin, 2003: 65-92: 68.
13 Ci appropriamo, qui, del bel titolo del libro di J.-L. Nancy, 1993. In questo testo, che contiene un’interpretazione dello Ione di Platone (pp. 61-98), leggiamo che «Platone stesso non è che la differenza delle voci dei suoi personaggi, e la differenza generale – generale e sempre singolare – di ogni voce rispetto al logos» (p. 88). In realtà, di «partizione delle voci» parla anche lo stesso Bachtin, laddove, intendendola come alternanza dei soggetti parlanti, ne fa una delle caratteristiche strutturali del dialogo. Cfr. Dagli appunti del 1970-71, in M. Bachtin, 1988: 365.
14 Nel parlare di comprensione, piuttosto che di conoscenza, e nel contrapporla alla spiegazione, Bachtin intende riallacciarsi a quella tradizione ermeneutica che si usa collegare al nome di Dilthey. Egli, lungi dal concepirla come una forma di empatia, la intende, all’opposto, proprio in virtù del suo carattere responsivo, come quella trasposizione in ciò che è altro da sé che non sopprime l’autonomia delle due coscienze dialoganti. Su questo punto, cfr. R. Salizzoni, 1980: 96-107, il quale, parlando dell’atteggiamento critico con cui Bachtin recepisce la teoria dell’Einfühlung, afferma che, se, per lui, «la coscienza è attività di posizione dei propri oggetti», allora «l’altro, come tale, richiederà di essere posto attraverso un atto diverso»: un atto che consiste in una «proiezione imitante operata dall’io, che detterà l’esternità necessaria del rapporto con i vissuti dell’altro» (p. 101).
15 Qui, particolarmente evidente è il debito scientifico di Bachtin nei confronti della riflessione, in particolare, dell’ultimo Dilthey: quello, per intenderci, che procura alle scienze dello spirito una fondazione non più di tipo psicologico-soggettivo, ma di tipo ermeneutico-oggettivo. Nei Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910/11), ad esempio, la categoria di significato gode di un primato ontologico, in quanto, incarnandosi in quei prodotti storici, forniti del carattere dell’individualità, in cui la vita dell’uomo raggiunge la sua obiettivazione, è ciò che può essere attinto solo nel segno di un “atteggiamento comprendente”. Su ciò, cfr. G. D’Acunto, 2013: 221-36. Una critica al persistente idealismo di Dilthey, che ha per oggetto, però, la fase del suo pensiero in cui la psicologia funge da fondamento delle scienze dello spirito, si trova nel libro (ispirato da Bachtin o, forse, scritto proprio da lui) di V. N. Vološinov, 1976, pp. 83-5.
16 Dagli appunti del 1970-71, in M. Bachtin, 1988: 360. Circa questo modo di intendere la comprensione come «esperienza della finitezza umana di fronte al compito infinito dell’attingimento dei sensi della realtà culturale», V. Strada, Tra romanzo e realtà: storia di una riflessione critica, introduzione a M. Bachtin, 1986: 7-58, imposta un confronto critico fra Gadamer e Bachtin, affermando che, per entrambi, «il dialogo costituisce un modello del fenomeno ermeneutico. […] Un dialogo, quello ermeneutico, nel quale a mutare sono le domande che, dotate di una loro storicità, nascono e muoiono, spegnendo e attuando potenzialità di senso» (p. 37).
17 Sul carattere “polifonico” del romanzo di Dostoevskij, cfr., naturalmente, M. Bachtin, 1968, dove leggiamo che lo scrittore russo avrebbe creato «un tipo affatto nuovo di pensiero artistico che possiamo convenzionalmente chiamare polifonico» (p. 9). Su tale opera, come quella in cui Bachtin suffraga la sua teoria “translinguistica” «non solo con affermazioni di principio ma anche con probanti verifiche testuali», cfr. P. Jachia, 1992: 111. Bachtin ritorna su questo tema nel testo intitolato Sulla polifonicità dei romanzi di Dostoevskij (1975), in appendice a M. Bachtin, 1986: 131-41.
18 G. Bottiroli, 2006: 307, 304, 305 e 308. A riprova del fatto che la voce ha un profilo strutturalmente dialogico, Bachtin fa uso del termine russo slovo, il quale, «un po’ come il logos greco, significa sia “parola” sia “discorso”». Cfr. T. Todorov, 1990: 39.
19 M. Bachtin, 1968: 81. Più in generale, per Bachtin, la condizione cui ubbidisce l’estetica della creazione letteraria è data proprio dal fatto che quest’ultima, necessitando di due partecipanti, «presuppone due coscienze non coincidenti». Cfr. L’autore e l’eroe nell’attività estetica (1920-1924), in M. Bachtin, 1988: 5-187: 21.
20 Dagli appunti del 1970-71, in M. Bachtin, 1988: 365. Questo tema della non-coincidenza dell’uomo con se stesso, Bachtin lo ha trattato, in particolare, in rapporto al motivo della maschera nella cultura popolare. «È il motivo [quello della maschera] più complesso e più ricco di significato della cultura popolare. La maschera è legata alla […] negazione gioiosa dell’identità e del significato unico, alla negazione della stupida coincidenza con se stessi». Cfr. M. Bachtin, 1979: 47.
21 Circa questa tesi, relativa all’«azione spossessante e invasiva della parola altrui», sempre Bottiroli, nell’opera precedentemente citata, afferma che, qui, Bachtin anticiperebbe Lacan e, in particolare, ciò che quest’ultimo indica come «la funzione dell’Altro con la A maiuscola» (p. 303).
22 M. Bachtin, 1968: 86 e 89. E proprio in Dostoevskij, i suoi personaggi sono a tal punto degli «uomini liberi» che possono, addirittura, «non condividerne le opinioni e […] ribellarsi contro di lui» (p. 12).
23 M. Bachtin, 1988: 14. Sul concetto di “extralocalità”, come uno dei cardini dell’estetica bachtinina, cfr. D. J. Haynes, 1999: 105-33. A. Ponzio, 1992, propone un accostamento di questo concetto con la «riflessione di Blanchot sul rapporto scrittura/morte» (p. 11). Se andiamo alle pagine dedicate da M. Blanchot, 1967, a Kafka, vi leggiamo, infatti, che il poeta, l’artista, è colui per il quale «non esiste […] che il di fuori, uno scorrere dell’eterno “di fuori”» (p. 66).
24 Appropriandoci, questa volta, del titolo dell’ed. it. di una raccolta di saggi di Lévinas (Pironti, Napoli 1979), intendiamo mettere in evidenza le affinità che sussistono fra il filosofo francese e Bachtin. Su ciò, cfr. A. Ponzio, Il rapporto di alterità in Bachtin, Blanchot, Lévinas, in Aa. Vv., 1986: 118-35, il quale parla dei tre autori in questione come di «tre “filosofi del linguaggio”, che del linguaggio considerano l’apertura verso un’alterità irriducibile» (p. 118). «Ciò che soprattutto accomuna Bachtin e Lévinas è l’aver individuato entrambi […] l’alterità nella sfera stessa dell’io, senza che ciò ne comporti l’assimilazione […]. Sia in Bachtin sia in Lévinas, il rapporto con l’altro non è posto in termini di differenza distintiva, che renderebbe l’alterità relativa, né di opposizione, che renderebbe la loro alterità dialettica e non dialogica […]. Il rapporto con l’altro è invece inteso come un in più, come oltrepassamento del pensiero oggettivante, come fuoriuscita dal rapporto soggetto-oggetto e dal rapporto di scambio eguale» (pp. 123-4). Per un’analisi comparativa delle posizioni filosofiche di Bachtin e di Lévinas, cfr., sempre di A. Ponzio, 20082: 119-32.
25 In merito a questa tesi di Bachtin, P. Montani, 1996, afferma che il romanzo verrebbe ad acquistare, così, «una caratteristica “esemplarità ermeneutica”»: quella per cui «l’esperienza del comprendere non sta solo nella comprensione del senso che è di volta in volta in gioco […], ma anche nella comprensione dell’altro; meglio: nella comprensione del debito che il senso non finisce di contrarre nei confronti della sua provenienza costitutivamente eterologica», della «sua costitutiva “extralocalità”» (p. 128). Su Bachtin come pensatore che si colloca in un punto di «convergenza non fortuita» fra «istanze propriamente linguistiche» e «istanze filosofiche fortemente caratterizzate in senso ermeneutico», cfr. sempre P. Montani, 1985: 133.
26 La parola nel romanzo (1934-1935), in M. Bachtin, 1979: 67-230: 67 e 71.
27 M. Bachtin, 1979: 166 e 174.
28 M. Bachtin, 1979: 80.
29 Sull’intonazione espressiva (distinta da quella semplicemente grammaticale), in quanto fenomeno che appartiene, propriamente, all’enunciazione, cfr. S. Sini, 1998/3: 129-57. Qui, a proposito dell’intonazione emotivo-volitiva, leggiamo che essa è, per Bachtin, il «luogo originario della creatività linguistica. […] È come se dentro il tono di voce si generasse un bozzolo poetico, un nucleo di senso ancora involtolato, non proprio implicito, ma neppure del tutto disteso, privo di fisionomia, ma già presente nei suoi caratteri genetici» (p. 136).
30 Il problema dei generi del discorso, in M. Bachtin, 1988: 272. In Le più recenti tendenze del pensiero linguistico occidentale, cit., Bachtin, in merito alla sua concezione dell’espressione, trova un alleato in Croce. Discutendo la tesi di quest’ultimo secondo cui, poiché ogni espressione «è fondamentalmente artistica», si dà una piena coincidenza fra linguistica ed estetica, afferma che «anche per Croce l’enunciazione individuale è il fenomeno fondamentale del linguaggio» (p. 71).
31 M. Bachtin, 1979: 86-7.
32 M. Bachtin, 1979: 105-6.
33 M. Bachtin, 1979: 108.
34 La parola nella vita e nella poesia, in M. Bachtin, 2003: 56-7.
35 M. Bachtin, 1968: 239 e 241.
36 M. Bachtin, 1968: 259.
37 M. Bachtin, 1979: 136.
38 M. Bachtin, 1979: 133-4. Sul fatto che il romanzo, per Bachtin, «non è un genere come gli altri», ma «una forma d’arte indipendente ed autonoma», cfr. S. Zangrando, 2006: 229-30.