Giuseppe D’Acunto
Sotto il titolo La custodia del senso. Necessità e resistenza della poesia, a cura di R. Maier, EDB, Bologna 2016, esce un nuovo libro di Jean-Luc Nancy, il quale, nell’edizione originale francese del 2004, mette in primo piano, invece, il secondo dei due termini che compaiono qui nel sottotitolo. Si muove da una definizione della poesia come di quell’ambito che dischiude l’«accesso a una soglia di senso» (p. 15) o, meglio, come di ciò che provvede a che un tale accesso stesso si offra e abbia luogo. “Poesia” si riferisce, così, alla cifra unitaria, ma indeterminata, di un insieme di qualità che si possono dare anche al di fuori del genere corrispondente e che chiedono di essere nominate facendo ricorso a termini quali: ricchezza, splendore, profondità ecc. Ne discende che “poesia” è un qualcosa che, se, da un lato, è sempre identico a se stesso, dall’altro, anche non lo è, in quanto «immagine di una realtà a cui non si può assegnare un senso proprio, propriamente proprio» (p. 17). Anzi, forse, esattamente in questa “improprietà” sta il tratto che la contraddistingue in ciò che essa autenticamente è.
E “improprietà” significa anche che la poesia dispone, all’occorrenza, del dono di sottrarsi, sopprimersi, negarsi: di impedire che quel che eleva e tocca il nostro animo, venendo estromesso dal luogo da cui ci parla, possa essere ridotto a livello di ciò che è facilmente accessibile e a portata di mano. L’accesso, in poesia, si costituisce, infatti, come un qualcosa sì di difficile, ma che deve cedere, che deve farsi. E ciò, appunto, negando se stesso e quel che esso innanzi tutto è. In poche parole, nella poesia, il sottrarsi dell’accesso, ossia il suo farsi nella difficoltà, altro non è che la verità dell’accesso stesso.
Negatività, riferita alla poesia, significa, allora, che quel che essa rifiuta, in sede di accesso al senso, è tutto ciò che lo rende non tanto unico, insostituibile e assoluto, quanto una via fra le altre, un facile cammino, un passaggio, tutto ciò che lo colloca nell’ordine della precisione, piuttosto che in quello della perfezione e della «sconosciuta esattezza» (p. 22). Pertanto, l’accesso, in poesia, «avviene, ogni volta, una volta sola». E ciò «non in quanto imperfetto, ma, al contrario, perché esso, tutte le volte che avviene (tutte le volte che cede), è sempre perfetto. […] La poesia non insegna altro che questa perfezione» (p. 23).
Perfezione che vale tanto in rapporto all’intero poema, quanto in rapporto al singolo verso: entrambi sono la cifra, infatti, di «un “fare” compiuto» e il primo ha il profilo di un «tutto unico» esattamente come lo ha il secondo. La dizione di cui l’uno e l’altro si fanno carico non è nient’altro che «il compito proprio della lingua» (p. 24): il compito di articolare esattamente il senso, dove è chiaro che si dà senso solo a patto che ci sia articolazione. Ma articolazione non è un che di esclusivamente verbale, si può dare dentro o fuori il linguaggio, poiché ciò cui essa provvede, proprio in quanto esatta (ex-actum), è alla realizzazione integrale dell’atto stesso di disposizione al senso.
È così che la poesia, ogni volta che accade, lo fa come «un’esazione indebita di senso» (p. 25), dove quest’ultimo se, da un lato, si concede alla parola, dall’altro, è un sovrappiù e un eccesso non richiesto, di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno: l’eccesso d’essere rispetto all’essere stesso. Per questo, “poesia” dice sempre di più di quel che essa vuol dire o, meglio, dice «il più-che-dire in quanto tale» (p. 26): in quanto è ciò che conferisce la misura stessa al dire. In altre parole, la poesia può essere definita come «l’eccellenza della cosa fatta», perché non c’è nulla di più compiuto e perfetto di quanto non sia l’accesso al senso, il quale o si dà tutto intero, in un’esattezza assoluta, o non si dà affatto. «Quando l’accesso ha luogo, noi scopriamo che era sempre là e che al contempo tornerà sempre» (p. 27). E la poesia è non solo eccellenza del fare, ma è anche «il primo fare»: «il fare in quanto sempre primo, ogni volta originale» (p. 28).
Ma, a questo punto, si chiede Nancy: che cosa vuol dire fare? Esso è ciò che porta a compimento e si compie: ciò che pone in essere nel segno della perfezione e ciò che, proprio in quanto negazione, disfa se stesso, per realizzarsi infinitamente, al di là della sua opera stessa. Ora, la cosa che viene, a un tempo, fatta-essere e disfatta altro non è che l’accesso al senso: fatta-essere, in quanto esattezza e disposizione, disfatta, in quanto processo, transito e passaggio. «È per questo che il poema, o il verso, è un senso negato come intenzione (come voler-dire) e posto come compiutezza» (p. 29).
Al saggio di Nancy, che qui si chiude, intitolato Fare la poesia, segue una conversazione di lui con Pierre Alféri, poeta e figlio di Derrida, intitolata Fare i conti con la poesia. Il filosofo francese, interrogato sul motivo per cui la poesia, dopo il romanticismo, avrebbe perduto il suo status di rappresentante delle arti risponde che se, nel periodo in questione, “poesia” sta per un termine assoluto, le altre arti stanno, invece, per un qualcosa che tende a legittimarsi come una realtà propria e autoreferenziale. In tal modo, l’arte moderna sarebbe da intendere come il raggrupparsi intorno alla parola “arte” di una serie di pratiche che avevano smarrito il senso di quella identità comune che conferiva loro proprio la poesia. E mentre la poesia, come «organo dell’infinito» (p. 36), promuoveva il fluire del senso, le altre arti opponevano, invece, a esso un rifiuto di carattere formale.
A proposito poi del nesso che si dà fra poesia e filosofia, Nancy afferma che esse non devono rinunciare a intrattenere «una relazione intima, complessa, conflittuale» (p. 40). L’una e l’altra devono farsi carico proprio di ciò che hanno in comune nel loro rapporto alla lingua: di ciò che, essendo da esse condiviso, al tempo stesso, le divide all’interno di un tale rapporto.
E arriviamo così alla tesi che dà il titolo a questa conversazione: per Nancy, nostro compito è di fare i conti con la poesia in tutto ciò che facciamo e pensiamo. Con la “poesia”, «in tutta l’indeterminatezza del suo senso e malgrado tale indeterminatezza, non c’è nulla da fare. Essa è là, […] anche quando noi la rigettiamo, ne sospettiamo, la detestiamo» (p. 47). Ora, è proprio questo ciò che il filosofo francese intende con resistenza: resistenza, innanzi tutto, al discorso, alla pretesa di esso di costruire il vero nell’atto preciso in cui costruisce se stesso, rinchiudendosi autoreferenzialmente nel giro della propria costruzione e comprensione. Ma resistenza nella poesia significa anche un’altra cosa: si riferisce a ciò che, nella lingua, rimanda a un qualcosa di più della lingua stessa, all’articolazione che la precede, intesa come cadenza, ritmo, inflessione, spaziatura, piega, intesa come un «disegno, fuori dal continuum del senso» (p. 54). Si tratta di quell’aspetto che, conferendo alla lingua il suo tratto cosiddetto “popolare”, fa sì che essa non sia mai, da noi, interamente domabile e dominabile.
Il che è proprio ciò che, piuttosto che fare della lingua una tecnica, le conferisce il carattere di una tecnicità di tipo simbolico, vertendo su un insieme, peraltro variabile, dal profilo diacronico, però strutturato attraverso tagli sincronici: di un insieme i cui elementi si raccolgono nel segno dell’«idea di auseinandergeschrieben [diviso da scritte] di Celan» (p. 57), dove, cioè, l’articolazione della misura, la delimitazione e il modo, vengono raggiunti distribuendo e, al tempo stesso, separando. È così che la poesia, mettendo in gioco la differenza fra le lingue, mette in gioco anche la differenza all’interno di ciascuna lingua.
Perveniamo, per questa via, a un ulteriore significato del termine resistenza attribuito alla poesia, nel senso che ciò cui essa resiste è a diventare l’indicatore generale di una certa qualità o proprietà riferibile tanto a tutte le arti, quanto a tutte le pratiche non artistiche (quando parliamo, ad esempio, della “poesia” di una pittura, di una musica, di un film). Riguardo al primo punto, infatti, la poesia sta nel luogo in cui le altre arti sì si incontrano, ma solo nella misura in cui, dividendosi fra loro, la condividono.
Nancy conclude affermando che la resistenza della poesia è, oggi, quanto mai importante, in un’epoca, come la nostra, esposta più di ogni altra alla chiacchiera, ossia alla dismisura della lingua, alla sua mancanza di esattezza e alla sua approssimazione senza fine. La via che si presenta alla poesia è, così, quella di guadagnare la sfera del silenzio, inteso, però, non come un auto-superamento in direzione dell’ineffabile, ma come «il confine esatto, l’orizzonte della lingua, la linea tracciata chiaramente sul suo limite e, allo stesso tempo, sulla soglia di ogni arte. Linea che, dividendole, fa loro con-dividere, in quanto incommensurabili, un essere silenzioso – o, se si preferisce, un silenzio dell’essere» (p. 61).