Nicola Cotrone, Seyla Benhabib. Nuovi paradigmi democratici, Mimesis, Milano 2019
(presentazione con richiami a un articolo di Edoardo Greblo)
Pasquale Amato
Seyla Benhabib afferma: «l’attraversamento dei confini e la rivendicazione dell’accesso a una comunità politica differente non costituisce un atto criminale, bensì l’espressione di una libertà umana e il perseguimento di condizioni di vita migliori in un mondo che dobbiamo condividere con i nostri simili»[1]. Credo che queste poche righe rappresentino in maniera sintetica il nocciolo del pensiero di Seyla Benhabib. Nicola Cotrone, nel suo testo Seyla Benhabib. Nuovi paradigmi democratici[2], espone il percorso di riflessione che ormai da più di 30 anni Seyla Benhabib conduce su temi come il cosmopolitismo e il multiculturalismo, e sulle problematiche che derivano dalla globalizzazione e dall’incremento dei flussi migratori.
Seyla Benhabib è nata in Turchia, a Istanbul, nel 1950, e la sua famiglia era di origini ebraiche. È però cresciuta, ha studiato e si è formata prima in Germania e poi negli Stati Uniti, la sua esperienza di vita quindi dimostra come culture diverse e in conflitto possano convivere in una prospettiva di dialogo interculturale.
L’aspetto che mi ha colpito di più nel testo di Nicola Cotrone, e che mi sembra interessante e stimolante sottolineare, è quanto sia frequente, trattando questi temi, imbattersi nel paradosso e nella contraddizione. Che cosa succede quando un popolo, legittimato nella sua sovranità ad autogovernarsi, si confronta con la questione dell’appartenenza e dell’accoglienza? Quando persone di altri paesi e di culture diverse chiedono accoglienza, le norme nazionali che legittimano il popolo alla sovranità e all’autodeterminazione entrano in contrasto con le norme sovranazionali che sanciscono i diritti dell’“altro” (inteso come profugo, migrante o richiedente asilo). E allora, visto che autogovernarsi significa anche autocostituirsi, che succede quando un popolo deve decidere chi faccia parte del popolo stesso e a quali condizioni?
Prendo come riferimento un articolo scritto da Edoardo Greblo e pubblicato nel 2015 su MicroMega[3], perché credo dia conto in maniera significativa di uno di quei paradossi che emergono dal testo di Cotrone, probabilmente quello principale, da cui tutti gli altri scaturiscono. Greblo approfondisce il “paradosso del demos”, spesso citando Seyla Benhabib, e dice: «La globalizzazione ha innescato un dibattito sul campo di applicazione della democrazia e l’incremento dei flussi migratori ha imposto l’esigenza di ripensare i criteri dell’appartenenza politica. Il dibattito investe proprio “i confini della comunità politica” e la possibilità di trasformarli, negoziarli o renderli “porosi”»[4], cioè attraversabili[5]. Come si sa, demos significa popolo in greco, ma è anche un termine utilizzato per indicare il governo popolare democratico. La sovranità democratica di un popolo agisce su un territorio delimitato da confini, all’interno dei quali il popolo si autogoverna. L’autogoverno, però, implica che il popolo si auto-costituisca, cioè che definisca da sé di essere, appunto, un popolo. Ma come può il demos, il popolo, autodefinirsi? «Si tratta di un paradosso che la teoria democratica ha riconosciuto sin dai tempi di Rousseau»[6], dice Greblo, una problematica affrontata da tutti i grandi filosofi politici che hanno scritto sulla democrazia. Da un punto di vista logico, risulta paradossale che il popolo decida sull’appartenenza, dice Jennings, «perché il popolo non può decidere se non vi è qualcuno che decida chi è il popolo»[7]. Il problema è attualissimo, se si considera quello che accade oggi con l’intensificarsi dei flussi migratori. I teorici democratici, osserva Greblo, definiscono questo problema utilizzando espressioni diverse e variegate: problema dell’unità, oppure problema dei fondatori, oppure paradosso democratico, oppure paradosso della sovranità popolare, o anche paradosso della legittimità democratica, o paradosso della politica, o ancora problema della costituzione del demos. Rousseau fu tra i primi a rilevare che il concetto di popolo è un concetto equivoco: come posso definire il popolo, se la definizione del popolo è il popolo stesso a doverla dare? Da un punto di vista logico, questa situazione è evidentemente contraddittoria. Il problema si porta avanti fino ai giorni nostri, e Greblo mostra come la strategia più comune per affrontarlo sembra quella dell’elusione: tutti gli studiosi dei fenomeni democratici arrivano alla conclusione che l’appartenenza al demos, la costituzione di un popolo, non è una questione di democrazia, ma è una questione storica: non è il popolo, non è un’assemblea democratica a decidere, perché sarà la storia a dire chi è il popolo. Greblo fa notare, invece, che «sostenere che in proposito non si possa avanzare alcuna rivendicazione di legittimità e lasciare che i depositari dell’autorità politica vengano plasmati dalle contingenze storiche è un’idea semplicemente antidemocratica»[8]. La soluzione più lineare, secondo Greblo, è quella offerta recentemente da Michael Walzer, il quale, a proposito di elusione, sposta il problema: il filosofo politico americano afferma che la costituzione di un popolo va al di là del senso di legittimità, e conclude trasformando «l’immigrazione, piuttosto che il popolo, nel fenomeno politicamente controverso. Seyla Benhabib procede nello stesso modo»[9], spostando cioè l’attenzione sulla possibilità di trovare soluzioni ai paradossi del vivere democratico nello studio dei movimenti migratori.
Un altro statunitense, John Rawls, filosofo morale e politico, sostiene esplicitamente che l’«idea che il popolo sia un’associazione volontaria di individui liberi ed eguali è un ideale politico e non dovrebbe essere intesa in senso letterale»[10]. Rawls assume che la società democratica è comunque una società chiusa, un sistema chiuso in cui si entra solo per nascita e non si esce se non con la morte. Egli definisce così, in maniera netta, la “chiusura” caratteristica di una società democratica dove la tua appartenenza viene determinata dal fatto che tu sia nato all’interno dei suoi confini, e da cui puoi uscire solo morendo: non c’è dunque la possibilità che le persone si spostino tra sistemi sociali diversi. D’altronde, secondo Smith, un altro teorico politico americano, «se vogliamo difendere “qualcosa di simile a una forma di autentico consenso”, dovremmo fare in modo che “l’appartenenza volontaria [che, dicevamo, Rawls non ammette] si avvicini il più possibile alla realtà”»[11]. Anche considerato quanto è difficile che ciò accada, sia Smith sia Benhabib considerano la tesi di Rawls non giustificabile, pur non riuscendo a contrapporre, alla chiusura che Rawls teorizza, un discorso di apertura totale. Benhabib parla infatti di confini “porosi”, cioè attraversabili a determinate condizioni. Ad ogni modo, la legittimazione del popolo, che Smith e Benhabib tendono a basare su considerazioni pratiche, risulta ad altri studiosi impossibile da concettualizzare.
Vale la pena accennare a un’ulteriore complicazione che Greblo rileva nelle questioni di cui stiamo parlando. Teniamo conto della definizione di società democratica coniata da Carl Schmitt, il noto politologo tedesco che aderì al partito nazista e che, correttamente, asseriva: la democrazia «comporta “l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che ubbidiscono”»[12], e «ciò che prende il nome di “democrazia” è “una forma di Stato che corrisponde al principio di identità (cioè del popolo concretamente esistente con se stesso in quanto unità politica)”»[13]. Una società democratica è perciò caratterizzata dal fatto che governanti e governati hanno pari facoltà di prendere decisioni e di esprimere la propria idea, ma questa definizione può paradossalmente giustificare anche forme di decisionismo autoritario in cui, con il pretesto che le decisioni vengono assunte in nome del popolo, quindi in una prospettiva di legittimità, un governo dispotico può imporre le proprie scelte perfino se illegali.
Questo ulteriore esempio di contraddittorietà mostra come chiunque si occupi di problematiche relative al multiculturalismo e al federalismo cosmopolitico sia destinato a imbattersi ripetutamente nei paradossi tipicamente prodotti dalle questioni democratiche.
Alla luce di quanto abbiamo detto, prendiamo ora in considerazione il termine “cittadinanza”. Io immagino che ognuno di noi, quando pensa alla parola cittadinanza, faccia riferimento istintivo e immediato alla residenza e all’appartenenza a un territorio delimitato, in questo modo ponendosi subito nella condizione di incontrare una criticità. Il modello tradizionale di cittadinanza è in effetti caratterizzato da una “chiusura” – in analogia alla teoria di Rawls cui ho accennato –, una chiusura che in una comunità democratica sembra necessaria perché il popolo possa sentirsi un’entità coesa: l’appartenenza nazionale si associa perciò alla residenza e ai confini territoriali. Aderire ai principi universali dei diritti umani significa però entrare fatalmente in contraddizione con questa chiusura e con le legittime rivendicazioni del popolo sovrano alla propria autodeterminazione. Se decido di aderire ai principi universali dei diritti umani devo necessariamente pensare all’accoglienza dell’altro, devo cioè attenuare quel senso di chiusura e di appartenenza per nascita che l’idea di cittadinanza richiama tradizionalmente e istintivamente alla mia mente. Il fenomeno delle migrazioni porta in evidenza questo dilemma, e Benhabib si chiede quali chiavi di lettura sia possibile individuare, e quali siano le possibili soluzioni.
Seyla Benhabib esplora le tante criticità connesse al concetto di cittadinanza e contribuisce con il proprio impegno ai tentativi di conciliare la sovranità nazionale con le esigenze di cosmopolitismo e di politica giusgenerativa, con il dichiarato intento di risolvere quella che chiama “frammentazione dei diritti di cittadinanza”, ossia quel contrasto tra gli accordi sui diritti umani che sanciscono l’universalità dei diritti civili e le diverse normative nazionali che implicano una forte variabilità dei diritti politici e sociali.
L’esperienza di vita in contesti multiculturali ha preparato la filosofa turco-americana a studiare, approfondire e sostenere le istanze culturali che riguardano l’altro, cioè il profugo, il migrante, il richiedente asilo da accogliere, e la motiva nel promuovere, con le sue opere, la creazione di norme cosmopolitiche attraverso processi di iterazione democratica (la discussione pubblica che si ripete proficuamente e procede verso decisioni condivise), in un contesto in cui i confini siano, non aperti, ma “porosi” (porous borders), e in una dimensione di politica giusgenerativa che consideri il popolo democratico, non solo come destinatario, ma anche come artefice delle proprie leggi.
Una citazione molto ricorrente in qualsiasi ambito, anche non filosofico, è il “So di non sapere” di Socrate. È talmente nota e riproposta – come tante altre: “Cogito ergo sum”, “Il cielo stellato sopra di me…”, e così via – da essere diventata una frase da cioccolatino, il ritornello che si canticchia per abitudine, disattenti al significato delle parole. La conosco da tempo, come immagino tutti voi, ma ne ho misurato sulla pelle la significatività solo da quando ho cominciato a impiegare molto del mio tempo nello studio della filosofia: più studiavo e più mi rendevo conto, direi drammaticamente, della quantità smisurata di cose che non sapevo e che non so, del fatto, insomma, che c’è sempre tantissimo ancora da imparare. Questa considerazione, che può sembrare fuori tema, è solo un modo per ricordare a me stesso, forse banalmente, che un discorso filosofico acquisisce una sua concretezza solo quando è in connessione con nostre esperienze esistenziali e conduce a un riscontro pratico. Ho partecipato alla stesura del libro di Cotrone collaborando alla revisione degli aspetti formali e strutturali. L’argomento trattato era nuovo per me, perché di solito mi interesso di filosofia del linguaggio, e in particolare del modo in cui il linguaggio incide sulla vita dell’uomo. Per poter dare il mio contributo, ovviamente, ho dovuto leggere il testo parecchie volte, e posso dire con certezza che il lavoro di Nicola è veramente importante perché, portando all’attenzione dei lettori italiani il percorso riflessivo di Seyla Benhabib, dimostra la forza che l’approccio filosofico può imprimere al dibattito pubblico su tematiche diffusamente e intensamente sentite. Il fenomeno della migrazione impegna ormai in maniera costante e martellante i Governi e, in generale, i rappresentanti di tutte le compagini politiche, gli uni e gli altri alle prese con le difficoltà di una gestione efficace del problema e in cerca di soluzioni che tengano conto di tutte le variabili in gioco, non ultime quelle umanitarie. Sono convinto però che, oltre agli addetti ai lavori, tutti possano trarre profitto da questo libro, anche chi abbia un interesse esclusivamente dettato dal desiderio di comprendere e dalla voglia di assumere una posizione consapevole sull’argomento. L’autore, infatti, con informazioni complete e puntuali, definisce un consistente sfondo di riferimenti normativi sul quale il pensiero di Seyla Benhabib si innesta per confrontarsi con le teorie e le opinioni di altri studiosi. Chi cerca di valutare lucidamente i numerosi nodi problematici della questione, perciò, trova in questo libro un supporto indispensabile.
Seyla Benhabib promuove un “regime internazionale dei diritti umani”, cioè l’idea di “governance globale” ispirata dai movimenti per i diritti umani, e rileva le contraddizioni di una comunità internazionale che, per proteggere i rifugiati, fa riferimento a procedure ancora basate sulla sicurezza e sulla sovranità nazionali. Benhabib ritiene fondamentale la cittadinanza cosmopolita, e considera immiserita la dimensione democratica che la nega e che espropria “gli altri” dei propri diritti. Cotrone dice: “Benhabib è una cosmopolita illuminata, perché anticipa la nascita di un ordine internazionale in cui la sovranità si riconcilia con i diritti umani attraverso la subordinazione graduale o la conformità del diritto interno dello Stato a una forma di legittimità eticamente superiore”.
Certo, le idee di Seyla Benhabib possono o meno essere condivise, ma l’accurata descrizione del confronto vivace che producono non può che sollecitare positivamente il pensiero e la coscienza di tutti gli uomini di oggi. Ed è in questo effetto che l’importanza del libro di Nicola Cotrone si evidenzia.
[1] Seyla Benhabib, I diritti degli altri, Raffaello Cortina, Milano 2004-2006, p. 142.
[2] Nicola Cotrone, Seyla Benhabib. Nuovi paradigmi democratici, Mimesis, Milano 2019.
[3] Edoardo Greblo, “Il paradosso del demos (tra legittimità democratica e legittimazione storica)”, in MicroMega, GEDI, Roma 13 luglio 2015.
[4] Greblo, Op.Cit.
[5] Cfr. Benhabib, I diritti degli altri, Op. Cit., pp. 75, 91, 92, 95, 168, 177.
[6] Greblo, Op.Cit.
[7] Ivor Jennings, The Approach to Self-Governemnt, Cambridge University Press, Cambridge 1956, p. 56.
[8] Greblo, Op. Cit.
[9] Ibidem.
[10] Cfr., p.es., John Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Feltrinelli, Milano 1999, pp. 25-26, e Jürgen Habermas, “Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza”, in Id. L’inclusione dell’altro (1996), Feltrinelli, Milano 1998, p. 125.
[11] Rogers M. Smith, Stories of Peoplehood, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 135-141.
[12] Carl Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Giuffré, Milano 1984, p. 307.
[13] Ivi, p. 293.