Green Bataille

Per un paradigma ecologico e comunitario con Georges Bataille
Michele Tutone
mt.tutone@gmail.com

1. Premessa

Solo con difficoltà – bisogna ammetterlo – si può affermare che l’esperienza mistica, il sentimento religioso della lacerazione estatica, i tabù delle società primitive o l’economia delle popolazioni amerindie pre-colombiane siano argomenti caldi, all’ordine del giorno.

Del resto non è meno vero nemmeno il contrario: che un pensatore tratti con disinvoltura questi argomenti non costituisce immediatamente ragione sufficiente per considerarlo antiquato o esaurito. Anzi, obiettivo di questo articolo vuole essere mostrare come Georges Bataille sia oggi un possibile interlocutore per ripensare l’attualissimo quanto complesso rapporto tra uomo e ambiente.

In effetti, la questione ambientalista si è già affermata da molti anni come il tema più importante e pressante del panorama culturale odierno, certamente per via del valore intrinseco che esso esprime ma anche per il modo in cui necessariamente coinvolge tutta la popolazione mondiale. Nel suo libro del 2007 Batailles Peak. Energy, Religion and Postsustainability, Allan Stoekl aveva già tracciato un percorso che, partendo dal pensiero di Bataille, va in questa stessa direzione. Sarà senz’altro utile, per trovare la nostra strada, ripartire da questo lavoro, il quale – per quanto possa peccare oggi di anacronismo su alcuni punti – merita comunque di aver tributata l’assoluta originalità nel panorama della letteratura critica su Georges Bataille.

2. Panorama, crisi e sostenibilità

Partiamo, con Stoekl, dalla considerazione che deve le sue origini ad Hegel e in seconda battuta a Kojève riguardante la fine della storia.

Da più parti si sente dire che la storia è giunta al termine. «Certo, qualcosa ancora “succede” – tsunami, terremoti, carestie – ma la trama narrativa essenziale è finita»[1]. Da quando lo ha sostenuto Kojève in realtà c’è stata in mezzo un’altra guerra mondiale, è vero, ma anche quella rientrava concettualmente nelle stesse categorie di pensiero del mondo precedente, il quale può effettivamente dirsi terminato o almeno in uno stato di inattiva e placida sospensione. Magari «l’accesso alla fine può essere frammentario – non tutte le società devono arrivarci simultaneamente – ma una volta giuntici, è definitivo»[2] e sembrerebbe che noi viviamo proprio in questa fine prolungata, se non addirittura oltre.

Tuttavia da allora è avvenuto, in effetti, un altro evento del tutto imprevisto, mai realizzatosi prima, che ha scombinato decisamente le carte in tavola. Questo evento si è verificato per la prima volta nella seconda metà degli anni ’70 e da allora, periodicamente, torna ad essere un pungolo. Stiamo parlando della presa di coscienza della limitatezza delle fonti di combustibile fossile – carbone, metano e, soprattutto, petrolio – e della consapevolezza che un giorno più o meno lontano queste possano esaurirsi. A questo evento hanno fatto seguito varie crisi petrolifere, sempre grossomodo superate trovando nuovi pozzi o nuovi modi per estrarre il combustibile, fino all’ultimo caso della recente scoperta dello shale oil americano. Ognuna di queste soluzioni evidentemente non ha mai risolto il problema ma l’ha solo rinviato. Le risorse, per quanto ne sappiamo finora, potrebbero finire nell’arco di pochi anni come anche no.

A peggiorare la situazione vi è la constatazione del bizzarro accompagnarsi di ogni crisi energetica sempre ad una corrispondente crisi religiosa.

Ora insieme con una permanente crisi dell’energia, o piuttosto con una permanente limitatezza di scorte di combustibile, ci troviamo di fronte un’altra crisi: una permanente crisi della religione. Sembra come se energia e religione fossero inseparabili. […] Se l’ultimo modello razionale, secolare, per la costruzione di una comunità e per la comprensione del futuro fallisse, potrebbe solo essere rimpiazzato con dei modelli più tradizionali e meno razionali: la cristianità, l’islam e altri credi religiosi[3].

Se l’arretrare delle disponibilità energetiche mette in crisi gli animi tanto da spingere le società ad un ritorno a posizioni più religiose – quando non esplicitamente fanatiche –, non si può tacere su come questo abbia influenzato l’acuirsi dei conflitti inter-religiosi, i quali infatti si sono radicalizzati in giro per il mondo.

In questo scenario la domanda che ci poniamo allora è: Georges Bataille, il cui pensiero filosofico riguarda i temi del dispendio energetico tanto quanto del sentimento religioso, può essere una soluzione per un nuovo modo di vedere il nostro mondo? Anzi, di più, la filosofia di Bataille che lega strettamente il consumo di energie con una società fuori dalla logica del mercato, può ancora essere attuale? L’importanza di Bataille, come ipotizza Stoekl, può forse essere quella di «portare avanti un modello di società che non rinuncia al consumo eccessivo, ma lo afferma»[4].

Finora la parola magica che ha riempito i discorsi ambiziosamente slanciati verso la questione ambientale è stata sicuramente “sostenibilità”. Questa significa, precisamente, «mantenere una economia ad un certo appropriato livello. […] Si userà tanta energia quanto può esserne prodotta, per sempre»[5]. Per uno sfortunato intrecciarsi di iniziali limitatezze tecnologiche, luoghi comuni, paura e predizioni più o meno verosimili del mercato economico internazionale, poi, si è affermata l’idea che accettare il paradigma della sostenibilità comporti anche il necessario e triste obbligo a rimodulare tutta la vita ed i bisogni umani al ribasso, verso una deprimente costrizione alla privazione.

Quindi un sacrificio – non nel glorioso senso invocato da Bataille, ma in quello del “accontentarsi, fare senza” (lo slogan del razionamento della seconda guerra mondiale). “Sostenibilità” è per questa ragione diventato sinonimo di una certa moralità, una che implica la rinuncia al facile piacere e l’accettazione della scarsità[6].

Ciononostante noi vogliamo qui credere che i due paradigmi, l’uno batailleano e l’altro della sostenibilità energetica, possano incontrarsi almeno in un punto e pertanto ipotizziamo che essi possano se non compenetrarsi almeno coesistere su una via comune.

Per comprendere quale sia questa via, forse già intrapresa, occorrerà soffermarci un attimo su qualche precisazione circa la filosofia di Georges Bataille.

3. Filosofia del consumo, non consumistica

La produzione filosofica di Bataille negli anni è ampia e molto spesso risulta al lettore disorganica. Essa mischia infatti elementi letterari ad analisi economiche, tratta ampiamente di arte rupestre con derive etno-antropologiche e critica d’arte contemporanea, attraversa l’attivismo politico per affrontare infine tematiche religiose, storiche e di commento filosofico. Tuttavia non è poi difficile rintracciare, nelle varie opere, un intento comune.

L’interesse principale di Bataille è l’attribuzione del giusto valore – ammesso che ce ne sia uno – all’esistenza umana. Punto centrale della sua filosofia è il concetto di lacerazione: quando Georges Bataille parla di “lacerazione” si riferisce ad un’esperienza vissuta dal soggetto. Non si tratta di una speculazione ipotetica o una meditazione sui limiti della percezione, la lacerazione è una esperienza sofferta e patita. L’uomo ci si imbatte in determinati casi, non rari né eccezionali, ma a cui egli deve in un certo senso essere predisposto da una sorta di sensibilità. Esempio emblematico è la trasgressione di un tabù: violare un divieto in effetti non produce affatto un annullamento dell’interdizione, che invece resta ritta, stabile e impertinente nella sua intatta autorevolezza. Piuttosto, il contrasto tra il divieto non scalfibile e l’altrettanto potente trasgressione, provoca una rottura del normale svolgersi della vita quotidiana, che non trova più il suo precario equilibrio tra queste due forze e che quindi si infrange con una lacerazione. Alla lacerazione viene attribuita un’aura di sacralità in quanto si apre a partire dal mondo di tutti i giorni su un mondo che pare al di là di esso.

La vita quotidiana, quella in cui si lavora e si opera mettendo da parte i propri risparmi per l’avvenire, “funziona” in quanto si dà in forme stabili e separate e fa sì che tutto l’esistente appaia come discontinuo, distinto in una molteplicità di oggetti diversi: di cose su cui è appunto possibile agire ed effettuare previsioni. Tuttavia la lacerazione crea uno squarcio in questo mondo frammentario e rivela l’esistenza di un instabile sostrato che fa da trama a tutto l’esistente e che viene definito come la continuità dell’essere, una continuità inclusiva in cui si scopre che non sussistono effettive differenze qualitative.

L’uso servile [ovvero la logica del lavoro] ha reso cosa (oggetto) una realtà che, nel profondo, è della stessa natura del soggetto, che si trova con il soggetto in un rapporto di intima partecipazione[7].

Da qui, Bataille sostiene che l’unico modo per restituire all’esistente il suo reale valore (e così facendo restituirlo anche all’essere umano) sia consumarlo secondo una logica che non sia servile, ovverosia che non subordini la consumazione stessa ad uno scopo secondario.

La distruzione è il miglior mezzo per negare un rapporto utilitario tra l’uomo e l’animale o la pianta. […] È sufficiente che la consumazione delle offerte, o la comunione, abbia un senso che non si lasci ridurre all’assunzione comune del cibo. La vittima del sacrificio non può venir consumata allo stesso modo in cui un motore utilizza un carburante[8].

Questo comportamento – in termini batailleani definito un atteggiamento sovrano – viene descritto come una forma di dispendio o consumo improduttivo ed è un altro dei punti chiave della filosofia di Bataille. Rientrano sotto questa prospettiva, secondo il filosofo francese, tutte quelle attività portate a compimento senza un guadagno apparente: a partire dal sacrificio (di beni, di animali e persino il sacrificio umano) per arrivare a fenomeni ai quali siamo più adusi come il lusso, la dilapidazione del denaro in beni innecessari.

Ora occorre però sottolineare, con Stoekl, la differenza fondamentale che c’è tra le nozioni di “spreco” e di “dispendio”. «Lo spreco del consumismo meccanizzato contemporaneo non è il dispendio ed il consumo affermato da Bataille»[9]. La teoria di Bataille concepisce il dispendio indissolubilmente legato ad un’affermazione di valore: esso è sì distruzione delle cose possedute, ma al fine dell’affermazione del Sé come autonomo ed indipendente da queste. Non solo: seppur in modo apparentemente paradossale, la consumazione improduttiva libera anche l’oggetto, poiché scioglie il costrittivo rapporto che lo rende “cosa” interessante solo in vista di un beneficio altrui. Da qui si vede allora la lontananza col semplice spreco consumistico, il quale si definisce invece proprio come una continua dipendenza dai beni o servizi della società. Ed ancora possiamo rilevare come ci si riferisca ad uno spreco – e non ad una forma di dispendio – quando si parla dei problemi di sovrapproduzione. Questi equivalgono anzi ad un qualcosa del tutto ingiustificabile in Bataille, in quanto corrispondono ad una accettazione fino all’esasperazione delle logiche del mondo del lavoro (la produzione come forma di risparmio produttivo: conviene di più continuare a produrre fino all’eccesso).

Avendo chiara questa differenza tra spreco e dispendio, possiamo allora capire meglio e forse essere meglio preparati ad una delle verosimili tendenze dei prossimi anni: il graduale e sempre maggiore benessere che si va diffondendo in paesi finora estremamente poveri, porterà prossimamente «miliardi di persone [che] stanno uscendo solo ora dalla povertà» a «volere anche loro una casa, un’automobile, un condizionatore»[10].Questo è un argomento estremamente serio anche da un punto di vista, per così dire, morale. Non si può fermare l’industrializzazione di massa dei paesi emergenti “solo” per il fatto che la maggior parte dei paesi occidentali ha causato il sorgere effettivo del problema dell’inquinamento ambientale per perseguire lo stesso scopo, nel proprio recente passato. Tuttavia non si può nemmeno evitare di agire e fare da spettatori a questo disastro preannunciato. Il documentario del 2016 Before the Flood fornisce e divulga alcuni dati riguardanti questo problema. Nella sola India, 300 milioni di persone non hanno ancora un collegamento elettrico nelle proprie case ed il governo locale si sta impegnando a garantirglielo[11]. Il che comporterà nell’immediato futuro un aumento del numero di consumatori di energia pari più o meno all’attuale popolazione degli Stati Uniti, e questo nella sola India.

Tuttavia alcuni studi ritengono che questa forma di dispendio, e non spreco, verso cui ci si avvia (il lusso della vita industrializzata, della corrente elettrica in tutte le case e dei comfort) potrà verosimilmente essere recuperata dal fatto che – come affermato da Giovanni Carrada nel servizio televisivo del 30 agosto 2016, parte della trasmissione Superquark di Rai 1 – la maggiore ricchezza economica di una popolazione sta mostrando di essere proporzionalmente legata all’efficacia dei suoi sistemi di recupero e di rinnovo delle energie elettriche. Simile la testimonianza dell’ex-presidente Obama il quale, poco prima di passare il testimone al suo successore nel gennaio del 2017, ha pubblicato un articolo sulla rivista Science in cui divulga i dati relativi all’ambiente ed alle energie pulite in America durante i suoi mandati. Con questo, Obama ha affermato che «gli Stati Uniti stanno mostrando che la diminuzione dei gas serra non confligge necessariamente con la crescita economica. Piuttosto può rilanciare l’efficienza, la produttività e l’innovazione»[12]. Dal 2008 al 2015, infatti, le emissioni nocive di co negli USA sono calate del 9,5%, mentre la crescita economica americana dello stesso periodo è stata superiore al 10%[13].

Insomma, sembrerà strano, ma più le tecnologie divengono sofisticate, più persone escono dalla povertà, più i problemi ambientali si potranno risolvere[14].

Contrariamente, quindi, all’opinione secondo cui la sostenibilità energetica debba essere sinonimo di rassegnata rinuncia, molte voci stanno evidenziando come una sapiente migrazione verso l’energia rinnovabile non infici affatto la crescita economica. Correlando anzi all’inverso i due termini della questione, si può vedere come reprimere i consumi possa non essere una scelta virtuosa quanto il favorirne l’incremento. In questo senso noi crediamo ci sia almeno una possibilità di reintendere – con un ipotetico incontro tra Bataille ed il paradigma della sostenibilità energetica – il fondamentale processo della salvaguardia ambientale, la quale si trova e si troverà sempre più fattivamente coinvolta col progressivo aumento delle ricchezze e del loro dispendio.

4. Ecologismo e comunità

Ma c’è un altro aspetto del problema, cui avevamo già fatto cenno, che bisogna ancora prendere in esame. È quello che avevamo introdotto come un problema riguardante la crisi spirituale e la religione: la sempre maggiore sensibilità religiosa che nei momenti di crisi energetica accompagna e porta le persone a cercare un rifugio nelle credenze religiose.

Allan Stoekl vede questa spinta in direzione di più consolatorie risposte spirituali come indissolubilmente legata alla riscoperta insufficienza delle risposte della società secolare, basata sulla sicurezza delle proprie risorse energetiche. Ma per evitare che tutto ciò si traduca in un mero, e di certo inappropriato, ritorno al passato, servirebbe invece che tali risposte si trovassero in un paradigma adeguato alla nuova era che ci si prospetta. Tentativi sono già stati fatti da più parti e infatti «un certo numero di scrittori negli ultimi anni ha tentato di porre il problema ecologico e della sostenibilità in un contesto religioso»[15]. Il bandolo della matassa, secondo Stoekl, si trova proprio in ciò che hanno in comune le religioni storiche e l’ecologismo come movimento promotore di una nuova sensibilità ambientale: il modo in cui l’uomo vive e interpreta il rapporto, sempre già dato, che sussiste tra sé e la natura.

Stoekl sostiene, con Lynn White Jr., che la ragione seminale della corrente crisi ecologica sia rintracciabile «nell’insegnamento della religione giudaico-cristiana»[16].

La natura è stata sempre rappresentata dalle religioni, ma solo fino all’ebraismo, come animata da spiriti autonomi. […] L’ebraismo, e dopo il cristianesimo, invertì questa relazione cosicché ora la natura non sia nient’altro che il materiale che la costituisce[17].

Si tratta dunque di una incomprensione del rapporto tra uomo e natura che, deviato da certe tesi religiose, ha subordinato la natura all’umano. Questo è quasi, a grandi linee, lo stesso sviluppo del pensiero di Georges Bataille, il quale sostiene che le religioni rivelate abbiano cristallizzato un modo di pensare malato, introdotto prima dal lavoro e contrario ad una intimità implicita tra uomo e natura[18].

Partendo da questa situazione, la necessità è quella di “de-antropocentrizzare” il modo di pensare questo rapporto. Stoekl prende in esame alcune possibili soluzioni avanzate principalmente da movimenti ecologisti e infine arriva alla propria proposta, sviluppata sulle basi della teoria filosofica di Bataille. Innanzitutto possiamo dire che la tesi ateologica[19], che il filosofo francese deriva dall’esperienza religiosa successiva alla denuncia nietzschiana della morte di Dio, va proprio nella direzione di quella stessa de-antropocentrizzazione di cui parlavamo prima. Infatti «non credere in Dio è inseparabile dal non credere nell’Uomo, avido e chiuso in sé»[20]. Ovvero: nella misura in cui la filosofia batailleana cerca di ripartire facendo a meno della posizione centrale data dalla teologia al Dio rivelato, così quella stessa filosofia rinuncia a dare all’uomo un posto di favore nel mondo. Dal posto lasciato vuoto con l’assenza di Dio, alla mancanza di una posizione riconosciuta dell’uomo: il discorso che vi è alla base è lo stesso.

Solo in un senso il dibattito religioso riguardante l’ecologia può essere posto: dalla prospettiva della morte di Dio e di ciò che lo accompagna, di ciò che è inseparabile da quella, la morte dell’uomo[21].

La “eco-religione” di Bataille proposta da Stoekl riguarda così non l’uomo in quanto ente privilegiato che possa spadroneggiare su tutti gli altri, bensì delinea un rapporto di intimità dell’uomo col mondo nella sua interezza, la cui via ci è segnata da quella scoperta della continuità dellessere di cui già parlavamo in merito all’esperienza della lacerazione. Solo la consapevolezza di questa continuità dà il reale spessore alla figura umana all’interno del “creato”. L’uomo è un tutt’uno con la natura in cui vive[22].

Vorrei vedere in me solo il rapporto a qualcos’altro. In effetti, l’uomo, o l’io, è in relazione alla natura, a ciò che egli nega[23].

Perciò, dunque, questa eco-religione coincide con la visione di un mondo in cui le differenze non insistano su un piano di soggetto/cose, ma su un piano in cui la continuità tra gli esistenti – tutti: umani, animali, piante – sia vissuta fino in fondo. E se il carattere della sovranità di cui abbiamo parlato sembra autorizzare un uso cieco delle cose del mondo da parte del sovrano, dobbiamo ricordare come questo, quando viene interpretato fino in fondo, porti in linea di principio alla dissoluzione anche di sé, ad una forma di auto-immolazione. «L’uomo giunge a questo mondo», infatti, «non per sfruttarlo né per apprezzarlo a distanza […], ma per morire come un umano, per sacrificarsi in una trasgressione dei limiti umani»[24].

Riteniamo tuttavia, allontanandoci nuovamente dal testo di Stoekl, che questa idea di un paradigma nuovo per un’epoca nuova rimarrebbe incompleta se ci fermassimo qui. Sarebbe infatti utile effettuare o preparare la stessa opera di de-soggettivizzazione vista finora anche ad un livello superiore: quello comunitario. Anche in questa occasione il richiamo alla filosofia di Bataille potrà essere fruttuoso.

In un senso, quest’opera di reinterpretazione del ruolo della comunità sulle orme di Bataille potrebbe essere molto breve poiché la nostra opinione è che, a voler essere precisi, semplicemente non c’è una vera teoria della comunità all’interno della filosofia di Georges Bataille. In effetti quando egli parla di comunità di uomini (cosa che accade spesso ed in molti contesti diversi: dalle comunità umane preistoriche, all’instaurazione delle religioni all’interno della società, alle pratiche culturali delle comunità amerindie e così via) sembra farlo prendendo però il fattore comunitario come un dato prettamente storico, cioè parlando delle comunità intendendo con esse l’insieme delle sue persone. Bataille non teorizza una struttura della comunità, non è uno di quei filosofi che stilano un vademecum della buona società. Egli non afferma che la comunità preesista al soggetto individuale, né che sia di origine mitica, né che essa debba avere una natura prettamente politica, o religiosa, o economica. In realtà Bataille non parla, in questo senso, di comunità.

Eppure, non facendolo, ci dà un’indicazione puntuale della sua idea. Egli, noi crediamo, pensa alla società umana esattamente per quello che è nel concreto; né più né meno che l’insieme di quelle pratiche e di quelle azioni della vita comune. Bataille non elabora una teoria della comunità perché non c’è un’entità indipendente ed autonoma che sia “la comunità”, la quale possa essere messa sotto una lente d’ingrandimento per venire studiata e descritta nelle sue parti assolutamente virtuali e ideali. L’unico modo in cui si possa parlare di comunità è dire che questa o quella comunità sia costituita in questo o quel modo: che nella società dell’America pre-colombiana il sacrificio rituale aveva questo senso, o che nelle comunità di neanderthaliani delle grotte di Lascaux lo zoomorfismo ritratto nei dipinti rupestri stava ad indicare quel certo rapporto con la divinità, ecc.

Insomma, nella filosofia di Georges Bataille la comunità si delinea secondo lo stesso profilo della comunicazione. Si può parlare di comunità solo dove ci sia stata comunicazione tra gli individui. Contro le derive della società odierna, entro cui le persone sono isole spesso irraggiungibili, sarebbe interessante lanciare la sfida di Bataille di ricominciare da capo la stessa costruzione ma facendo a meno del mattoncino iniziale, rassicurante, della “comunità” e di dare invece questo nome all’edificio completato.

Non si può, quindi, fare una filosofia della comunità a priori, giacché come la comunicazione è lo sporgersi vicendevole degli esseri sul nulla che li separa, così, cioè con quel nulla e quello slancio sul vuoto, bisogna immaginare la comunità. Da questo punto, in seguito, Jean-Luc Nancy trarrà la propria idea di “comunità inoperosa”, espressamente sviluppata a partire dal pensiero di Georges Bataille. Egli sostiene, invece, che la comunità abbia una propria realtà, un proprio statuto ontologico che addirittura è co-originario a quello del singolo,[25] ma che comunque «non ci [sia] comunione delle singolarità in una totalità superiore e immanente al loro essere comune»[26].

Quella di Nancy è, crediamo, una sagace via di mezzo tra l’idea batailleana che abbiamo di comunità solo nella sua attuazione concreta e una teoria della comunità come ente autonomo e indipendente. La comunità inoperosa di Nancy è, infatti, l’esempio minimo di una comunità, la quale esiste solo per il fatto che e nella misura in cui esistono le singolarità che la costituiscono (ma questo “solo” ha qui un senso fortissimo perché significa anche che non può non esistere laddove esistano i singoli).


 

Bibliografia

  • Bataille, Œuvrescomplètes. LÉconomie à la mesure de lunivers – La Part maudite – La Limite de lutile (Fragments) – Théorie de la religion – Conférences 1947-1948 – Annexes. Vol. VII, Gallimard, Paris 1976.
  • Bataille, Il colpevole / LAlleluia, tr.it. di A. Biancofiore, Dedalo, Bari 1989.
  • Bataille, La parte maledetta, preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
  • Carrada e D. Fracco, «Energia», 30 agosto 2016. http://www.raiplay.it/video/2016/08/Superquark-del-30082016-a96c122a-c45b 4a87-aba8-a5ccb930ee5b.html.
  • -L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 1992.
  • National Geographic, Punto Di Non Ritorno – Before the Flood, 2016.
  • Obama, The irreversibile momentum of cleanenergy, «Science», 2017, 355 (6321), pp. 126-129.
  • C. Papparo, Incanto e misura. Per una lettura di Georges Bataille, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.
  • Stoekl, Batailles Peak. Energy, Religion, and Postsustainability, University of Minnesota Press, Minneapolis 2007.

[1] Stoekl (2007, ix). Il testo di Stoekl cui qui si fa riferimento è ancora inedito in lingua italiana, dunque tutte le citazioni riportate a seguire sono state tradotte da noi.

[2] Stoekl (2007, ix).

[3] Stoekl (2007, xi).

[4] Stoekl (2007, xiv).

[5] Stoekl (2007, 119).

[6] Stoekl (2007, 120). Su questo punto, più volte rimarcato da Stoekl, si sente probabilmente in modo maggiore il peso degli anni trascorsi dalla pubblicazione ed è qui che la nostra analisi si allontanerà marcatamente dal testo citato.

[7] Bataille (2003, 66).

[8] Bataille (2003, 66).

[9] Stoekl (2007, 121).

[10] Carrada e Fracco (2016), 1:20:50 ca.

[11] National Geographic (2016), 0:34:00 ca.

[12] Obama (2017, 126), tr. nostra.

[13] Cfr. Obama (2017).

[14] Carrada e Fracco (2016), 1:21:30 ca.

[15] Stoekl (2007, 150).

[16] Stoekl (2007, 151).

[17] Stoekl (2007, 120).

[18] Di Bataille, cfr. principalmente Théorie de la religion (1976).

[19] Bataille raccoglierà i suoi primi scritti filosofici in una ideale trilogia a cui dà appunto il significativo titolo di Somma ateologica.

[20] Stoekl (2007, 169).

[21] Stoekl (2007, 177).

[22] Crediamo interessante qui dar spazio ad un’annotazione di F. C.Papparo, il quale si riferisce a questa stessa spinta batailleana alla de-antropocentrizzazione definendola un antiumanesimo (cfr. Papparo (1997).

[23] Bataille (1989, 152).

[24] Stoekl (2007, 177), corsivi nostri.

[25] «Se l’essere sociale è sempre posto come un predicato dell’uomo, la comunità indica invece ciò a partire da cui soltanto qualcosa come l’“uomo” può essere pensato» (Nancy 1992, 66).

[26] Nancy (1992, 66).

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