Sera Franca
Se si osserva la struttura paradigmatica della teoria circolare in Hegel si osserva che in realtà quella dimensione unica si scandisce in una dualità ossia in una dimensione bina, poiché tornare ad una filosofia dell’Assoluto, intesa come filosofia di un’Autocoscienza assoluta non significa di nuovo allontanare il versante universale, spirituale e sostanziale, poiché quella dimensione universale in generale apparteneva come taglio essenziale ai principi metafisici tradizionali. Al contrario riappropriarsi di una dimensione autocoscienziale ed assoluta ma senza l’elemento universale-ideale o formale-spirituale, ossia senza l’elemento Essere (se si pensa all’Essere come identità di Pensare, Essere ed Agire), significa di nuovo riproporre una filosofia dell’autocoscienza naturale, ricadendo in una determinazione e dimensione empirica neo-positivistica e neo-materialistica di un soggetto materialisticamente e naturalisticamente dato, ma così soltanto individualisticamente oggettivato. E questo significherebbe quindi di nuovo mancare l’obiettivo finale della filosofia dell’autocoscienza quale esigenza della modernità a realizzare quel principio che possa riconciliare la realtà e condurla ad unità. Cioè ad essere insieme quel principio universale e particolare e quindi essere principio del Tutto in quanto universale o totale. Così occorreva, per non ricadere in un cascame metafisico-teologico o costrittivo-trascendente capace di produrre limiti autoritativi e regressivi del pensiero filosofico[1], riunire di nuovo il principio dell’autocoscienza dove il Concetto fondante fosse stato la Libertà, come suo focus primus, in quanto il principio di libertà sarebbe stato connesso ad un concetto di Soggetto Assoluto, quest’ultimo infine capace di eliminare ogni elemento eteronomo ed estrinseco, indipendente da sé ed assorbire ogni elemento antagonista rispetto a questa dimensione di libertà assoluta incondizionata, che avrebbe trovato fuori di sé sia dal punto di vista ideale-noetico, sia dal punto di vista ideale-pratico, un soggetto che infine con una serie di atti “libertari” avrebbe negato tutti quei principi autoritativi e costrittivi del reale cancellandoli con la libertà dell’autocoscienza, dapprima impedita ed ostacolata nella propria espressione e vitalità da elementi regressivi ed eteronomi. Ebbene tutte queste condizioni avrebbero condotto all’Assoluto inteso come Sostanza che è Soggetto. Ma è chiaro che Hegel per fare questo non poteva tornare ad una dimensione semplicemente finitistica e naturalistica della soggettività perché se così fosse stato sarebbe ritornato a quel principio di individualità certamente importante ma non sufficientemente realizzato come la soggettività epicurea, o scettica, laddove queste ultime avevano certamente prodotto un forte concetto di soggetto e di autocoscienza, in quanto momenti della storia della filosofia in cui emersero le forze e potenze del concetto del soggetto, a tutto vantaggio di una negazione dei principi costrittivi, ma pur sempre in una dimensione irrelata, metastorica e dunque non per nulla trasformativa del reale ma solo ancora contemplativa[2]. Orbene quando Hegel “incontrerà” Fichte[3], che inaugura ed apre ufficialmente la stagione idealistica[4], il Soggetto non apparirà più solo come testimone del mondo ma capace di posizionare il reale[5]. Ora Kant coglierà diverse aporie in Cartesio. Prima questione: da dove deriva il dubbio? Quindi se tutto è così assolutamente scontato, analitico, perfetto, il dubbio allora perché s’insinua nel cogito cartesiano? Il secondo elemento, che vale per una riflessione critica sul post-moderno, al fondo del soggetto v’è il dubbio. Il padre di tutti i padri nella modernità e nella post-modernità è il dubbio. Alla base di una formazione dell’autocoscienza assoluta v’è il negativo, esso è quel processo che permetterà all’autocoscienza di porsi come assoluta. Sembrerebbe una contraddizione ma per Hegel sarà invece la sana rivendicazione del fatto che sulle ceneri del negativo, o se si vuole, sulle ceneri del “dubbio e della disperazione”, paradossalmente si formi quello che c’è di più forte, ossia l’autocoscienza assoluta. La debolezza, in quanto negazione-contraddizione e l’errore e il conflitto, stanno alla base di ciò che poi si evolverà come assoluto incondizionato. Ebbene questo non è presente solo nell’epifania di una soggettività incondizionata che giungerà sino al ‘900 con Nietzsche[6]. Hegel vede a ritroso, après-coup, a cose fatte, a partire da una produzione di senso, cioè come produzione di libertà. Laddove in qualche epoca, in qualche dimensione storico-politico, sociale-culturale, a tutti i livelli è emersa una qualche luce di libertà, in cui cioè il soggetto ha rotto con i propri principi ispiratori di astrazioni-costrizioni-autoritativi. Quando ha tolto ciò che sembrava estrinseco ed indipendente ed autoritario, l’ha tolto come tale e l’ha posto come interno al soggetto. Ma facendolo ha dovuto soffrire la “via del dubbio e della disperazione”, cioè il soggetto è dovuto diventare “inferno” oltre che “paradiso”. Ha dovuto intraprendere il lavoro massacrante della “dura fatica del concetto”, ossia della Negazione. Il pensiero esiste poiché si è trovato dinanzi ad una catastrofe. Essa è il segno, il marchio del soggetto ed è lo stigma esistenziale della soggettività. Quest’ultima è un dedalo di contraddizioni. Essa è un ginepraio di negazioni. Poiché appunto il soggetto dialetticamente inteso, innestato nella struttura dialettica di Hegel è quel ginepraio di negazioni e contraddizioni in quanto è questa coazione a ripetersi come parziale. Il soggetto è questa povertà esistentiva d’essere. Povertà ontica ad essere. Il soggetto è un “non-soggetto”. Esso è appunto tale in quanto invaso dal “non”, dall’altro. Ma solo mediante l’invasione del soggetto da parte dell’Altro o alterità, si raggiunge quella stessa unità con Sé del soggetto stesso, in quanto universalità e totalità dispiegata. Ma di nuovo per poter fare questo occorre ritornare alla doppia circolarità di Hegel. Non è semplicemente un momento dialettico di una struttura dialettica che prende e muove solo dalla coscienza. Non è semplicemente l’andamento ascensivo da Bildung Roman, come di solito si definisce lo Spirito nella stessa Fenomenologia dello Spirito, di un soggetto cioè che è coscienza e che diventa in seguito Autocoscienza assoluta, ma si deve contestualmente e sincronicamente osservare che quel determinato momento in cui la coscienza si apre ad autocoscienza e quindi si apre alle diverse alterità, ebbene in quello stesso momento quella stessa condizione di assolutezza e di universalità dello spirito in quanto infinito discende nel determinato. Ora di solito ci si ferma, ad esempio trattando della stessa Fenomenologia dello Spirito, ad una vulgata, pur vera, che tra Spirito assoluto e coscienza c’è un legame d’essenza. Esso non deriva solo dal fatto che la coscienza aspira a divenire universale ma questo legame d’essenza sottolinea che mentre la coscienza attua questa sua discesa verso la prima via: quella del dubbio e della disperazione, allo stesso tempo in una dimensione tridimensionale (come rappresentazione di struttura dialettica) si vede che tale primo cerchio racchiude simmetricamente una seconda circolarità. Quindi in una visione prospettica si vedrà che un primo cerchio ad anello è sovrapposto al secondo cerchio. Tuttavia cambiano gli “attori” di questa doppia circolarità. Da un lato la coscienza che si fa altro in una miriade di alterità e parzialità con sé, con configurazioni parziali, limitate, dall’altro lato si ha uno Spirito che la coscienza pensa di aver fuori, e che dal suo trono assoluto ed incondizionato (l’Essere di Parmenide, il Dio di Malebranche, l’Uno di Plotino ed in generale tutti i principi metafisici) deve discendere nel reale e farsi tale. Da nascosto a inerte dovrà farsi reale. Se l’assoluto, in tutte le sue manifestazioni metafisiche, rimanesse vuoto e immobile, esso sarebbe un capitale morto, o linea tracciata nel vuoto, in quanto bastione inaffondabile per il raggiungimento dell’autentica verità del Soggetto, che è il principio della Libertà come principio dell’Autocoscienza assoluta. E quindi vi è un’immediatezza nella partenza come condizione immediata e si giunge allo stesso punto da cui ci si era mossi, laddove tuttavia avremo il risultato di una coscienza, che nel percorso delle sue configurazioni parziali, limitate, precarie, ritrova se stessa ma arricchita. Poiché attraverso l’altro da sé, e mediante le figure che non erano essa, quest’ultima si rivela ricca ed auto-coincidente con sé. Quindi giunge, alla fine di questa circolarità di nuovo a sé, ma senza arrivarvi più staticamente, ipostaticamente, come immediatamente trovata, ma mediatamente posta, ossia arricchita come tornata a sé, rimanendo pur sempre se stessa ma tale solo mediante e grazie all’altro[7]. Questa è l’autocoscienza come Sostanza[8]. È chiaro che se si deve attingere ad un concetto di Totalità, esso deve essere appunto di carattere universale e non parziale. Non può cioè rimanere fuori di esso alcun elemento, seppure caduco o transeunte. Persino il Nulla, non potrebbe esserne escluso![9] Se accadesse tale condizione il principio universale sarebbe parziale[10]. Così fin dal Frammento di Sistema di Francoforte (1800), la trama della Totalità deve svilupparsi per tutti gli ambiti, per uno e per i molti. Così Hegel deve organizzare una determinazione universale ossia una Formelle Bestimmung, che non sia solo estrinsecamente posta da un soggetto con l’effetto di una duplice aporia da un lato un soggetto arbitrario non credibile, dall’altro da un mondo non compreso e raccolto in modo rapsodico sotto leggi universali, che però lasceranno fuori quello stesso mondo che intendono spiegare. Ma per evitare queste due chine del pensiero, Hegel inizia ad abbandonare l’attitudine del pensiero intellettuale. Egli non si preoccuperà, per il momento, di come l’assoluto sia, cioè quale contenuto avrà, guardando a tutti gli “assoluti” che i filosofi nelle loro filosofie della storia in 2000 anni avrebbero prodotto, ma dovrà Hegel pensare a “realizzare” questo Assoluto. Per fare ciò il Nostro dovrà porre mano alla stessa struttura formale del pensiero. Così Hegel per realizzare un Assoluto reale, cioè storico, molteplice addirittura empirico, avrà bisogno del determinato, ma anche di intendere che l’intelletto avrebbe dovuto lasciare il posto ad un’altra funzione conoscitiva che sarà il Concetto (Der Begriff). Ma per fare questo avrebbe dovuto far “detonare”, “brillare”, tutte quelle concezioni logiche-analitico-formalistiche che avevano regolamentato sino ad allora la struttura dello stesso modo di pensare del genere umano. Sia in termini gnoseologici che epistemologici. Ossia doveva operare una trasgressione assoluta: ovvero rendere invalidante il principio di non-contraddizione di Aristotele. Ma in che modo? Intanto occorreva togliere all’Intelletto l’ultima parola o decisione su come intendere o sintetizzare, capire e portare ad Unità la stessa realtà. L’intelletto cioè aveva fin da ora fallito per Hegel. Perché o il Pensare aveva lasciato fuori la realtà stessa cercando di capirla mediante un principio sintetico esterno a priori al reale stesso, o aveva lasciato fuori quello stesso principio non solo fuori dalla realtà ma anche fuori dall’uomo stesso. Ma questo accadeva poiché l’intelletto avrebbe per Hegel una sorta di vizio capitale: ossia pensare che gli oggetti o aggregati concettuali che l’intelletto pondera siano reali. Cioè siano cristallizzati, entificati, poiché l’intelletto per sua natura in modo inintenzionale procederebbe per “fissazioni” o punti, altrimenti l’uomo forse non si sarebbe orientato nella vita; Inoltre procedendo per punti e scissioni esso ha questo legame col negativo (si ricorda che il negativo è presente nell’Intelletto, anzi essendo una parte del concetto o parte parziale del movimento dialettico, questo perché altrimenti il concetto non sarebbe totalità e se l’intelletto fosse un’altra cosa dal concetto, il Begriff non sarebbe totalità o Spirito assoluto. Ed è tale poiché esso comprende l’Intelletto e gli errori di quest’ultimo. Cosicché il concetto “prevede” l’errore, non solo perché il concetto è negazione e nasce sulla negazione, ma prevede l’errore poiché prevedendo l’errore è di nuovo assoluto. Non può essere solo positivo il sapere assoluto. La totalità per essere veramente universale deve essere anche negazione e negativo. Si è detto prima che nella doppia circolarità ascensiva e discensiva dello Spirito già compare in una sorta di doppia e opposta circolarità la “negazione”, con una dimensione ombra nella forma circolare veritativa di Hegel, un doppio sguardo nella sfera unica circolare hegeliana. La negazione imperante e sovradeterminata anche rispetto alle varie tappe della negazione che Hegel distribuisce nel tragitto dialettico. Come se Hegel parrebbe affermare che a questo punto si potrebbe negare ciò che egli stesso ha tracciato. Proprio per questa doppia visione generale oppositiva della doppia circolarità strutturale dello spirito, un andamento di contro ad un contro-andamento: lo spirito discende, mentre la coscienza si eleva. Ma in questo legame d’opposizione essenziale (ascensivo-discensivo), v’è la contraddizione di questo salire e scendere ma in seno alla realtà, poiché ciò che esiste scende e sale: scende perché l’universale deve farsi finito e particolare, sale poiché il particolare deve farsi universale poiché sa che non può arrestarsi alla propria staticità finita e quindi deve elevarsi all’universale, in una perfetta identica identità degli opposti. Così Hegel deve arrivare a concepire l’inconcepibile, confutando cioè il principio elenctico aristotelico e quindi capire e concepire l’identità degli opposti. Solo attraverso questa aporia inconciliabile innestata tra l’altro, nel finito stesso, poiché l’identità degli opposti permette di pensare che allo stesso tempo l’infinito sia finito, ma non perché lo si dice rappresentativamente con una coscienza esterna o tramite una riflessione sognante o estrinseca o semplicemente metafisica (Kant, Spinoza, Leibniz), ma perché lo dice l’oggetto stesso che si mostra in modo chiaro, essoterico deittico come autodeterminato e formato da ciò che è ed insieme non è. La febbre del negativo invade la realtà, gli oggetti e li fa muovere, brillare, cosicché fa sentire il determinato stesso come sempre parziale e non auto sufficiente con sé, è costantemente auto-differito da sé, non è autonomo, è inconcludente e quindi sprofonda in un continuo non-essere. Ma questo non essere non è il non-essere incondizionato come nulla, astratto, arbitrario di cui parlava Parmenide, questo non-essere è a sua volta un non-essere positivo, poiché l’altro è ed è altro da sé. Così questo non-essere non è il dubbio sistemico cartesiano, bensì questo non-essere è un non-essere reale. Lo Spirituale è dunque consustanziale al Sé in Hegel, poiché lo Spirituale separato dal Sé riproporrebbe di nuovo un trascendente. Se lo spirituale è il Sé, ed il Sé è l’attivazione in quanto lo spirituale di attraversare mediante il rapporto con l’altro, l’alterazione o attraversamento di sé nell’altro da sé senza dissolversi e perdersi in questo andare fuori da sé, ma mantenendosi e conservarsi, questa è l’identità del Sé. Se il Sé, dice Hegel, è il risultato, del movimento in quanto apertura, alterazione, trasformazione, configurazioni sempre di nuovo parziali e considerate come toglimento, superamento (Aufhebung) cioè in quanto elevazione-mediazione-superamento organicamente intesi come momenti e stazioni dello spirito come ciò che contribuisce alla identità ricca, conchiusa e bastante con se del soggetto, allora il soggetto è questa identità con se grazie allo spirituale. Se fosse solo elemento particolare la soggettività, cioè un Sé individualistico e soggettivistico, esso subirebbe la relazione e l’alterità cioè patirebbe lo spirito appunto come non crescita e differenziazione da Sé, ma subirebbe lo spirito come la storia della storiografia filosofica ha sempre imposto alla soggettività cioè il vero è l’universale, il falso è il particolare. Cioè ritornerebbe quella uguaglianza con Sé del tutto sbilanciata sotto una polarità naturalistico-individualistica e particolaristico-finita. Perdendosi dietro una filiera inesauribile di determinazioni materiali finite. Ora Hegel definisce la Natura come l’esser là dello spirito, come momento della coincidenza con Sé della determinazione finita, particolare e parziale, ma proprio per questo distante dalla universalizzazione di Sé. Distante dalla condizione dell’alterazione (dentro se) che invece vive come un eterno rimosso. Ora rimuovere non è superare: e prima o poi questa rimozione porterà ad un dislocamento, ad una delocalizzazione assolutamente incongrua che ripresenterà “il conto”.[11] Ed infatti per questa alterazione mai veramente fatta propria e compresa, dominata in termini di elemento universale e quindi trasformativo dialettico, questa rimozione-spostamento-proiezione di questa universalità-alterità in riferimento all’elemento deterministico, naturalistico, si ripresenterà ogni volta con le sue infinite relazioni. E un po’ come il mito di Sisifo, ogni volta si presenterà questo fantasma dell’astratto e dell’universale, come qualcosa che quel determinato soggetto empirico vorrà invece allontanare da Sé. Ma ogni volta che lo allontanerà si ripresenterà costantemente in altre infinite alterità. Cosicché in natura piegherà l’alterità rimossa ma mai superata piegherà quel particolare e lo obbligherà al divenire incessante delle trasformazioni. Quindi quella astrazione mai rimossa, che quel determinato particolare finito in quanto appagato della sua coincidenza con sé che sentirà come vera, assoluta, incondizionata, tornerà come nemica ed inimicata e costringerà e piegherà quel determinato finito ad alterarsi in una serie infinita di alterazioni cacciandolo in una sorta di continua vulnerabilità, che lo trascinerà a volte nella pazzia, o condizione del proprio Sé distrutto nella sua continua alterazione di Sé, come condizione proteiforme ossessiva, fino a cadere nella follia o onnipotenza di Sé del tutto irrelata, irresponsabilità generale relativa al suo “stare al mondo”. Le figure storiche cui farà riferimento il giovane Hegel nei suoi scritti giovanili sono Abramo, il Cristo, l’eroe tragico, l’imperatore romano. Quando si allontana da sé in modo del tutto incongruo, la determinazione che rende partecipe di un tutto questa totalità si rivolta contro quella singolarità. E staccandosi da quel contesto quella stessa singolarità si vedrà marciare contro quella stessa idealità nella funzione di una determinazione formale, e quindi di una determinazione dinamica dell’alterità che per quanto crederà di aver rimosso o superato, proietterà continuamente in altre infinite dimensioni che gli si ritorceranno contro. Si inimicherà quello stesso contesto nel quale egli attuerà questa rimozione. E quella stessa rimozione piegherà alla fine quel determinato ad uno scacco: che può essere la follia o l’essere inimicato dalla storia, o società o dimensione storico-collettiva o universale. Ecco dunque i grandi esempi fallimentari che Hegel riferirà (primi scritti giovanili) agli eroi tragici greci che subiranno un attacco frontale, costretto questo finito a trasformarsi continuamente quasi in una sorta di serialità infinita a modificarsi, ma appunto in modo coattivo, con l’esito di un tragico destino poiché il determinato finito, individuale, particolare, che presupporrà di essere esso stesso l’Universale ricaccerà da sé ogni tipo di reale storica condizione universalistica, la quale però poi si rivolgerà contro a quello stesso finito, determinato che si rovescerà nel suo opposto. Nello spirituale invece l’essere in sé della soggettività non può non riconoscere la sua dipendenza costitutiva dall’alterità, poiché riconoscendo la sua dipendenza riconosce se stesso. Infatti in un primo momento si traduce nell’esser altro da sé ma per poi tornare da questa uscita o esposizione nell’alterità al proprio sé, o meglio in sé e per sé. In un circolo che è il vero infinito dato che fa del soggetto la sintesi del Sé e dell’altro da Sé. In sostituzione del cattivo infinito, ovvero delle metamorfosi naturali che non si curvano mai nella centralità di un Sé compiuto. Questa dimensione quando viene accolta nel Sé è si momento di alterità, trasformazione ma poi questa diventa chiusura compiuta fortificando e riattuando nel proprio sé la propria identità di sé insieme alla condizione che la caratterizza: cioè l’Universalità. Ossia il Sé si scopre attraverso l’altro assolutamente compiuto, coincidente, autofondativo, sapendo coscientemente che egli è tale, cioè in sé e per sé, solo tramite l’altro. E proprio perché ha sposato la dimensione universale e non la mera, gracile e povera-psicotica coazione a ripetere del determinato finito chiuso nella sua vuota certezza di sé, con appunto il grande errore di rimuovere e spostare e infine proiettare come nemica l’alterità che gli si torce contro e che lo fa rovesciare nel suo opposto, in un non-io o non–determinazione, sa che il vero infinito o assoluto è se stesso mediante l’altro, cioè compiutamente Soggetto o Autocoscienza. Ossia essa è la sintesi di sé e dell’altro da sé, in quanto vero assoluto ed universale, piegandosi appunto all’universale. Mentre la determinazione naturale non si è curvata certo all’Infinito e all’alterazione, ma così facendo sposando le infinite alterazioni e le metamorfosi naturali senza che queste si curvino mai nella centralità del Sé. Ossia non si ricuce il movimento della determinazione con Sé nella determinazione materiale, poiché la metamorfosi nella determinazione individuale che conosce le trasformazioni ed alterazioni però apprende solo trasformazioni ed alterazioni che in seguito conducono la determinazione ad un indefinito esserci ed indefinita determinatezza assolutamente scollata da ogni tipo di alterità e quindi da ogni tipo di identità con Sé. Mentre il Sé che ha conosciuto l’alterità si ritrova ora veramente assoluto Incondizionato in quanto egli è sintesi di Sé e dell’altro da Sé. E così facendo curva e chiude quell’uscir fuori da Sé, cioè quell’alterità di sé e da sé come esser altro, e la ripiega, la ricurva, poiché la fa ripiegare su se stesso, cioè in Sé e per Sé. Ecco che il Geist è Spirito, non in un senso creazionistico. Questa struttura è latente come trama reale del mondo, è la filigrana (RIF.LEONARD) del mondo. E si fa attraverso il rapporto con l’Altro. Lo Spirito è il divenire se stesso con l’altro. Questo è il Sé, questo è lo Spirito, questa è l’Autocoscienza Incondizionata. Non è uno Spirito inteso come immediatamente coincidente con Sé, ma è il risultato della relazione e della compenetrazione sintetica del Sé come dell’altro da Sé. Questo è lo Spirito Assoluto presso Hegel come afferma A. Leonard e D. Henrich in Absoluter Geist. Allora se questo è lo Spirito, cioè se lo Spirito è la sintesi del Sé con l’altro da Sé, in quanto Autocoscienza assoluta ed incondizionata che piega e curva di nuovo l’andamento del Sé che torna in Sé e per Sé mediante l’altro, rispetto alle metamorfosi infinite della determinatezza finita che rimane invece come semplice alterazione di Sé senza conchiudersi e senza che pieghi l’alterazione e lo riporti liberamente in sé e per sé, poiché la determinazione naturale ha dichiarato guerra all’alterità e all’Altro, in una presunta autosufficienza incondizionata di essere in sé, la coscienza appunto ha rimosso ma mai veramente superato l’alterità, quest’ultima gli si rinfaccerà in modo tale che quell’alterità ogni volta che gli si ripresenterà questo multiverso di determinazioni naturali, subirà continue alterazioni senza governarle rovesciandosi appunto nel suo opposto. Ma nel senso che questo rovesciamento lo porterà all’annullamento o superamento non di quell’astrazione che il determinato finito voleva superare, ma di se stesso come determinazione finita ed ipostatizzata. Da qui il procedimento mentale di tutte quelle rappresentazioni che si auto-pongono, attraverso l’opera entificatrice dell’Intelletto, come vere e reali. Ma che poi si vedranno negate dalla forza dell’alterità che le fagociterà, poiché esse stesse si capovolgeranno nel loro opposto, ossia si capovolgeranno in ciò che volevano superare e negare. Dunque se lo Spirito è il rapporto con l’Altro nel divenire se stessi, ossia mediante l’Altro divenire Autocoscienza incondizionata, assoluta, sintesi di Sé con l’Altro da Sé, orbene se lo Spirito è questo a tutte le dimensioni della Logica, della Natura (inorganica ed organica), fino alla vita passando per le latitudini familistico-private a quelle oggettive sociali-statuali, transitando per l’economico, e attraversando fin dentro le esperienze umane più alte ovvero arte, religione, filosofia, ebbene tutte queste provincie dell’essere corrispondono a diversi gradi dell’affermarsi o meno di una soggettività assoluta, e quindi circolare. Ovvero parte da un Sé attraversa l’Altro, tornando sintetizzato con l’Altro da Sé. Poiché il Selbst per essere tale, cioè Autocoscienza assoluta, incondizionata ed Universale, occorre essere e divenire il risultato della sintesi di Sé con gli Altri. Dall’esistenza ideale e reale (Logica, Filosofia della Natura meccanica, fisica, fisica-organica) passando attraverso le esperienze collettive dell’uomo dal punto di vista soggettivo, poi familiare, statuale, economico, fino alle grandi esperienze del genere umano universali, cioè arte, religione, filosofia. Ebbene si dovrà fare attenzione in quali momenti si è davvero affermata l’autocoscienza assoluta come circolo di Sé con Sé spirituale e reale. Di tanto o meno coincide il soggetto con sé, di tanto o meno la sua relazione con sé. È ricca fino ad essere povera e frammentata nel suo attraversamento dell’alterità in un rapporto o movimento a seconda che si limita o si espande in modo orizzontale. Quindi sono due le ampiezze: tanto più auto-coincide con Sé la soggettività attraverso un movimento centripeto, tanto più in modo sincrono ed inverso coincide con una forza centrifuga eguale ma opposta (in quanto fase centrifuga nella quale vi è la capacità di essere trasformato ed attraversato per e mediante l’Altro), che consiste nell’attuare una trasformazione di Sé che dispone il soggetto ad essere penetrato ed invaso orizzontalmente dall’alterità. Quanto più c’è una coincidenza verticale del soggetto con se stesso, tanto più questa soggettività orizzontalmente espande i propri confini. A cominciare dalla Filosofia della Natura ad esempio, in quanto esser là dello Spirito, essa è l’essere altro dello Spirito, ma non in quanto lo Spirito genera o crea la Natura[12], ma nel senso che la dimensione più propria del mondo naturale è quella dell’esteriorità, cioè ciò per cui quello o altro permane esterno, indifferente, mutevole, cangevole, individuale e particolare, senza concorrere intrinsecamente al senso della propria identità. Come un essere vivente in generale un animale ad esempio: esso non è estrinseco rispetto ad uno Spirito che lo crea altrimenti l’Autocoscienza umana sarebbe la creatrice di un cane o di un gatto, o di un ulivo, ma in un senso che lo Spirito in quella dimensione è Altro, è fuori da Sé, in una dimensione puntuale distinta in molteplici condizioni, ma tutte assolutamente con un filo comune: quello di essere altro dallo Spirito. E cioè Spirito non autocosciente. Il gatto, un cane, non concorrono intrinsecamente alla propria identità. Quindi il nesso tra Natura e Spirito in Hegel non va dunque interpretato secondo il significato per cui una vulgata comune associa generalmente all’Idealismo, che al contrario sosteneva che l’Idea genererebbe la materia fuori di sé definendola come subordinata ed inferiore, ma secondo un rapporto di cattiva o vera infinità. Quindi non è l’idealismo fichtiano che pone e produce l’Essere. È pur vero che l’Essere in Hegel è Spirito, ma in quanto esso è Reale. Poiché tutto ciò che è reale è razionale. Quindi superando una visione prometeica per cui lo Spirito è creazionista o emanatista o produttore del Reale. La dimensione di una dialettica per la quale l’identità è una negazione in sé non solo nel senso distintivo: ossia quando un’autocoscienza si pone come auto-coincidente con sé si pone distintamente tracciando il solco della differenza dall’altro da sé. Ma la negazione non si ferma a tale condizione. L’identità non è solo ciò che produce in sé una distinzione, ma è ciò che istituisce quella stessa identità. Ossia la negazione rende intelligibile l’identità. La negazione produce l’identità con sé. Lo statuto ontologico-esistentivo, lo stesso apparato identitario di un qualcosa che si determina come eguale a sé procede ed è fondato dalla negazione[13]. È il limite che genera le identità. È il momento dell’essere altro che genera e commuta la propria identità di sé. E non è neppure la semplice relazione che intercorre tra le due identità. Non è solo il progetto distintivo che in una dimensione particolare-universale e sovra-individuale connette i molti uno. Non è la distinzione che genera le identità, e quindi non la relazione, ma prima ancora della relazione che comunque non può non procedere dalle identità, prima dell’identità vi è la negazione[14]. Se fosse semplicemente una filosofia della relazione o distinzione, si avrebbe prima ancora della relazione, l’identità, le ipostasi, gli enti che in seguito si relazionerebbero l’uno all’altro. Viene prima la relazione, fermo restando che essa non è un semplice riferimento dialogico e postumo che connette dall’esterno la molteplicità degli oggetti che pone in essere, e quindi attraverso una soggettività riflettente dal di fuori crea una polarità relazionale tra gli oggetti. La relazione è carne, è sangue, è essenza degli oggetti stessi. E quindi questi sono appunto nel loro fondo identitariamente parziali con sé e quindi sono presi dal negativo. È chiaro che lo Spirito è quella dimensione naturale (a partire dalla natura) che non è una dimensione altra dallo Spirito. Non è essa un terreno creato dallo Spirito. Lo Spirito, che è appunto l’auto-movimento progressivo dell’autocoscienza, e lo Spirito inteso come elemento fondante della determinazione materiale, ma fondante non nei termini fondativi, ma fondante nel senso di “essenziale” alla determinazione materiale che in quanto tale, cioè in quanto materia, non può non accogliere obbligatoriamente dentro di sé la determinazione universale. Poiché la determinazione formale è il processo per cui l’autocoscienza diventa assoluta attraverso un continuo alterarsi e trasformarsi da configurazioni sempre meno povere, parziali, precarie, fino ad un completo e conchiuso rinvenimento di sé presso se stesso ma con tutte quelle determinazioni altre che la coscienza ha attraversato. Quindi l’autocoscienza assoluta è sintesi di sé mediante l’altro, raggiungendo quella circolarità incondizionata in sé e per sé. Ma tale movimento è nelle cose stesse del reale, è la vita stessa, poiché ogni determinazione materiale, che sia organica o inorganica, ed ogni tipo di esperienza del genere umano non può non risultare internamente come auto-movimento di sé rispetto all’altro. Sul piano della filosofia naturale, lo Spirito in Hegel non crea la natura. Questa dimensione totalizzante, sintetizzante, come vettore immanente alle cose e alle azioni non crea natura. Non è presente un atteggiamento creazionistico o emanatista o di scaturigine. Lo Spirito non è un demiurgo o una dimensione ontoteologica che permea di sé il reale, ma è quello stesso obbligatorio, impossibile da non ritenere vero: ossia il riferimento dell’altro mediante sé. Poiché in sé non può trarre la propria identità da se stesso, in quanto altrimenti lì ci sarebbe effettivamente un sospettoso movimento auto-fondativo idealistico-spinoziano. Mentre lo Spirito appunto non è idealistico. Lo Spirito di Hegel non pone la realtà. Non è lo Spirito fichtiano. Ma la dimensione naturale, in quanto povertà di Spirito semmai, in quanto la Natura è altro dallo Spirito. Ma non altro in senso fondamento-fondato, ma nel senso di una dimensione non emancipata, non affrancata dall’elemento materiale. La determinazione materiale nel naturale rimane imprigionata in se stessa attraverso una sorta di autoconvincimento per il quale essa è bastevole a se stessa, attraverso questo concetto d’identità tautologico, vuoto, di medesimezza con sé, di auto-eguaglianza di sé, di ipseità o stessità con sé, ma appunto questo creerà ben presto dei problemi. Poiché se la verità costitutiva del soggetto è quella di destinarsi all’altro, questa dimensione che il determinato materiale cercherà di superare ma in realtà riuscirà solo a rimuovere, verrà reincarnata in un’altra dimensione estranea ed estrinseca. A volte anche attraverso una maschera fantasmagorica, spettrale[15]. Ma questo qualcosa che è l’altro ed è ciò che permette di dire all’identità con sé di porsi come coincidente con sé, nel momento in cui viene rimosso da quella stessa identità, anche in modo implicito, fa sì che questa si sbricioli e possa crollare. Ma non in quella negazione determinata mediante la negazione della negazione, ma attraverso una continua ed indefinita alterazione detta cattiva infinità, in indefinite e indeterminate trasformazioni, figurazioni di sé, senza che poi questa soggettività possa piegarsi, curvarsi e tornare in sé e per sé. Senza soluzione di continuità l’autocoscienza naturalistica o individualistica astrattamente universale subirà una serie di rovesciamenti e metamorfosi, alterazioni che non controllerà e che destinalmente la porteranno al fallimento, a soccombere. E questa è la tematizzazione di quello che il giovane Hegel, sin dal 1797-1798 chiamerà ancora Destino. Che non è altro per l’Hegel del 1803-4, già negli abbozzi del Sistema della Fenomenologia dello Spirito, in Logica e Metafisica di Jena, appunto chiamerà dialettica. Il cuore della dialettica è la negazione o contraddizione. Ma fin tanto che quella determinazione particolare-naturale rimarrà in un ambito esclusivo, repulsivo nei confronti della dimensione universale del vettore immanente, del principio dell’auto-movimento dello Spirito in quanto identità con sé, nel momento in cui appunto la coscienza si pone come tale soltanto mediante l’altro da sé, è chiaro che venendo meno l’altro da sé la sua identità già immediatamente così povera, fragile e gracile crollerà e si rovescerà nel suo opposto. E questo suo opposto si tramuterà in potenza estraniata o eteronoma, tanto che alla fine soccomberà, e vedrà quella stessa potenza ritorcesi contro. Hegel terrà fermi degli esempi che farà fino alla maturità con le figure della Coscienza infelice o l’Anima Bella, Abramo, Cristo e gli esempi dei grandi eroi tragici come Antigone. Ma anche esempi storici come il cesarismo imperiale. Queste individualità o aggregati identitari autofondanti in se stessi, subiranno un destino atroce, poiché quel destino è il conto da pagare per aver rinunciato alla vera e propria identità con sé. Ed ecco che l’Enteusserung, cioè quell’uscire fuori da sé, quel farsi altro da sé, che è il primo momento del passaggio negativo inteso come negazione assoluta, o prima negazione, non sarà altro che il momento non del ritorno a sé attraverso la negazione della negazione, ma appunto dell’Entfremdung, cioè della Estraneazione. E del non ritorno in sé e per sé. Ed allora si ribadisce che quel mondo naturale o determinazioni naturali, organiche ed inorganiche, sono coincidenti con se stesse e non si muovono da quella coincidenza con sé, cioè non si sentono obbligati, sbagliando, a dover uscire fuori da sé, a sentirsi altro da sé, per intrinsecamente raggiungere la piena e perfetta coincidenza con sé. Non avvertendo questo bisogno intrinseco di padronanza di sé finale e reale, in quanto autocoscienze in sé e per sé assolute, rimangono essi sul dato tautologico-naturalistico-individuale, per cui si accontentano di essere ciò che sono ma senza avere coscienza dell’altro da sé e quindi senza chiudere la loro personalità in una reale dimensione assoluta e razionale. Un cane o un leone sostanzialmente si raccolgono e si limitano ad essere compresi nel loro genere animale-specie-individuale ad una condizione di perfetta coincidenza con sé. Ma appunto questa perfetta coincidenza con sé è quello stato immediato-naturale, per cui il leone continua ad essere leone e a fare il leone, ma senza che questo esser-ci o dimensione lo porti a considerare che egli è leone perché non è una pantera. Quindi se si è detto che la padronanza di sé di un’autocoscienza assoluta ed incondizionata è l’esito della negazione della negazione, per cui è l’altro che istituisce l’altrui identità, ossia è il NON che istituisce la propria perfetta coincidenza con se stessi, il leone non operando la sintesi di se stesso mediante l’altro, esso rinuncia alla padronanza di sé come autocoscienza. E quindi si può dire che a stretto rigore il leone non sa chi sia veramente e per puro caso avrà tutti i tratti caratteristici dell’essere leone. Ma tale elemento è del tutto naturale, poiché il nascere leone è dettato dalla natura della sua essenza leonina che ha immediatamente presso di sé. Con questo però si ribadisce che nella dimensione naturale o semplicemente naturalistica-individualistica organica-inorganica, la dimensione dello Spirito non è che sia assente. Lo Spirito è presente nella dimensione naturale come elemento sovra-individuale, sovra-determinato, universale, totalizzante, essenziale tanto quanto in una dimensione di un’autocoscienza a padronanza con sé. Quindi lo Spirito c’è nella natura, solo che non è obbligatoriamente, come è giusto che sia invece, nella dimensione realmente universale. Poiché appunto quelle determinazioni materiali si fermano ad una dimensione naturalistica. Ma questa condizione non permette di dire che la Natura è altro dallo Spirito, nel senso che lo Spirito in qualche modo crea la natura come qualcosa di più rigido e quindi di meno vero, o come qualcosa di subordinato o materico e quindi oscuro. Questa visione è idealistica e teologico-creazionistica. Ma la materia nella sua opalescenza, opacità resiste a quell’universalità. Ma non perché la natura sia fuori dallo Spirito, ma bensì perché quella determinazione materiale rimane e resiste nella propria parzialità ed opacità. Si può dire invece che lo Spirito è presente nella Natura in un aspetto sovraindividuale, sovradeterminato, ma senza rischiararsi a dimensioni coscenziali. La Natura non procede fuori dallo Spirito: è lo Spirito stesso, ma nella forma esteriore. L’altro da sé dello Spirito in una dimensione semplicemente naturalistica-esteriore-opaca[16]. Se si applica la dialettica come processo e struttura che conduce lo stesso soggetto dapprima in modalità esteriore, fino allo Spirito, quindi da una forma particolare e naturale-individuale ad una spirituale, in quanto Autocoscienza assoluta, ebbene questo movimento è il dialettico. E il motore di tale movimento e divenire dialettico è la negazione: ossia la contraddizione. Hegel per mostrare chiaramente che il movimento dialettico è ab intra, ossia è nelle cose stesse, come filigrana stessa ed ordito stesso del reale, per affermare questo Hegel dovrà sbarazzarsi del principio di identità e di non-contraddizione aristotelico, mutandolo da principio di non-contraddizione(laddove è interdetta la possibilità persino di pensare la contraddizione) a principio necessariamente della contraddizione. Abrogando quel principio stesso con il principio dell’identità degli opposti. Affermare che il soggetto di un predicato possa essere allo stesso tempo predicato e non predicato di qualcosa, sotto la stessa frazione di tempo e luogo spaziale, sarebbe stato un paradosso inaggirabile. Nella tradizione aristotelica, la contraddizione concerne l’ambito della formulazione logico-comunicativa del pensiero, per cui è impossibile che in un giudizio si possa predicare e non-predicare nello stesso tempo e sotto il medesimo punto di vista di uno stesso attributo uno stesso soggetto, ossia è impossibile che una stessa cosa appartenga e non appartenga allo stesso tempo e sotto il medesimo aspetto ad una medesima cosa. E per fare questo Hegel commette una delle più grandi trasgressioni del pensiero occidentale (forse la più grande!) nei confronti dello stagirita. Infatti per Hegel non si trattava solo di sovvertire il principium firmissimum sul piano logico-predicativo-comunicativo (con le differenti predicazioni contraddittorie del giudizio) del pensiero, ma di entrare in una condizione di “sospensione” dello stesso sul piano esperienziale-fenomenico-pratico, percettivo e materiale (ossia nel determinato stesso) con la mostrazione dello stesso Hegel, che in quello stesso oggetto o soggetto contemporaneamente e sotto lo stesso punto di vista insista la determinazione-formale e la determinazione-materiale, e cioè a dire che consiste insieme l’Universale ed il Particolare, l’Infinito ed il Finito, la Necessità e la Contingenza. Hegel per questo non verrà mai veramente accettato, poiché afferma qualcosa di sbalorditivo trascinando il pensiero oltre le stesse colonne d’Ercole della filosofia e della Logica. Da qui i giudizi sull’Hegel di teologo, metafisico, oscurantista, neo-platonico, reazionario, ed anti-positivista. La scienza infatti che produce il proprio sapere su verità inconfutabili con giudizi logico-analitici, rifiutava il principio della possibilità del principio dell’identità degli opposti: uno o è uno o non è uno; non può essere uno e insieme non-uno, poiché legittimare il principio di contraddizione e quindi dell’identità degli opposti con il rovesciamento e spostamento soggetto-oggetto sarebbe stato inaudito. Quindi il legame d’essenza tra Spirito ed Autocoscienza è un legame d’Essenza reale e realizzato e che in una dimensione contemporaneamente ascensiva e discensiva, allo stesso tempo iscritti entrambi nella duplice teoria della verità circolare hegeliana agisce la dimensione dell’annullamento da parte di Hegel del principio d’identità di Aristotele, e quindi opera la dimensione dell’alterità e quindi la dimensione dialettica, in quanto momento sintetizzante formale e materiale. Motore della dialettica è il non essere del principio d’identità. Ossia è la Negazione, il Nulla, il Non, l’Errore. Osservando che, anche la determinazione materiale è una funzione a questo punto: cioè non è fissata la determinatezza, anche per essa e non solo per lo Spirituale (determinazione formale) vale lo scardinamento del principio d’identità. Il determinato è funzione poiché è dialettico, sciolto ed evaporato accanto e dentro la funzione del “non”, dentro la funzione abrogativa del principio d’identità. Il movimento è appunto insieme centrifugo e centripeto dello spirito: tanto più si ha una coincidenza verticale quanto più, sempre per l’annullamento del principio d’identità da parte di Hegel, lo spirito è fuori di sé, non coincide con sé e quindi è attività centrifuga orizzontale e verticale. Non solo appropriazione di sé come assoluta autocoscienza coincidente con sé o individualità assoluta, ma orizzontalità estrema. Questa dimensione del Geist agisce con tutta la sua potenza nella Logica. Questo ci porta dinanzi, in modo perentorio, alla vexata questio del COMINCIAMENTO in Hegel. Per introdurre il cominciamento logico di Hegel con la Logica dell’Essere (il volume qui tradotto di A. Leonard), occorre partire da un’attenta analisi della Filosofia della Natura. Ossia dall’Identità degli opposti fenomenico-esperienziale, giungendo a quella logico-predicativa, si dispiegano le tre archi-categorie: Essere-Nulla-Divenire. Perché è all’interno della Fenomenologia dello Spirito, con tutte le problematicissime questioni della sua collocazione nell’ambito del quadro sistematico di Hegel nella stessa Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, che si dischiude all’orizzonte, in una sorta di misteriosa propedeuticità, non facilmente coglibile, l’Inizio della Logica. Questa consustanziale presenza dell‘altro come istitutore del Sé in quanto esso non può essere tale e perfettamente coincidente con sé, se non mediante l’altro, porta a tutti i livelli sino all’organizzazione più ampia della soggettività (dalla dimensione empirico-privatistica, sociale e statuale, giungendo poi all’arte, alla religione e alla filosofia). A tutte le latitudini la filigrana dello Spirito è presente, non solo come espressione giustapposta tra ideale e materiale, spirito e natura, ma in una dimensione nella quale lo Spirito è l’insieme delle alterazioni delle figure sensibili, e queste sono a loro volta l’insieme delle trasformazioni di quest’ultima come ultimo momento conclusivo in quanto auto-impossessamento ed auto sapersi assoluto di Sé presso Sé. Questa è l’Idea. Questa è l’autocoscienza come Sostanza ma in quanto trama reale della Realtà. Le categorie non sono astrazioni dalla realtà, ma sono categorie organiche della realtà. Dopo aver letto la filosofia della Natura per poi uscire fuori (l’ultimo tratto della Filosofia della Natura nella parte dell’Enciclopedia è la Fisica organica).
[1] Allorquando il pensiero filosofico si mostra con le teorie sistemiche ed organizzate di Parmenide, Platone ed Aristotele, o delle filosofie scolastico-medievaliste a partire dai grandi sistemi onto-teologici o teocentrici di Tommaso ed Anselmo, passando per Averroè, a partire dal neoplatonismo del terzo sec. d. C., fino ai grandi sistemi metafisici di Wolf, Spinoza e Leibniz, passando per Cartesio.
[2] Si pensi ad esempio ai concetti di atarassia ed aponia dell’epicureismo, in una condizione di perfetta auto coincidenza con Sé ma come pretesa autosufficienza vuota ed irrelata dalla realtà. E pur tuttavia tappe importanti verso la Autocoscienza moderna assoluta, poiché segnano la cesura con quella dimensione metafisica che al contrario i filosofi greci arcaici avevano, in termini sostanziali e rappresentativi (come nelle religioni naturali, che intesero la “sofia” che dovesse produrre principi ilemorfici per spiegare le cause del cosmo) ebbene da quella dimensione universalistica nascerà il progresso di un’articolazione molteplice e multiversa più complessa nel pensiero filosofico, come nel sistema platonico ed ancor più aristotelico, fino all’ellenismo e alla rottura di quel panenteismo greco che porterà all’evoluzione ed all’insorgenza di quel concetto di soggetto. Ma questo concetto di soggetto e di soggettività è vuoto. Marx coglierà tutto ciò nella Dissertatio del 1841 titolata Differenz der Demokritischen und Epicureischen Naturphilosophie.
[3] Il primo leggerà la Wissenschaft’s Lehre nel 1794 quando ancora per un anno risiederà nello Stift di Tubinga ed è ancora troppo giovane Hegel per comprendere appieno la portata dell’idealismo tedesco con la dottrina della scienza di Fichte che inaugura ed apre ufficialmente la stagione idealistica.
[4] Snodo cruciale del passaggio dal criticismo all’idealismo soppiantando le aporie ed i limiti della coscienza kantiana, sia dal punto di vista teorico che pratico già vacillante sotto i colpi dei neo-kantiani Reinhold, Schulze, Maimon e Beck che supereranno il maestro Kant affermando che se “quel non so che” o “X” o “noumenon” ed infine “cosa in sé”, è inconoscibile equivale ad ammettere la radice di un numero negativo. Ma in quanto non conoscibile all’infinito, la cosa in sé non sarebbe stata colta da Kant come invece prodotto dello stesso soggetto. Cioè quel “Non” o buco nero di comprensione e quindi quel territorio di incomprensione della coscienza apparirà invece come parte della stessa coscienza. Quel “Non so che” è dunque il prodotto dell’autocoscienza. Di lì a poco giungerà Fichte ed affermerà che quel limite, quel “Non-Io” o oggettività misconosciuta, quel “de jà là”, o “es gibt”, appunto quel “Non” kantiano, non è altro che il prodotto della coscienza stessa. Ecco l’Idealismo tetico! Come afferma Hegel: “cioè quell’idealismo che ponendo se stesso presupporrà l’Altro”. E quindi la prima proposizione di Fichte: Das Ich setze im Ich, das Nicht Ich, ne aprirà la Dottrina della scienza schiudendo le porte all’idealismo. Fichte sottrarrà così il concetto di soggettività assoluta ed incondizionata di Kant da una dimensione semplicemente pratico-analitico-contemplativa, come condizione cioè statico-organizzativa del reale, affermando invece che quella stessa soggettività non solo è incondizionata ed è principio della realtà (cosa che intuì lo stesso Kant come autocoscienza intesa come unione di Pensare, Essere ed Agire, teoretico e pratico), ma quella stessa condizione è ciò che permette alla coscienza di creare il mondo.
[5] Cosa che non accade in Kant dove il soggetto a livello della conoscenza sensibile, Estetica trascendentale, non è altro che esito di modificazioni che riceve passivamente dagli elementi contingenti della realtà, per cui il soggetto kantiano è il risultato di ciò da cui è modificato. Da qui la profonda scissura tra soggetto ed oggetto. La riflessione kantiana, è infatti per Hegel una riflessione estrinseca perché appunto “sorvola” il reale senza veramente comprenderlo. Lo organizza, dispone il mondo ma senza strutturarlo. È certo che Kant rispetto a Cartesio è “eponimo della modernità”. Con quest’ultimo è vero che “la filosofia avrà toccato terra”, poiché il cogito cartesiano afferra qualcosa di lì in avanti di inevadibile, in quanto il soggetto cartesiano non è dipendente da principi metafisici, ma con Kant in termini di filosofia dell’autocoscienza e della libera soggettività si avrà in più l’intuizione del fatto che quelle verità matematico-geometriche attraverso le quali il sistema cartesiano può organizzare il reale per cui se qualcosa esiste è solo perché è misurabile e determinabile nello spazio e nel tempo e quindi da un punto di vista l’uomo non può fare altro che misurare e calcolare le cose intuendo che ciò che esiste, la res extensa non è altro che contenitore di contenuti, legittimata dalle verità matematiche come auto-evidenti per sé con le quali il soggetto conosce le cose dislocandole nello spazio e nel tempo. E quelle stesse verità matematiche non sono solo fondatrici dello spazio e del tempo, ma sono verità che fondano anche la coscienza stessa del soggetto, poiché i fondamenti della conoscenza dell’uomo sono basati su concetti che si riscontrano da un punto di vista analitico e poi sintetico, e quindi esperiti attraverso la coscienza “applicata” al reale. Ma così la matematica sta a fondamento della conoscenza analitica ed esperienziale. Ma al centro di tutto v’è il cogito. Ossia tutto questo sarebbe impensabile se non si fondasse il pensiero la stessa esistenza di tutto. Da qui il dubbio cartesiano: è plausibile pensare che non esista alcunché ma nel momento in cui un individuo pensa che questi non sia, egli si pone. Poiché il cogito in quanto inaggirabile è sempre il produttore del proprio pensiero e della propria stessa esistenza. Ma questa è collegata alle verità matematiche e quindi ai concetti di Unità ed Identità che Cartesio deriva per interposizione dai concetti matematici e geometrici però il pensiero è la base di quella dimensione veritativa attraverso il dubbio.
[6] Ossia non avviene tale percorso solo in una prospettiva logico-antropologica, ma è insita anche nella mitologia delle rappresentazioni di principi mitico-poietici e favolistici per i quali anche nella rappresentazione di un Dio come absconditus, di radice giudaico-ebraica, che poi riprenderanno i teologi negativi e nella scolastica come Duns Scoto, ebbene il Dio come esso stesso radicato in una forza che Dio stesso percepisce come forza negativa, o zona di “non-senso”, fino ad arrivare all’Assoluto di Schelling, in cui il filosofo stesso porta al cuore della Sostanza l’inconscio, e quindi ancora il “non-detto”, il “non-chiaro” per definizione, sino a giungere alle teorie freudiane per le quali si celano sempre alla base dei sistemi neuronali, elementi astrattamente negativi, sempre presenti come astrazione e privazione che procureranno quell’insoddisfazione della macchina neuro-cerebrale, che vedrà una dinamica sempre sofferente, dello stesso sistema funzionale nei percorsi neuronali, ebbene fino ad arrivare all’identità di un soggetto che per rivendicare la propria soggettività non può non partire dalla “morte”, pensando all’Antigone di Sofocle. Cosicché la base ontologica della soggettività nasce sotto una cattiva stella, che è quella della morte, del dubbio, della malattia. Solo nella rivendicazione della sepoltura di un corpo morto sembrerebbe che nasca il concetto di soggettività nel senso moderno, come scriverà Hegel, così si capisce come il “negativo”, la “negazione” (che poi nel post-moderno transiterà magicamente dallo spirituale al materiale, grazie a questa trasgressione assoluta che Marx compierà nei confronti di Hegel, e che il post-moderno raccoglierà come momento definitivo di un nichilismo che sotto traccia in realtà svela la trama del reale in tutte le sue province dell’essere, fino alla parentesi heideggeriana e di nuovo reazionaria, con la riproposizione di una condizione metafisica oltre che fenomenologica), ebbene questa è l’astrazione che ha sempre sostanziato alla trasposizione e alla configurazione reale ed irreale degli assoluti che si sono succeduti nel tempo della storia della storiografia filosofica.
[7] La Coscienza abbandona quella dimensione solo soggettiva e parziale ed individuale e naturale con sé, ed attraversando e rischiando con la via del dubbio e della disperazione e tutto ciò che conquisterà di volta in volta e che presumerà essere vero si rivelerà come non veridico. Come ad esempio l’oggetto della percezione, dell’intuizione, dell’intelletto, etc. e vedrà tutte le sue forme di conoscenza e di sapere di se stessa rispetto all’altro, come non veridico. E solo alla fine essa capirà che è verità essa stessa quando avrà risposto a quell’esigenza auto-obbligata cioè ab intra dello spirito in quanto momento di apertura all’altro a quell’esigenza di domanda che è dello Spirito: che è “tu sei solo ciò che è altro da te”, e solo alla fine risponderà la coscienza “io sono assoluta solo perché sono stata ed ora sono tutto ciò che era altro da me”.
[8] Ma attraverso un movimento che non è soggettivo o rapsodico come aveva delineato Fichte, per cui quella coscienza torna ad Unità con se stessa, e vi torna attraverso la dimensione totale di tutti gli ambiti, cioè Pensare-Essere-Agire. Ossia tutto il mondo fenomenico (Filosofia della Natura), attraverso la Logica, si giungerà alla Filosofia dello Spirito che terminerà attraverso l’autocoscienza come sapere assoluto. Dall’altro lato accade che la funzione dialettica, che gode di uno status infinitizzante-universalizzante-spirituale dinamica che è il cammino del determinato in quanto autosapersi libero in sé e per sé incondizionato, e la funzione particolare materiale che non è altro che la trama carnale e non ideale che permette di intuire fenomenicamente, percettivamente lo spirito, quindi l’universale in una dimensione particolare. Questa è la dimensione per la quale lo spirituale diventa universale, ma proprio grazie alla particolarità, mentre il particolare è tale solo nell’universalità, ebbene assistiamo alla discesa negli inferi dell’universale. Cioè per Hegel l’idea della Totalità o Verità nel senso di un principio che raccoglie Essere-Pensiero-Agire, non può non avere una dimensione reale perché si ha appunto l’Essere, e non solo il Pensare e l’ Agire (altrimenti avremmo potuto solo avere un principio anche solo metafisico che fosse pura Intelligenza senza l’Essere come l’Idea delle Idee platoniche, oppure che fosse solo pura azione come per esempio concetto o principio di pura Volontà), ebbene questo non sarebbe bastato ad Hegel. E mentre altri avrebbero pensato tali principi in modo intuitivo e rappresentativo, Hegel, come d’altronde va ad imputare a Spinoza e a Leibniz, dichiara che in quei principi c’è assenza di Realtà. Ossia l’assoluto per essere tale per definizione deve essere anche reale oltre che Ideale, poiché se l’assoluto fosse solo Ideale, cioè solo pensiero sfociamo nel platonismo. Ossia si finisce con il sostanziare un’Idea realissima. Se fosse solo così l’assoluto ideale ma reale, ma reale senza esserlo veramente, sarebbe parziale, non sarebbe l’assoluto. Dato che per Hegel l’assoluto è l’unità del pensare e dell’essere, Spirito e Natura, Pensare ed Essere (ma non l’essere ideato, bensì l’esserci). L’errore deriva dal fatto che c’è un’applicazione intellettuale in quanto separazione tra Essere ed Esserci. Stesso grande problema che avrà Heidegger, che è infatti un metafisico oltre ad essere un fenomenologo. Perché è vero che si occupa dell’esserci affermando tuttavia che esso è gettato o inviato dall’Essere. L’esserci è il volto limitato e transeunte dell’Essere come principio ontologico assoluto. Quando Hegel pensa all’esserci non pensa poi ad un Fondamento di esso in quanto Essere superiore, poiché l’Essere Assoluto, cioè Dio, è la Realtà stessa per Hegel. Il Geist hegelianamente inteso non è Spirito “creatore”. La dialettica o spirito non crea il reale. La realtà non è un oggetto creato da una sostanza creatrice o generatrice o emanatista che pone il reale, poiché il reale è lo stesso Spirito che si realizza. E non è pure una forma di immanentismo o di panteismo, poiché non viene lo Spirito intuito astrattamente nel reale e quindi in modo naturalistico (laddove l’oggetto con proprietà taumaturgiche celebra il divino che rappresenta: naturalismo ilemorfico) come se la spiritualità fosse identificata e consustanziale di elementi naturali simbolicamente universalizzati. Neppure si tratta di un panteismo poiché lo spirituale che permea di sé il reale non lo fa in Hegel in maniera teologico-rappresentativa, ma lo attua in forma “razionale”, e non persiste per sé come creatore “sciolto” a priori dalle forme del reale.
[9] Sul problema del “nulla” si vedano i par. successivi II, III, IV.
[10] Ecco che l’Assoluto hegeliano deve poter essere Pensiero-Essere-Agire. Nel caso dell’Agire, il Soggetto della modernità deve poter saper agire, dopo Fichte che esalta il concetto della praxis o del fare. Tutto il novecento il concetto del fare, dell’agire è al centro della modernità, dal pensiero marxista a quello nietzscheano della Volontà di potenza. Il soggetto non sarà più pre-garantito, come nel pensiero classico greco, da una Sostanza o sostrato che sta alla base della soggettività aristotelica. Ecco che con il primato della praxis, assieme all’Essere e al Pensare si ha una Totalità agita, realizzata, oltre che Pensata ed Esistente.
[11] Così come lo spettro di Banquo a Macbeth, ciò da cui voleva separarsi e appunto rimuovere e negare, di nuovo il fantasma attraverso un fantasma o immagine proiettiva o finzione. Si veda anche in questo il bisogno di Hegel di elaborare un sistema capace di contenere in sé unità e opposizione che rende problematica perciò ogni esclusione, che come “il fantasma di Banquo che insegue Macbeth” segnerebbe un destino condannato all’incessante inseguimento dell’escluso. La questione mente-corpo si inserisce perciò, ad avviso di Hegel, in questo errore di categorizzazione che ha segnato la modernità, incapace di pensare il rapporto, dando vita a due concetti posti come autosussistenti e autonomi. Per Hegel si tratta pertanto in primo luogo di operare una rideterminazione del linguaggio comune. Come si legge al § 389 dell’Enciclopedia: “allorché anima e corpo vengono presupposti come assolutamente indipendenti tra loro, essi sono tra loro impenetrabili come ogni materia rispetto ad un’altra, e ciascuna può essere accolta soltanto nel non-essere dell’altra, nei suoi pori”. In questo caso la loro comunione costituisce un mistero incomprensibile, per oltrepassare il quale si deve operare una ricomprensione dei termini corpo e anima, natura e spirito, così da rendere questa relazione non solo conoscibile, ma anche comprensibile.
[12] Creazionismo per il quale Dio non può non avere la necessità di farsi altro da sé e che quindi crea il mondo e senza il cui Dio, il mondo non sarebbe esistito.
[13] Proprio perché la penna non è tale, essa è un quaderno. Il non–essere dell’altro fa sì che l’altro sia quello che esso stesso sia.
[14] Non viene appunto prima il relarsi tra il quaderno ed il libro, il fatto che poi si dica che qui c’è un quaderno e là un libro. Ma a stabilire e a statuire l’identità del quaderno e del libro, è il fatto che il libro per essere tale non può non essere negato e quindi poi affermato in sé e per sé dal quaderno.
[15] Pensando a Banquo, che Hegel cita nello Spirito del cristianesimo e che si eleva a spirito nelle notti e nelle veglie di Macbeth. Il carattere proprio della tragedia di Macbeth è la rappresentazione del dramma della vita quando essa pone di fronte a sé la morte come principio a lei estraneo. Macbeth uccide credendo cha la potenza della morte non appartenga alla sua stessa vita: egli stesso dunque evoca il fantasma di Banquo, reso oggettivo di fronte a sé dalla sua stessa concezione dell’essere della vita come cosa, oggetto cui è estranea la dinamica interna di nascita e morte, intesi qui piuttosto come il prodotto di una essenza esteriore. Nella logica della potenza, infatti, la forza appare la relazione esteriore tra cose, il dominio appare come un atto indipendente dall’essere reciproco del dominatore e del dominato. Così gli dei greci sono potenze interiori all’uomo ed alla vita; gli dei di Macbeth sono essenze esteriori, oggetti di cui egli si fa servo. Qui la bellezza non muore perché non è mai nata: la dinamica che la produce non è neppure stata avviata. Le due tragedie corrispondono alla duplice opzione dell’umanità di fronte alla natura insensata e violenta: dominarla o rappacificarsi con essa. L’essenza del tragico, in entrambi i casi, nasce dalla realtà della vita che è tanto in noi quanto nella natura.
[16] La chiave di lettura che legge in Hegel uno Spirito che precede (materia organica-inorganica) e trascende la Natura, che la pone, la crea (teologismo creazionista), intende interpretare Hegel medesimo in termini non “spirituali”, ma “spiritualistici”, ossia in un senso teologico-metafisico. Le critiche di Feuerbach e altri che giudicano Hegel come una sorta di teologo mancato e neoplatonico (esempio della Destra hegeliana che leggerà Hegel come un “onto-teologo”, parlando non solo di panlogismo, ma di una vera e propria teologia panteistico-sostanzialistica), non scorgono invece che la formulazione della dimensione naturalistica in Hegel è una res extensa cartesiana ma rifondata. Nel senso di una res extensa invece che calibrata sulle coordinate delle ascisse cartesiane, di modo che tutto ciò che esiste è dato analiticamente dai giudizi e dalle verità matematico-geometriche che tutto spiegano per l’oggetto che traendo le sue coordinate spazio-temporali fondandolo nella sua esistenza, mediante i concetti chiari ed evidenti, Hegel invece riformula la res extensa cartesiana in modalità logica-antropologico-fenomenologica. Cioè mentre le verità cartesiane esistono grazie al fatto che un Dio non ci inganna e che quindi sottendendo e regolando il reale ci consentono di capire il reale come insieme di punti spaziali-materiali in quanto matematici-geometrici, la verità dello Spirito invece è l’Autocoscienza stessa. Ma senza l’idealismo tetico fichtiano o trascendenza teistica ed emanatista cristiano-platonica, quasi che Hegel sia un neo-platonico del III sec. d.C., come se fosse Hegel produttore e profeta di principi metafisici astratti che scardinano il principio di individualità e di soggettività.