Dialettica e mondo nella storia dell’idealismo assoluto

Lucia Donazzolo

È la dialettica nel senso positivo che pensa nella contemporaneità della stessa unità di tempo il qualcosa e l’altro. Questo è il finito che cessa di finire divenendo invece assoluto, ma non trascendente, bensì immanente alla realtà. Il finito cessa di finire poiché termina la reduplicazione nella pseudo sintesi dell’intelletto di un finito rispetto all’altro, quindi si ha l’assoluto. Esso è il sistema stesso del determinato in quanto sintesi del particolare con l’universale. L’assoluto non è altro del finito stesso nel suo abbandonare la falsa assolutezza della sua naturalità (primo momento rappresentativo), e nel suo perseguire un’identità che non sia rapsodica (secondo momento-intellettuale o negativo razionale), ma in quanto figura salda capace di sostenere il rapporto con l’alterità. È questa la funzione più caratteristica del superamento del finito, quale lo definisce Hegel, con il termine Aufhebung. Essa non significa solo “superamento”, laddove tale espressione non esprime solo annichilimento del finito, bensì elevazione dello stesso finito a conservazione o innalzamento della nuova prospettiva superiore alla precedente, in cui la precedente stessa è conservata. Cioè è innalzata a rete di relazioni, non più nella sua presunta, autonoma, astratta identità con sé, ma nella rete delle relazioni che la sostiene con un’esistenza che finalmente viene ad assurgere come priva di “precarietà”(terzo momento-speculativo, positivamente razionale)[1] .Tutto questo movimento dal I° momento (astratto intellettuale) al II° momento (dialettico o negativo razionale) fino al III° momento (speculativo o positivo razionale), è circolare. Ad attuare tali momenti è la soggettività, che non esce mai da se stessa. Nel senso che tutti i momenti sono identificativi di una processualità che parte, rimane e torna, presso il soggetto stesso. Ecco la circolarità Logico-conoscitiva ed epistemologica del presupposto-posto. La soggettività non esce mai da un processo circolare, poiché anche quando si pensi esserne fuori (come all’inizio della Logica dell’Essere, nel cominciamento dell’Essere puro), essa stessa esce da sé. Cioè nel non pensarsi di sé, si include. Si fa altro da sé con se stessa. Ossia trapassa nei vari momenti delle sue rappresentazioni possibili, ma tali sono ciò che identificano Sé medesima come identità di sé. Cioè le rappresentazioni altre, che la soggettività attraversa, non sono altro che momenti di se stessa, ossia passaggi che sono costitutivi della stessa consistenza ontologica della medesima soggettività. Fin a quel ritornare supremo con sé, che consiste nel toglimento di ogni presupposto naturalistico del proprio Sé, e quindi naturalistico, autoritario, meramente trovato e consegnato alla sua esistenza e nel raggiungimento con ciò di una identità che è l’esito solo nel proprio prodursi e realizzarsi. Quindi soggettività hegeliana è sempre presso di Sé. Essa supera se stessa da una dimensione naturale ed estranea, tornando in seguito presso Sé. È un percorso, quello delle rappresentazioni, che il soggetto attraversa e che rivela un uscire fuori da sé, ma che è un uscire stando dentro di sé. Poiché essa piega quella dimensione naturale (movimento della cattiva infinità: finito che nega altri finiti indefinitivamente, con cattiva infinitizzazione del finito stesso) ,conquistando infine un processo circolare. Questa è la riappropriazione, in quanto Sapere Assoluto, dell’Autocoscienza, che è appunto circolare. Esso è superamento di una dimensione dialettico-negativa (II° momento della Logicità) dell’Intelletto. È la negazione della negazione: questo è il Concetto, la Verità, la circolarità dell’Autocoscienza. È chiaro che gli esiti sono problematici: 1) la fine della dialettica, attraverso la sintesi degli opposti, mediante un’assolutizzazione del Soggetto come Sostanza; 2) Uscita da una dimensione pratico-psicodinamica e quindi fenomenologica, di quegli stessi processi della Negazione che in seguito trascorreranno nella contraddizione, ad una condizione esclusivamente Logico-predicativa, quindi apofantico-dichiarativa.Ora stando così le cose, quel Finito fuori dalla coscienza (che la coscienza naturale aveva negato) continuerà a vivere in quella prima Autocoscienza, grazie alla sua morte. Cioè grazie al fatto che, il finito fuori di sé, che è la metafora dell’alterità come universale, sia negato la morte ed il sacrificio di tal finito, si trasfigura nella morte e nella sottrazione di consistenza ontologica della prima soggettività naturale. Essa viene così a deperire, ad essere cioè invasa. Questa chiaramente, non ne è cosciente. E come in una “tragedia edipico-ontologica” ciò che verrà colpito, colpirà inesorabilmente l’autore dello stesso misfatto. Così come Edipo, non informato del fatto che la donna che seduce è in realtà la propria madre, allo stesso tempo in Hegel, la soggettività naturale misconosce che quell’altro fuori di sé, è ciò che gli permetterà di essere realmente “esistente”, incondizionato. E quindi dando la morte all’altro da sé, ritenuto (erroneamente) finito, inconcludente, indifferente, insussistente, l’autocoscienza implicitamente e reciprocamente permette che l’altro lo destituisca, quindi la morte dell’altro significa il vivere dell’alterità nella trasposizione di un passaggio, per il quale “quell’altro negato”, invade e sottrae consistenza ontologica alla soggettività naturale. Quindi cattiva infinità in tale duplice guisa: 1) una Negazione assoluta o non tenuta a freno da parte della prima coscienza naturale che attua mediante il dileguare di tutto ciò che ha intorno, la potenza del Negativo, che però appunto rimane come semplice e pura negazione astratta, che distrugge le alterità, senza le quali non si danno dimensioni realmente autocoscienziali. Non si è parziali con il Tutto, non si è sintesi dell’Uno ed i Molti. Non si è appunto Universali e Particolari. Quella stessa Negazione assoluta, che generata dalla non-paura della morte del Signore, quest’ultima attuata in riferimento all’oggetto lavorato dal Servo, senza che il Signore sappia nulla di quell’oggettività e di quel mondo. Poiché lo distruggerà con il Godimento o soddisfacimento (Bedriefigung) dell’utilizzazione di questo, così il servo sopravanzerà al Signore, poiché il Servo attraverserà una Negazione, non nobile e pura come quella del Signore, ma molto meno astratta e più concreta[2], tale universalità derivata dal non temere la morte è una negazione astratta. È un’universalità indistinta, che non rende consapevole il Signore di non essere realmente Universale Particolare. Considerato che quella stessa Negazione Astratta, che viene dal fatto di non temere la morte, è quella che semplicemente distrugge gli oggetti che ha dinanzi a sé nel utilizzarli solo per il proprio godimento. Il Servo, invece, attraverso il servizio ed il Lavoro, produrrà quell’Universale realizzato, poiché appunto comprenderà l’oggetto e la molteplicità delle cose e quindi l’universalizzazione di sé in quanto reale, mediante la trasformazione negazionale, con il lavoro reale sul reale medesimo. E quindi sarà insieme Negazione e allo stesso tempo si rispecchierà, ritrovandosi, nell’oggetto lavorato. Di conseguenza non vi è estraneazione ed alienazione in questa fase della lotta tra Servo e Padrone. Questa lunga digressione della dialettica Servo-Padrone, serve ad agganciarsi alla processualità medesima della Coscienza Naturale, su di un piano “naturalistico”, in una fase appunto pre-riconoscimento tra autocoscienze. Poiché la coscienza naturale nega in modo astratto, assoluto, tutto ciò che è e tenta, attraverso questa negazione, di elevarsi ad infinitizzazione, ossia ad Autocoscienza universale. In realtà, in questa cattiva infinità, in quanto cattiva elaborazione e mediazione del finito, vi è la cattiva infinità, come la definisce Hegel. Ma quest’ultima è appunto la successiva e contemporanea operazione di decadimento, di devastazione e autorepulsività della propria consistenza ontologica. Quando quella stessa soggettività finita, viene invasa da quel finito che riteneva come altro in quanto insussistente ed indifferente di per sé, ma che appunto negato il quale, essa si ritrova come in un tragico epilogo edipico a morirne per quella morte dell’altro, attuata fuori di sé. Cattiva infinità, poiché quel finito che sopprimerà e che invaderà quella prima figura di soggettività coscienziale, naturale, si troverà a sua volta negata ed invasa da un’altra finitudine od alterità, che incontrerà sul proprio cammino e che attuerà, come per la prima determinazione finita, quella stessa negazione assoluta di quell’altro finito (valutato come “indifferente ed insussistente”), che però mediante il suo esser tolto perderà quella stessa coscienza finita o determinazione naturale, la propria medesima consistenza ontologica e così all’infinito. La cattiva infinità è l’esito dell’attuazione di una cattiva negazione (cioè di una negazione non tenuta a freno), a causa della quale si avrà un’infinita moltitudine di figure infinite, che una dopo l’altra si presenteranno, dapprima come opposte ed in seguito come vittime e carnefici della finitudine che di volta in volta scomparirà ed autoimploderà e la coscienza, che attiverà questo viaggio indeterminato ed ininterrotto, costituito appunto di infinite alterazioni da finito a finito. Ecco la cattiva infinitudine, che sta dunque proprio nell’alterazione infinita costante di figure, che verranno una dopo l’altra all’infinito a determinare la stessa consistenza ontologica di quella coscienza, che quindi alla fine non sarà null’altro che niente, se non solo questo perdurante alterarsi di se stessa in una catena infinita di finiti. Questa è la cattiva infinità. Ma che cosa è la cattiva infinitizzazione? Essa è un processo o funzione che, sempre la coscienza naturale, attua in riferimento diretto al processo della cattiva infinità. Cioè a dire, la cattiva infinitizzazione è quella condizione per la quale l’altro da semplice altro, come termine differente e distinto, passa a divenire una sorta di “differente esserci colposo”: ha la colpa di limitare il raggio d’azione della coscienza naturale e per questo motivo quest’ultima inizia a “bombardare” l’altro da sé, figurandoselo come nemico opposto. Quindi dalla distinzione o differenza risultante ancora di una dimensione di filosofia della Natura, intesa come regno delle determinazioni inorganiche ad una condizione sempre naturale, dell’opposizione come negazione dell’altro da sé (per esempio per la propria sopravvivenza: regno della natura organica), fino alla consapevolezza volontaristica di negare questa condizione dell’altro da sé. Sorge il tema della volontarietà ad istituire un campo di forze tensionali, nel quale il soggetto carica una certa idea dell’altro come “nemico” opposto e la scarica nella sfera dell’alterità. Quell’altro da semplice distinto diventa nemico, o opposizione. La dimensione della negazione in termini oppositivi ha un’origine in Hegel psico-pratico-dinamica. Hegel anticipa le categorie cliniche della psicoanalisi, perché presuppone quella processualità di rimozione-spostamento-proiezione, per la quale l’oggetto, l’altro, da primo termine, inteso come semplicemente distinto, diventa l’oggetto opposto. E quindi vi è una sovradeterminazione, un sovraccarico di negazione-opposizione, trasfigurato nell’oggetto inteso come altro. Si ha cioè un carico negativo che la coscienza volontariamente o involontariamente esercita e che scarica nel termine dell’Altro inteso come opposto, cioè da negare. Ma perché qui vi è una cattiva infinitizzazione? Poiché l’altro, inteso dapprima come semplice oggetto indifferente, insussistente, viene a caricarsi di un significato sovradeterminato, che cioè lo sovradetermina, ossia lo sovrastima. E quindi l’altro viene a caricarsi di quella energia tensionale (operata dalla prima coscienza), di quell’aura di locus primario, che lo rende bersaglio eterno di negazione, ma così facendo, lo eleva in una sorta di universalizzazione. In quanto la coscienza naturale va a riferire a quello oggetto una dimensione sovradeterminata, cioè lo innalza da semplice e mero altro oggetto ad Oggetto (con la assolutizzazione di questo), anche solo per negarlo o per escluderlo. Ma così quell’Oggetto diventa il centro nevralgico di quella questione e con ciò diventa non la cosa, ma la Cosa stessa, con un eccesso appunto di universalizzazione. Questa è la cattiva infinitizzazione. Ora, in verità, tale processo è attivato dall’Intelletto, perché è l’intelletto che fissa dei pensieri e li elabora all’esterno, proiettando sullo sfondo una scissione o contrapposizione dualistica (perché è questa sostanzialmente, la potenza del negativo) e allo stesso tempo fissando quella contrapposizione e quel dualismo, come se rendesse materiale quei momenti entificandoli. Quando questo processo avviene in Hegel, non su di un piano squisitamente teorico o anche semplicemente pratico, ma quando avviene ad un livello politico-sociale, quella stessa capacità astraente ed entificatrice ed oppositiva dell’intelletto, creerà istituzioni, istituti, centri rappresentativi di una comunità da un punto di vista socale-culturale e d’integrazione culturale, ma appunto esaltandone astrattamente la dimensione contrappositiva quindi scissoria, dualistica di una comunità di uno stato, che viene stratificato su istituti opposti, creando estraneazione, alienazione, separazioni e scissioni. Quando questo avviene, l’intelletto, che avanza per coppie seriali e relazionali, per le quali lo stesso meccanismo intellettuale produrrà e poi parteggerà per questa o quella dimensione, piuttosto che per quella o l’altra facoltà (sintomo di un procedere dualistico che mai si risolve in una vera sintesi e allorquando l’intelletto crede di averla raggiunta, questa a sua volta non fa che riprodurre una nuova scissione o mera unità la cui somma è pari a “zero”), esso privilegiando ora questa facoltà, ora l’altra, ora la teoretica, ora il sentimento, ora la sensibilità, ora la pratica etc, produrrà nella storia istituti, culture e civiltà che avranno caratterizzato l’umanità di volta in volta a seconda dell’astrazione e scissione conoscitiva dell’intelletto stesso, che pure in una filosofia dell’autocoscienza e quindi dell’assoluta autocoscienza incondizionata, anche sino alla modernità, preferirà ad esempio una dimensione teoretica ad una pratica. O al contrario piuttosto che una dimensione pratica, una spirituale, influenzando la storia dell’umanità. Tutte caratterizzate, queste forme comunitarie storico-culturali, da una forma di parzialità, incompletezza e scissione e contrapposizione. Questa parzialità, fra l’altro, delle formazioni storico-sociali, rimanda alla teoria della causazione idealistica della storia. Il soggetto individuale, attraverso una sua propria asimmetria irrisolvibile ed inaggirabile, di volta in volta esperisce, in quanto teoria della causazione idealistica della storia, la realtà, facendosi modello archetipico nella sua generalizzazione del costume sociale in modo estrinseco e parziale. Quindi il soggetto intellettualistico, attraverso la propria asimmetria, ha da sempre prodotto nell’antichità come nella modernità forme socio-politico-comunitaristiche (forme e comunità della civiltà umana), che hanno influenzato attraverso la teoria della causazione idealistica della storia, parzialità, incongrue scissioni, alienazioni tra le parti e il tutto, tra singolo e comunità, tra organico ed inorganico, sensibilità e sovrasensibilità. Quando in una determinata epoca storica il soggetto individualistico-intellettuale, ha preferito scorgere nella dimensione del sentimento o dell’intuizione immediata il primato della materia sullo Spirito, si sono avute organizzazioni, Istituti e società storiche che si sono poi collocate in una dimensione materialistica, operando scelte e producendo parzialità e valori materiali a scapito dello spirituale. Quando invece si sono andate a privilegiare facoltà teorico-speculative si sono avute dimensioni nelle quali il materialismo, l’utilitarismo, il pragmatismo venivano tenute sotto scacco da una dimensione estremamente ed unilateralmente noetica, essenzialista ed ideologica. Questo spiega l’andamento della soggettività intellettualistica secondo la teoria della causazione idealistica della storia. Pertanto Hegel afferma che la storia dell’Intelletto in quanto storia delle idee ha da sempre influenzato le civiltà ed i Generi. In questa teoria della causazione idealistica della storia, l’Intelletto, oltre che a generare ed organizzare la realtà pratico-istituzionale attraverso un mondo delle Idee intellettualizzate, cioè scisse ed asimmetriche rispetto al reale, ha prodotto istituzioni frammentate e scisse, ingenerando separazioni, contrapposizioni, alienazioni, estraneazioni, nel corso della storia delle civiltà e delle comunità. Ora riguardo agli effetti dell’azione di una soggettività intellettualistica nell’ambito storico-politico, psico-dinamico e filosofico, nonché di nuovo psico e socio-dinamico, l’Intelletto mette in atto una falsa infinitizzazione del finito. Influenzando la dimensione psico-dinamica, quindi coscienziale, ma anche con i medesimi esiti dello stesso processo, ossia di rimozione-spostamento-proiezione, la sfera della società politica. Ossia, di nuovo, gli effetti della processualità della coscienza naturale si osservano su scala generale, dunque su una dimensione storica-politica-sociale. Così il processo della falsa infinitizzazione del finito, da un punto di vista psico-dinamico-individuale, porta alla caratterizzazione di un individuo naturale che ancor prima del nesso sociale (cioè ancor prima della dialettica dell’Anerkennung), produce la sovradeterminazione dell’Altro da sé, che in tal modo da semplice distinto o differente diventa opposto e quindi negazione da negare. La genesi della negazione giunge quando si fuoriesce da una dimensione di differenza di indifferenti dei molti (stadio questo della Filosofia della Natura inorganica) e passando ad una involontaria ed inintenzionale esclusione, pensando agli organismi animali su schemi di carico e scarico, orditi su intelaiature di forze tensionali di campo psico-dinamici, fino a situazioni intenzionali legati ad esseri razionali (affetti e volontà dell’essere umano) in campo appunto solipsistico, mono-individuale, da cui nasce la struttura negazione-opposizione, dalla quale poi si giunge allo stato della contraddizione come motore della macchina dialettica. Questo stesso processo, quando viene riferito non semplicemente ad una dimensione individuale psico-dinamica, ma ad un ambito socio-politico e collettivo, condiziona l’intera comunità. Fermo restando che sia nel percorso singolar-psicodinamico e pratico della rimozione-spostamento-proiezione, sia in una determinazione socio-dinamica collettiva e politica, questo stesso processo è attivato in maniera cosciente dall’Intelletto. Dato che è quest’ultimo che sia nel soggetto individuale e sia nel soggetto collettivo, individua un altro da sé, lo vede come un qualcosa che limita la “personalità “del primo Altro e fa scattare, nella coscienza naturale, la condizione di una rappresentazione dell’altro, a tutti i costi da eliminare e quindi oppositiva. Il problema è il seguente: l’Intelletto agisce prima di una posizione spirituale o agisce dopo? Cioè a dire in questa intelaiatura composta dal sé e dall’altro da sé, la forza messa in campo (quale campo tensionale di carico-scarico) è una forza già dialettica o non-dialettica-rappresentazionale? Come si sa in Hegel lo Spirito è già sempre presente, ma non ancora sviluppato. D’altronde, se si dice che l’Intelletto sta allo Spirito come la Natura sta allo Spirito, si può dire che l’Intelletto non è fuori dallo Spirito o dal Concetto, ma semmai l’Intelletto è l’Altro dello Spirito Assoluto in una processualità o in una forma opaca, inadeguata, incongrua. E quindi si può pensare che all’inizio del processo di rimozione-spostamento-proiezione, giochi la rappresentazione della Ragion dialettica, in quanto primo momento astratto o intellettuale. Ma aldilà di questa considerazione, l’Intelletto dal punto di vista socio-politico-comunitario, attua la rimozione-spostamento-proiezione, ossia non si è più su di un piano individuale ma collettivo-storico-sociale. E mette in atto, come sul piano della singlitudine della coscienza una falsa infinitizzazione del Finito. Mentre quest’ultima aveva una conseguenza per la coscienza naturale di tipo oppositivo, creando poi quella intellettuale (stando alla base della genesi della negazione che da Altro poi diventa l’altro come l’opposto e quindi negazione, opposizione, esclusione che poi traluce in contraddizione e quindi l’Intelletto e la rappresentazione sono fondamentali affinché sorga la negazione), dando l’avvio all’accensione vera e propria della dialettica in termini logici-antropologici e quindi alla dialettica del Riconoscimento (passando per la lotta delle autocoscienze precedente al riconoscimento), gettando le basi per quello che poi accadrà nella dimensione storico-comunitaria-sociale, cioè a livello di Ragione. Anche qui una storia etero-diretta dalle coscienze soggettivamente e intellettualisticamente intesa. Una soggettività intellettualistico-comunitaria, che attraverso la teoria causalistico-ideologica della storia crea quegli scompensi e parzialità di cui si è prima qui fatta menzione[3]. Ma al fondo di questa processione (come secondo la teoria della storia come causazione idealistica della stessa storia mediante una soggettività individuale e poi collettiva ma intellettualistica) avviene quello che accade per la coscienza naturale, ossia l’intelletto, dapprima nella sua forma rappresentativa, attua una scissione ed una pseudo-ricomposizione di tale scissione, ma ora su di un piano sociale-culturale-politico attraverso la rimozione-spostamento-proiezione. Se nell’azione semplicemente constativa della rappresentazione intellettuale, dell’opposizione dell’altro come un altro da sé, dal passaggio ad altro come opposto, con l’opposizione-negazione e quindi contraddizione, nella fase coscienziale-individuale, questa condizione (sul piano della filosofia della Natura, tale condizione era semplicemente constativa del fatto che il soggetto, attraverso un piano psico-dinamico, vedesse nell’altro da sé qualcosa cui opporsi e quindi da negare, facendo sorgere la bisognosità dello Spirituale in quanto negazione-opposizione e contraddizione), che rimaneva su questo livello, in quanto questo era il piano della scissione e della negazione ma ancora rappresentativa, poiché naturale. Dunque, nel merito dell’aspetto eminentemente storico-politico-sociale (ossia sul piano della Ragione e dello Spirito oggettivo), si ha un esito in quanto tentativo di sintesi di quell’opposizione. Ma sarà ed è, un tentativo di sintesi errato, poiché si indugia nella dimensione pur sempre intellettuale, anche se non si è più situati sul piano rappresentativo e naturale. Tuttavia, livello questo mediato in ambito storico-sociale che è già in qualche modo universale e particolare, nella relazione Uno-Molti. Infatti si è dovuto attraversare, per giungere a questa dimensione storico-politico-sociale, la dialettica del Riconoscimento. Percorrendo tutte le stazioni della coscienza naturale, si assisterà al mutamento della coscienza, la quale diventa poi autocoscienza, superando la dialettica del Riconoscimento. Iniziando così ad evolversi in un senso collettivistico-comunitaristico. Ma quel processo che si osservava dapprima sul piano naturale ed appena spirituale, come processo psico-dinamico di rimozione-spostamento-proiezione, ora lo si vede ad un livello socio-politico-culturale, con l’innesto dell’attività intellettuale che già prima sorgeva chiaramente nella scissione tra coscienza naturale ed “Altro”, in una dimensione tuttavia, come semplice tentativo, sintetico del dualismo. Poiché si è ormai nella filosofia della storia, dove si è non solo già formata una sintesi tra Universale e Particolare tra gli Uno ed i Molti, ma dove si è giunti, soprattutto in una dimensione in cui la Modernità risiede nel fatto che si è raggiunta la Filosofia dell’autocoscienza. Quindi non si è più sul terreno di una filosofia della Coscienza Naturale pre-moderna, ma ci si trova invece in una dinamica di una Comunità che è organizzata attraverso strutture con nessi universalizzanti e di universalizzazione, questo a partire dalla dialettica del Riconoscimento tra Autocoscienze. Si è quindi superato lo stadio della semplice condizione constativa della Coscienza Naturale, che annota, che esiste semplicemente fuori di sé un altro da sé, fermandosi a quello stadio. Qui invece si è in una dimensione spirituale-organica a livello storico sociale. A questa condizione si è testimoni, anche qui, della fallace infinitizzazione del Finito, ma con in più (rispetto alla precedente fase rappresentativo-naturale) il tentativo di conciliazione dell’Intelletto che avviene, non attraverso la sintesi dialettica, ma solo mediante la mera giustapposizione dei due estremi, che è quella che l’Intelletto pone in essere, quando tenta di produrre un qualche principio sintetico. Sbagliando, tuttavia, l’Intelletto genera tal principio sintetico degli opposti, mentre la presente sintesi non era evidente nella rappresentazione immediata, che invece rimane nel dualismo, senza sintesi. Qui si tenta di superare al contrario la scissione, ma restando infine il nel dualismo, che resta. Che cosa accade da un punto di vista storico-politico? Ebbene nella complessità ormai di un mondo in cui le autocoscienze si sono riconosciute e rispecchiate, uscendo da una dimensione naturalistica della natura, questo tentativo di sintesi dialettica in processualità di rimozione-spostamento-proiezione, appunto non più psico dinamica, cioè riguardante le singole coscienze, ma su di un piano storico-comunitario-universale, che consiste nell’elevazione a valore universale di un solo finito particolare. Come sintetizza l’Intelletto? Sovraccaricando di un significato universale, all’interno di una coppia relazionale, un elemento finito-particolare piuttosto che un altro. Che assume e viene elevato a rango di universale totale, divenendo il principio che spiega tutto e sotto il quale gli altri particolari scadono di dignità, escludendo tutti gli altri enti di medesima natura. In realtà la scissione rimane, poiché l’Intelletto non fa altro che elevare a rango universale un finito, un particolare, sovradeterminandolo come universale. Ma si dice: questo è quello che accade anche sul piano della coscienza naturale, quando fuoriesce dal piano della differenza dell’altro al piano dell’opposizione all’altro, quindi opposizione-negazione che poi traluce nella contraddizione. Ma quella universalizzazione cioè sovradeterminazione del particolare, finito, opposto e sovraccaricato di infinità avviene su di una scelta volontaristica ed avviene sul campo oppositivo-relazionale. E quindi vi è la elevazione o sovradeterminazione di quel particolare finito come ciò verso cui occorre opporvisi, poiché la sovradeterminazione non fa altro, nella coscienza naturale, di ricavare il dato che quella determinazione sensibile, non è semplicemente un distinto, un Altro, ma è ciò che probabilmente non gli permetterebbe la sua stessa vita, come diritto per esempio, a riprodursi. Nella condizione socio-politico-economica il processo mentale, non è più a carico di una coscienza naturale, e non più in una dimensione individualistica-naturalistica, poiché si è in una società comunitaristica antica o moderna che sia, si delineano già idealmente nelle stazioni dello Spirito, oltrepassata la fase della coscienza naturale come pre-moderna, ossia come ancora non attuata in quanto autocoscienza riconosciuta nella dialettica del riconoscimento, ma in sé è raggiunta appunto una fase storico-politico-comunitaria, in quanto si ha un’organizzazione di vita che è già esemplificativa dell’unità dell’universale col particolare. In cui si è stabilito un contratto o un legame d’essenza tra le parti ed il tutto, questo denota una condizione storico-razionale. Ma, afferma Hegel, anche nell’auto-sviluppo della coscienza, che si eleva da coscienza naturale ad autocoscienza spirituale, in realtà il processo di universalizzazione che connette le singolarità, cioè i molteplici Uno, in quanto Molti Uno, in una dimensione organica ed etica (ossia Spirituale), che è alla base delle formazioni delle Comunità nella storia, si manifesta principio attuatore di ciò una soggettività intellettualistica in quanto collettivista. Secondo la teoria della causazione ideologica della storia, per la quale la storia è prodotta idealisticamente da una soggettività che astrae, fissa e produce all’interno di una società istituti, fondazioni, organizzazioni, sistemi, tutti con un peccato originale in sé, poiché verticalmente lacerati e attraversati da una fenditura, a causa della quale le società si rappresentano in modo separato tra le parti e le classi. Infatti in una rappresentazione, per esempio storico-intellettualistica, in cui avrà dominato la facoltà della sensibilità o dell’intuizione, si genererebbe ad esempio una comunità in cui si riterrà una parzialità istituzionale “vera” realizzando, in una mera visione e prospettiva materialistica, la vita di questo o quel popolo, di questa o quella Legge o Governo. Viceversa, in fasi e dimensioni nelle quali ciò che sarebbe sbilanciato, nell’ambito della coppia relazionale che l’Intelletto di volta in volta produce, verso la facoltà teoretico-spirituale, si avranno Istituzioni, governi e culture in cui verrebbero premiate le dimensioni etico-spirituali, al posto di quelle materiali. E questo è nelle cose, afferma Hegel. Se, infatti, si guarda a ritroso quello che è accaduto, a partire dalla storia della filosofia e dalla filosofia della storia, si interpreterà la storia del mondo mediante il principio della Libertà (in quanto filosofia dell’Autocoscienza Assoluta) e si vedrà che in tali situazioni, sia nelle filosofie universalistico-sistematiche, sia nelle filosofie dell’autocoscienza o filosofie-mondo, compariranno prosaicamente delle scissioni ed opposizioni, sia all’interno delle prime, che delle seconde. Per cui anche quando si sarebbe pensato, nella modernità, con le filosofie dell’Autocoscienza, e quindi mediante il principio della Libertà, si vedrebbero comunque in queste un deficit e un surplus da un lato di materialismo e dall’altro di spiritualismo: cioè di nuovo una scissione tra soggetto ed oggetto, tra pensare ed essere. E questo è prodotto appunto dall’Intelletto: come l’Intelletto ha fondato le prime divaricazioni tra coscienza naturale e realtà, sapere ed oggetto, così l’Intelletto stesso ha intuito e poi superato tale scissioni con la fuoriuscita dalla filosofia della natura in quella dello spirito, superandola con la Negazione/Contraddizione (motore della dialettica), così ora occorre superare tali contraddizioni, ma dal punto di vista storico e cioè universale. Si avvia, dunque, tale processo di infinitizzazione del Finito, cioè l’Intelletto non fa altro che, dinanzi ad una coppia relazionale appartenente al piano storico-comunitario-sociale (ad esempio le coppie: teoria-prassi, azione-reazione, o progresso-conservazione), elevare ad universale un termine sull’altro. Un elemento cioè della coppia relazionale è elevato a Verità. Lo Spirito o Idea sa che quello rimane comunque come finito particolare, ma non così per l’Intelletto che lo elegge a rango universale. Si vuole qui ricordare che l’azione dell’Intelletto si enuclea in due azioni per Hegel: costruisce unitotalità e le distrugge. Ora l’Intelletto ha riflettuto su di un’Idea generale ed universale di comunità, ha inoltre decomposto gli elementi osservando in chiave moderna la differenza e la molteplicità delle sue parti (poiché non si sta più nel panenteismo greco) e ha privilegiato, dovendo trovare un principio sintetico al Tutto (rispondendo così alla domanda principe della Filosofia come eterna promessa: trovare cioè un unico principio sintetizzatore del Tutto) ed esercitando la propria riflessione, avendo dinanzi a sé molti opposti e prediligendone uno (tra i molti Uno che l’Intelletto stesso ha aiutato a diversificare e a contrapporre rispetto all’unitotalità inconcussa ed immediata creata dalla facoltà della rappresentazione), lo eleva infine a principio Universale. Questa è la macchina dell’Intelletto, torna di nuovo a quella unitotalità che esso stesso aveva frantumato, dopo la rappresentazione naturalistica della Totalità immediata con sé, ad esempio dell’Essere Parmenideo. Oppure sul piano religioso, la dottrina della religione farsica, con il Sole e gli Astri come simbolo del Tutto: questo panenteismo filosofico, ma anche storico-sociale-politico delle civiltà antiche d’Oriente e d’Occidente. Detto ciò chiaramente ora l’Intelletto non potrà più stare all’unitotalità immediatamente presupposta, poiché esso avrà compreso che quelle erano in ultima istanza, solo dimensioni costrittive-metafisiche[4]. Così comincerà ad affermare che quell’universale appartiene invero a se stesso, ma prima di appartenere all’Intelletto tali principi dovranno essere dissezionati e studiati, poiché dovranno essere mediati da ciò che l’intuizione, il sentimento o la rappresentazione, avevano posto in modo semplicemente presupposto, intangibile ed inconcusso. Giungerà così l’Intelletto ad affermare, invece, la propria paternità di tali oggetti, dichiarando che sono prodotti da esso stesso generati. E quindi l’Intelletto ne “riflette”, li media, li ri-comprende, e crea e produce esso stesso un Principio Unitario che consta degli elementi che questo intende unificare, come Pensare-Essere, Soggetto-Oggetto, Finito-Infinito, Contingente-Necessario et al. In realtà l’Intelletto, dato che non può sintetizzare effettivamente gli opposti, poiché se così fosse andrebbe in deroga a se stesso e non sarebbe Intelletto, dal momento che porrebbe in mora lo stesso principio aristotelico di non-contraddizione, divenendo Concetto, così esso in verità prenderà ancora una volta uno di questi elementi o dati e li eleverà ad universalità, sapendo che esso non farà altro che generare un’operazione superficiale, come apparente universale. Operando in tal modo crea un principio comunque sintetico, ma fittizio, poiché terrà sempre fuori di sé le altre parti o finiti particolari, che d’altronde esso stesso ha liberato precedentemente, frantumando l’Uno-tutto della rappresentazione naturale. Con un duplice esito: in primo luogo, creando una dimensione estrinseca di universalità dei dati raccolti sotto uno pseudo-principio unificatore del Tutto, con l’esito per cui i particolari svaniscono perché annichiliti da tale Universale stesso. Quindi riproducendo un dualismo a somma zero. E questo sarà l’Idealismo, poiché esso scaturirà da una soggettività intellettualistica in quanto generatrice della teoria della causazione idealistica della storia. Ora si ribadisce che le comunità e le realtà storiche e socio-politiche sono state create nelle epoche di volta in volta da un andamento intellettualistico. Creando scissioni, alienazioni, estraneazioni, contrapposizioni, conflitti, non compresi filosoficamente (cioè a livello dello Spirito Assoluto), siccome non comprensivi del reale come unione dell’universale e del particolare, sia che tali principi non provenissero da soli principi costrittivi o trascendenti (filosofie sistemico-sostanzialistiche), sia se fossero appunto provenienti da filosofie dell’autocoscienza o filosofie mondo, riproponendo sempre le scissioni soggetto-oggetto, pensare-essere, universale-particolare, essere-dover essere, trasmutabile-intrasmutabile etc. Ma tutto ciò come viene prodotto dall’Intelletto? Si è detto che alla base c’è quel processo che parte dalla coscienza naturale di rimozione-spostamento-proiezione. Così come la coscienza naturale non poteva, senza pensare a se stessa come universale e incondizionata, non volere la negazione dell’altro e, quindi, sovraccaricando attraverso un campo tensionale di forze l’Altro, da semplice termine “differente”, ad altro come “opposto” a quella, attraverso un carico-scarico di questo campo tensionale di forze; vedendo quello in una dimensione eristica-conflittuale, che da semplice “distinto” diventa appunto “opposto”. Questo passaggio è stato importantissimo per la dialettica, perché genererà il Negativo, che poi tralucerà nella contraddizione. Ma se questa condizione rimanesse in una dimensione coscienzialistica-naturalistica e non venisse invece curvata nella figura di un’autocoscienza, che mediante l’altro si fa altro da sé e quindi senza annientare l’altro, ma tornando mediante l’altro a sé, in una sintesi di sé con l’altro da sé, e perciò diventando effettivamente incondizionata autocoscienza in quanto universale e particolare insieme. Ebbene, solo così essa supererebbe la negazione come cattiva infinitizzazione propria di una coscienza naturale inconcludente, quale cristallizzata e destinata alla lacerazione che si riproporrà in essa all’infinito, nell’indefinito procedere dal finito all’infinito.

Questo stesso processo a livello socio-politico-comunitario quando avviene (cioè dopo l’elevazione da coscienza ad autocoscienza), accade in modo devastante: poiché vedrebbe non un oggetto dinanzi ad una coscienza, ma bensì una soggettività con un’altra soggettività, tra le quali l’altro nega pure se stesso, influendo in seguito negli equilibri e nelle relazioni in atto tra gli uni e i molti come costruzione ed organizzazione sociale basata sull’uno-molti, dal momento che il riconoscimento tra autocoscienze permette il posizionamento di queste ultime all’interno di una società (attraverso il nesso universale o spirituale), che si struttura in rapporti di forza (con riferimento alla dialettica servo-padrone). Si lascia così definitivamente la dimensione naturalistica della coscienza naturale come dinanzi ad un oggetto o come davanti un altro, ma in quanto vivente-soggetto, oltremodo anch’egli assolutamente inconsistente da un punto di vista spirituale[5]. Continuando così a negare progressivamente tutto ciò che costantemente incontra, pur di coincidere con la propria bisognosità e primaria condizione ad esistere e a riprodursi. Mentre sul piano dell’autocoscienze, quando fra quelle, alcune vedono che quando negano le altre opposte a quelle, a loro volta si accorgono che con la negazione delle seconde, le prime negano se stesse. Poiché esse comprenderanno che anche la negazione che le seconde autocoscienze usano è la loro stessa, cioè delle prime, utilizzata da queste contro le altre. Quindi negare l’altro è negare se stesso. Con ciò si giungerà alla negazione della negazione, che con la negazione determinata, si avrà l’interruzione della serialità all’infinito della cattiva negazione. E da qui nasce la coscienza storica: emergentismo dal piano naturale a quello dell’autocoscienza storica. Ma dietro questa processualità della cattiva negazione della coscienza naturale, anche quando diverrà post-coscienza-naturale, elevandosi ad autocoscienza storica, e quindi, mediante la dialettica del riconoscimento, celebrando le prime comunità storiche, invero l’autore di tutto ciò è l’Intelletto, come grande unificatore di un Tutto (dapprima distruttore del Tutto rappresentativo come era il primo momento intellettuale ed astratto), che appropriandosi e generando una riflessione intellettuale, uscendo da una riflessione ingenua e riappropriandosi di tutta la realtà, mediante un principio sintetico riprodotto dallo stesso Intelletto, però poi alla lunga sinteticamente fallace ed incapace di esprimere una organica unità di universale e particolare. Ma quando accade questo sul piano storico-teoretico (Epicuro, Kant, Cartesio) si avranno scissioni ed opposizioni a livello reale e spirituale (Regno della cultura). Tant’è che l’Intelletto eleva ad Universale un finito tra i due elementi dei corni dialettici, e lo spaccia come principio sintetico del tutto. Quando questo accade a livello filosofico, il filosofo pende per una facoltà piuttosto che per un’altra, quando invece accade dal punto di vista attuativo-storico-politico (con creazioni di Governi, Istituzioni, Forme sociali), è la stessa collettività a mutare di segno, ma non cambia passando dall’una altra forma, l’artefice di tutto ciò che è l’INTELLETTO, ma nella forma della rimozione-spostamento-proiezione. Quindi opera la funzione dell’universale, ma senza veramente sintetizzare in un principio reale ed immanente, come invece avverrà nel Concetto, dove l’universale ed il particolare saranno realmente unificati, ossia quel principio totale è un principio rappresentativo solo di un particolare, che viene elevato a momento universale. Appare,quindi, universale ma non è tale realmente. Cosicché la falsa infinitizzazione del finito consiste nella trasfigurazione di un particolare nell’acquisire da parte di questo non la realtà effettuale dell’universale, ma solo la realtà simbolica di quest’ultimo. Ad esempio un’unica Singolarità (nella dimensione socio-politica) diviene il simbolo della sintesi universale, dal momento che usufruisce di quel sovrappiù simbolico e di quella sovra-determinazione che gli derivano dalla cessione o sottrazione, dal fatto che tutti gli altri individui particolari gli riferiscono, attribuendogli una natura partecipativa e comunitaria, rapsodicamente trovata in modo inconsapevole o consapevole. La dimensione del sovrappiù simbolico-universale del particolare gli è conferito dagli altri particolari. Questi, sentendosi scelti come particolari reali transeunti non veri e quindi non in grado essi stessi di essere produttori se medesimi del nesso sociale-universalizzante, delegano tale dimensione universale a quell’immediatezza con sé che erroneamente può rappresentare tale episodica universalizzazione. Quest’ultima fruisce di questa simbolizzazione e di questo sovrappiù simbolico universalizzante. Che sia consapevole o inconsapevole in quest’operazione, da parte degli altri particolari, emerge un dato certo: questi delegano la propria natura partecipativa, come nesso universale, ad un unico particolare che riveste solo in apparenza la funzione di universalizzazione, appunto come simbolo di universalità. Ciò accade attraverso la trasfigurazione di un particolare in simbolo universale, grazie all’esito di un “lavoro” di Rimozione-Spostamento-Proiezione, che tutti gli altri individui, che non sono quel particolare, fanno della loro originaria natura umana relazionale. Quindi questi rimuovono, spostano e proiettano, coscientemente o no, la propria natura partecipativa e del loro nesso comunitario, in un particolare che essi non sono. E questo processo di trasfigurazione del proprio nesso socializzante, universale e relazionale, è chiamato da Hegel con i temini di Entoisserung ed Entfremdung, ossia alienazione ed estraneazione, assieme alla cosificazione, reificazione ed entificazione che è Verdinglichung di questo lavoro, come esito di un processo di rimozione-spostamento-proiezione. Questa coppia (Entoisserung-Entfremdung), descrive il processo di rimozione-spostamento-proiezione con la successiva reificazione, che è processo di socializzazione e produzione ideologica. Poiché la socializzazione, nel trasfigurare da parte dei singoli enti particolari finiti, che non sentono e non dichiarano essere essi stessi fautori ed attuatori della loro natura umana, che è relazionale, in quanto antropologicamente votata alla relazione o nesso sociale come condizione relazionale, perché partecipativo-comunitario, delegano (attraverso una Entfremdung) questo nesso partecipativo-comunitario, proprio della logica-antropologica umana come nesso relazionale, in un Altro astratto fuori di sé, con gli esiti di una succesiva entificazione, in un particolare che assurge a Verità universalizzante.


[1]   Feuerbach sosterrà che l’Aufhebung è annichilimento del finito, e non conservazione di esso rispetto all’Assoluto, rispetto alla Formbestimmung. Egli riduce la filosofia hegeliana a mera teologia. In realtà, contrariamente alle tesi feuerbachiane, non si è dinanzi al dileguare del finito, ma alla conservazione-innalzamento di quest’ultimo ad una visione di nessi sociali-universali, con la conservazione dialettica, della precedente figura di un alcunché, organicamente innalzata e conservata a nuova figura. Feuerbach assumerà anche un giudizio “creazionista” dello Spirito di Hegel. Lo Spirito crea la Natura come ad esso subalterna: quest’ultima è più “pesante” dell’essenza-spirito che si rivela più “leggera”. Da qui la teologia dello Spirito in Hegel, presso Feurbach.

[2]   La negazione, in quanto trasformazione dell’oggetto, mediante il Lavoro può formare l’oggetto, che diventerà reale in quanto Autocoscienza assoluta, poiché sarà la realizzazione effettiva e reale di essere insieme universale e particolare. La dimensione dell’universalità nel Signore è solamente astratta, con il principio della negazione assoluta, per il fatto che il Signore non teme la morte.

[3]   Per cui l’Intelletto predilige questa o quella facoltà, creando sulla base di questi convincimenti istituti e realtà storiche parziali e scisse tra materialismo e spirito, sensibilità e sovrasensibile, filosofie sistemiche ed universali contro filosofie della autocoscienza soggettive o filosofie mondo.

[4]   Quindi arriva la modernità, con Cartesio, e spiega che quei principi fissati dallo stesso Intelletto, ma in una chiave pur sempre rappresentativa e metafisica, dovranno varcare una dimensione autocoscienziale e quindi l’Intelletto stesso andrà a frantumare quella unitotalità presupposta, demistificandola e togliendole quell’aura mitologetica.

[5]   Ad esempio per le individualità organiche, in senso metastorico-sociale, senza legame e nesso autocoscienziale universale, ad esempio al cane non interessa riconoscere una dimensione spirituale e sociale di sé, poiché gli basta essere puntualmente coincidente con se stesso.

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