Dal linguaggio al corpo

Felice Cimatti


Per gentile concessione di: “Lo Sguardo” – rivista di filosofia – ISSN: 2036-6558
Dal linguaggio al corpo di Felice Cimatti
[“Lo Sguardo” N. 15, 2014 (II), pp. 149-164]


Abstract: Italian contemporary philosophy is characterized by various forms of reaction to the “linguistic turn” which marked not only the analytic tradition, but also the continental one (structuralism, semiotics and hermeneutics). The philosophical (and anthropological) question that the “linguistic turn” leaves unanswered is: what is the nature of language? If language is the foundation of human nature, which is, in turn, the basis of language? The field that now opens itself is populated by those concepts that a philosophy centered on language completely has forgotten: body, life, animality. In this paper I try to delineate a philosophical route which starts from the “linguistic turn” and it arrives to the Deleuzian concept of “immanence”.

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Par vie, on peut entendre le participe présent ou le participe passé du verbe vivre, le vivant et le vécu. La deuxième acception est, selon moi, commandée par la première, qui est plus fondamentale. C’est seulement au sens où la vie est la forme et le pouvoir du vivant que je voudrais traiter des rapports du concept et de la vie[1].

  1. La differenza italiana e il “linguistic turn”

«Per afferrare il senso della differenza [filosofica] italiana», scrive Roberto Esposito, «bisogna partire dal suo esterno», cioè «dalla difficoltà generale che sperimenta, in questa fase, la filosofia contemporanea»[2]. Secondo Esposito sono tre, nel complesso, i filoni prevalenti della filosofia degli ultimi decenni: la filosofia analitica, la teoria critica e il decostruzionismo (Esposito scrive nel 2010, prima dell’affermarsi del “nuovo realismo”[3], un paradigma che prova a rispondere – benché da un’altra prospettiva – allo stesso disagio da cui nasceva il suo libro[4]). La ragione di questa «difficoltà», continua il filosofo napoletano, è dovuta al «ruolo dominante giocato, certo diversamente, in tutte e tre le tradizioni dalla sfera del linguaggio»[5]. In questo senso il “linguistic turn”[6] ha segnato non solo la tradizione analitica, ma anche quella continentale (si pensi all’influenza che a lungo hanno avuto, e non solo o prevalentemente nella filosofia, lo strutturalismo, la semiotica e l’ermeneutica).

La questione filosofica (e antropologica)[7] che la “svolta linguistica” lascia senza risposta è la stessa per tutti questi diversi approcci: qual è la natura del linguaggio? Se il linguaggio è il fondamento della natura umana[8], qual è, a sua volta, il fondamento del linguaggio? Il linguaggio può fondare sé stesso? Può esistere una entità naturale che – come il Dio dei teologi – è causa sui? In effetti il linguaggio, dopo la “morte di Dio”, sembra essere diventata l’ultima figura della trascendenza (anche se per molta filosofia contemporanea l’atteggiamento verso la scienza sta assumendo esso stesso tratti pericolosamente fideistici[9]). In questo senso Giorgio Agamben poteva scrivere già nel 1996 che «il tema della filosofia che viene» non potrà che essere una filosofia dell’«immanenza»[10], cioè appunto una filosofia che si collochi dopo e oltre il “linguistic turn”. Il campo che si apre, e che si colloca in una linea ideale che comincia con Spinoza e arriva – passando per Nietzsche – fino a Deleuze, è popolato da quei concetti che una filosofia tutta centrata sul linguaggio aveva relegato fra gli attrezzi inservibili del passato, se non del tutto rimossi: corpo, vita, animalità[11], immanenza appunto; «il piano di immanenza funziona, cioè, come un principio di indeterminazione virtuale, in cui il vegetale e l’animale, il dentro e il fuori e persino l’organico e l’inorganico si neutralizzano e transitano l’uno nell’altro»[12]. In questo senso, ridotta ad una formula sommaria e brutale, la filosofia del nostro tempo è la filosofia che prova a pensare che cosa c’è dopo il “linguistic turn”.

  1. Linguaggio e “pulsione di morte”

Anche se pochi filosofi lo hanno esplicitato fino in fondo (ad esempio Deleuze e Guattari in quel libro straordinario e incompreso che è Mille Plateaux[13]), il problema implicito nel “linguistic turn” è che il linguaggio – e tutte le successive incarnazioni della trascendenza, politiche e religiose – ha come fine “metafisico” fare piazza pulita di ciò che rende vitale la vita. Chi lo ha compreso meglio e prima di tutti è Ferdinand de Saussure[14]. Si prenda il celebre schema presentato nel primo paragrafo del capitolo dedicato al valore linguistico:

«Psicologicamente», dice de Saussure, «fatta astrazione della sua espressione in parole, il nostro pensiero non è che una massa amorfa e indistinta». Il senso di tutto il “linguistic turn”, comprese le sue conseguenze biopolitiche, è contenuto in queste due righe; «senza il soccorso dei segni» continua de Saussure, «noi saremmo incapaci di distinguere due idee in modo chiaro e costante. Preso in sé stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato. Non vi sono idee prestabilite, e niente è distinto prima dell’apparizione della lingua»[15]. Qui de Saussure non sta parlando tanto, né principalmente, del rapporto fra pensiero e linguaggio; qui sta dicendo che il compito della lingua (che nello schema è l’insieme delle linee tratteggiate verticali che si estendono da A, il campo del pensiero, a B, quello dell’espressione sonora) è quello di tracciare dei confini al pensiero e all’espressione. Invece di vedere questo come uno schema linguistico, occorre vederlo come il gesto originario – in cui collassano le tradizionali distinzioni fra linguaggio, religione, politica e diritto – attraverso il quale si impone al pensiero cosa e come pensare.

Le linee tratteggiate sono proprio quello che sembrano: delle recinzioni del pensiero, come il filo spinato che delimita una proprietà privata, e trasforma il tutto vitale e interconnesso di una prateria in una serie di appezzamenti di terreno, ognuno dei quali appartiene per legge ad un legittimo proprietario. De Saussure non sta parlando del linguaggio, ci sta dicendo che la funzione “metafisica” del linguaggio è letteralmente ingabbiare la continuità della vita, metterla in una scatola (ogni parola deve avere un “riferimento”), renderla “discreta”, nel doppio senso di articolata (divisa in parti) e di moderata, cioè controllabile e innocua, come si dice che è discreta una persona che non disturba e non parla a sproposito, una persona che “sta al suo posto”.

Vale, per questo schema, quello che dice Carl Schmitt del «nomos», in cui si condensano tre gesti originari, e non solo evidentemente del diritto: «prendere, dividere, elaborare»[16]; «il primo significato di nomos» in quanto «nomen actionis di nemein», scrive Schmitt, è «prendere/ conquistare […] essere diretto ad un Nehmen (prendere)». La parola, prima e soprattutto, è un “prendere” possesso di una porzione di pensiero e di mondo, per delimitarla e individuarla rispetto ad altre porzioni di mondo che appartengono ad altre parole, ad altri soggetti. La parola ritaglia e spezzetta il mondo. Di conseguenza, continua il filosofo e giurista tedesco, significa anche «spartire/dividere»[17], perché ogni parola, come ogni proprietario, possiede solo una porzione delimitata del mondo, la «parte che ciascuno ha, il suum cuique»[18] il resto appartiene ad altre parole. «Nomos», infine, implica anche fare qualcosa di questa parte, lavorarla e metterla a frutto: pertanto «significa in terzo luogo coltivare/produrre […]. È questo il lavoro produttivo che normalmente è fondato sulla base della proprietà»[19]. La vita linguisticizzata è la prima vita a conoscere il lavoro: la biopolitica comincia con Adamo che, sotto lo sguardo vigile del Signore, dà il nome agli animali.

Nello schema di de Saussure viene così rappresentata, nel suo nocciolo più semplice e irriducibile, l’azione, che è insieme linguistica e giuridica (d’altronde non c’è legge senza linguaggio, e viceversa)[20], l’operazione originaria attraverso cui il linguaggio si appropria del campo della vita, e quindi del pensiero. Il linguaggio umano non nasce in vista della comunicazione, come sostiene chi non ha compreso la sua potenza generatrice (e quindi anche, inevitabilmente, distruttrice)[21], anche perché se davvero fosse questa la sua funzione è incredibilmente (e inutilmente) troppo complicato per poterla assolvere in modo efficiente[22]. Se si deve scorgere, conclude Schmitt:

l’inizio di ogni ordinamento giuridico [e quindi linguistico] in una prima divisione – una divisio primæva –, un’imposizione del genere ha bisogno di un approfondimento: la divisione e la distribuzione, cioè il suum cuique, presuppone l’appropriazione della massa da distribuire, cioè una occupatio o appropriatio primæva[23].

Non è un caso che Schmitt, come de Saussure, parli di una «massa» che il linguaggio/nomos deve prima conquistare, poi suddividere, infine mettere al lavoro. Da questo punto di vista tutta la questione, che recentemente ha conosciuto grande interesse, della biopolitica[24] non può affatto essere considerata una novità, tantomeno un fenomeno della modernità tecnologica: la questione antropologica della biopolitica è il controllo che il nesso linguaggio/tecnologia e diritto esercita sul campo della vita. Senza linguaggio non ci sarebbe biopolitica, e viceversa. È in questo senso, tutto naturalistico e mondano, che abbiamo potuto parlare di essenza “metafisica” del linguaggio: l’origine del linguaggio è nel gesto originario della conquista della «massa amorfa», e quindi della vita e del corpo.

D’altronde, nella più avanzata e scientificamente coerente teoria del linguaggio oggi esistente, il cosiddetto programma minimalista di Noam Chomsky[25], la Facoltà del Linguaggio viene presentata come un dispositivo che, propriamente, non risponde né ad una funzione cognitiva né ad una funzione comunicativa:

Come ipotesi guida per la ricerca è stato fruttuoso prendere in considerazione una tesi dalle conseguenze molto estese – la “tesi minimalista forte” TMF – secondo la quale il linguaggio è una soluzione ottimale [optimal solution] alle condizioni di interfaccia che la Facoltà del Linguaggio deve soddisfare: in altre parole, il linguaggio è il modo migliore [optimal way] di connettere suono e significato, da intendere in senso tecnico nei termini di sistemi di interfaccia coinvolti nell’uso e nella interpretazione delle espressioni generate da un Linguaggio-Interno [I-Language, contrapposto all’ELanguage]. Se TMF funziona fino in fondo, ciò che nessuno si aspetta, la Grammatica Universale verrebbe limitata dalle proprietà delle condizioni di interfaccia[26].

Già parlare di “ottimale” rispetto al linguaggio umano mostra come, in realtà non ci sia nulla di umano in questo dispositivo. Chomsky propone una definizione di linguaggio umano affatto diversa da quelle a cui ci ha abituato una ripetitiva tradizione millenaria: il linguaggio non serve agli esseri umani per comunicare i loro pensieri, e non serve nemmeno come strumento interno del pensiero. Il linguaggio, per Chomsky, è al servizio del linguaggio stesso, è una optimal solution per problemi interni al dispositivo linguistico, in particolare quello di come collegare i due sottosistemi del suono e del significato. Questi due sistemi, a loro volta, non sono quello che sembrano, ossia comunicazione e pensiero, cioè voce e idee, in sostanza il corpo umano con i suoi bisogni: in realtà si tratta di dispositivi interni che producono rappresentazioni che poi devono essere connesse le une alle altre. Secondo il programma minimalista la Facoltà del Linguaggio procede largamente per conto proprio, e solo accidentalmente può essere considerata un mezzo a disposizione degli esseri umani. Non sono gli esseri umani ad usare il linguaggio, al contrario, è il linguaggio che ha bisogno dei loro corpi, in particolare dei ‘loro’ cervelli, per potersi articolare secondo le proprie linee di sviluppo interne. D’altronde già lo schema di de Saussure mostra plasticamente come la lingua sia un dispositivo che si applica dall’esterno sul corpo dell’animale umano. L’effetto della lingua è letteralmente fare a pezzi la «massa amorfa»; da notare come quello che non è organizzato linguisticamente per il linguaggio è del tutto amorfo. L’unica forma è quella del linguaggio:

come da lungo è stato riconosciuto, la proprietà più fondamentale del linguaggio – inusuale nel mondo biologico [an unusual one in the biological world] – è che si tratta di un sistema caratterizzato dalla infinità discreta [discrete infinity] di oggetti gerarchicamente organizzati. Ognuno di questi sistemi è basato su una operazione che prende n oggetti sintattici (OoSo) già formati, e a partire da questi costruisce un nuovo SO. Chiamiamo questa operazione Merge[27]. Un Merge illimitato [unbounded] o qualche suo equivalente è inevitabile in un sistema caratterizzato dalla proprietà della infinità discreta gerarchizzata[28].

Il mondo vivente non sembra essere organizzato come una collezione di entità discrete, distinte e autonome, per questo la discretezza delle entità linguistiche è unusual in the biological world[29]. Al contrario, il linguaggio umano è composto di entità discrete, gli Oggetti Sintattici (da notare, sintattici, ossia questi oggetti hanno una forma non un contenuto), ognuno dei quali, a sua volta, può essere combinato, attraverso operazioni come quella di Merge, per formare altri e più complessi Oggetti Sintattici. La proprietà distintiva del linguaggio umano è infatti la infinità discreta, che permette di “generare” (e la parola rende bene la potenza quasi ‘divina’ e ‘trascendente’ di questo dispositivo) un numero potenzialmente infinito di nuovi Oggetti Sintattici. Che poi i limiti dei parlanti umani non permettano di sfruttare la potenza del linguaggio umano, è appunto soltanto un limite umano, che non ha niente a che fare con la logica interna del dispositivo linguistico, la ‘sua’ optimal solution. Il carattere quasi ‘automatico’ e ‘inesorabile’ della Facoltà del Linguaggio rispetto al corpo umano è evidente nello strettissimo collegamento che esiste fra infinità discreta e il dispositivo che ‘genera’ i numeri naturali (linguaggio e aritmetica sembrano essere le due manifestazioni di una stessa capacità ‘naturale’[30]):

Si supponga che esista una lingua che abbia il più semplice lessico possibile: soltanto un termine LI, che chiameremo “uno”. L’applicazione di Merge a LI genera [yelds] {uno}, che chiameremo “due”. L’applicazione di Merge a {uno} genera {{uno}}, che chiameremo “tre”. Ecc. In effetti Merge usata in questo modo istanzia la funzione successore. È una conseguenza diretta di questo definire l’addizione come Merge (X,Y), e attraverso i modi consueti, il resto dell’aritmetica[31].

L’aspetto ‘tragico’ della funzione successore (e quindi, se seguiamo Chomsky, della Facoltà del Linguaggio), una tragicità che è inseparabile dalla sua stessa logica, è che una volta messa in movimento può continuare senza fine: 1, (1) + 1, (1+1) + 1, e così via all’infinito appunto. È l’inesorabilità del linguaggio, il suo carattere più evidente, e la sua ‘indifferenza’ rispetto alle nostre ragioni, inesorabilità e indifferenza che la sbornia ermeneutica aveva completamente perso di vista[32] (ottenebrata dalla «stolida idea di un’interpretazione infinita»)[33]. È quella che Freud in Al di là del principio del piacere chiama la «pulsione di morte», che non è affatto una oscura forza biologica, al contrario, è un dispositivo naturale in cui collassano logica e biologia. Lo mostra il celebre esempio del gioco del rocchetto del nipotino di Freud:

Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o” [Fort, via]; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [qui]. Questo era dunque il gioco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come gioco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto[34].

Freud lo scrive esplicitamente, lo schema è «ripetuto […] come gioco a sé stante»; il gioco, come il linguaggio, si gioca da solo. E qual è, alla fine, la matrice del ‘gioco’ del rocchetto? Usando i termini di Chomsky, c’è un primo Oggetto Sintattico, “o-o-o”, a cui viene combinato con una prima applicazione di Merge un ulteriore Oggetto Sintattico, “da”, poi si ricomincia, e così via «instancabilmente». In questo caso non è tanto importante la lettura simbolica del gioco, che in fondo vale quanto ogni altra interpretazione, quello che è evidente è che si tratta di un dispositivo che si ripete (quasi) da solo. Il bambino viene trascinato dalla logica intrinseca del linguaggio. È il bambino che viene giocato dal linguaggio. E così nel linguaggio è implicito il dispositivo della ripetizione, cioè appunto la «pulsione di morte».

Il primo a trarre questa equivalenza sarà Jaques Lacan; in effetti forse nessuno come lui ha pensato gli effetti del linguaggio sul corpo umano[35]: il linguaggio, ossia «la rete dei significanti» è infatti l’«automaton»[36]. Se è questo il linguaggio, si pone allora immediatamente la questione dell’«incontro con il reale», che si trova «al di là dell’automaton, del ritorno, del rivenire, dell’insistenza dei segni cui ci vediamo comandati dal principio di piacere. Il reale è ciò che giace sempre dietro l’automaton, e di cui è così evidente, in tutta la ricerca di Freud, che le sue preoccupazioni stanno qui»[37].

  1. Potere e campo psichico

La «differenza italiana» è quella di essersi sempre occupata, anche quando non era di moda, del campo che si estende oltre il linguaggio[38]. È importante ribadire che si tratta di un “oltre” il linguaggio, perché è il rapporto fra facoltà del linguaggio e Homo sapiens che definisce la natura umana. Questo significa che prima di questo rapporto non c’era l’umano come lo conosciamo ora, e quindi non è nel campo del prelinguistico che può essere cercato quel «reale» che stava così a cuore a Lacan. Ma prima di questo passaggio, occorre affrontare un altro tema: che corpo è, quello dell’animale che parla, il corpo segnato dal dispositivo della infinità discreta e della ripetizione? Una prima risposta è contenuta nel commento dello stesso Freud al gioco del rocchetto, quando osserva compiaciuto (è di suo nipote che si sta parlando, e Freud ci tiene a mostrare quanto sia già “maturo” e precocemente “responsabile”) «il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino», ossia «la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse»[39]. Entrare nel dispositivo linguistico significa, prima di tutto, accettare e fare propria quella conquista di sé in quanto «massa amorfa» che, con de Saussure e Schmitt, abbiamo visto essere il carattere distintivo della facoltà del linguaggio. E così il nipote di Freud diventa un “bravo” bambino perché ha imparato velocemente a controllare il proprio comportamento: attraverso il gioco del rocchetto, continua Freud, «il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia [pulsionale], inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere»[40]. Il bambino vuole stare con la madre, vuole continuare a provare la calda e affettuosa sensazione che sente quando le è vicino (ed è probabile che anche la madre provi qualcosa di simile); ma la «civiltà» richiede «una rinuncia pulsionale», richiede cioè che il desiderio sia rimandato, rimosso, o meglio ancora sublimato[41]. Il bambino impara così a stare da solo, impara a diventare una entità distinta e separata dal resto del mondo. E lo impara proprio mediante il linguaggio. La madre in carne ed ossa viene sostituita da una coppia di parole, la madre diventa cioè un segno: la madre che torna è rappresentata dal suono “da”, la madre che si allontana dal segno “o-o-o”. L’unitarietà affettiva e vivente del mondo si spezza una volta per tutte, e si articola – come correttamente dice de Saussure – in pezzi staccati. Eccola, la discretezza, che è appunto quella del mondo fatto a frammenti come quella del bambino che impara a diventare – attraverso i segni del linguaggio – il proprio stesso controllore (in altri tempi si sarebbe chiamato “angelo custode”, un poliziotto, in definitiva).

Si vede allora come il nesso fra linguaggio e potere – è questo il nucleo antropologico della biopolitica – sia costituivo dell’umano: non si diventa umani senza passare attraverso questo dispositivo[42]. Il linguaggio fa del corpo umano un corpo che dice, di sé stesso, d’essere qualcosa di sussistente e autonomo, un io[43]. Ora, questo io che sostiene d’essere un “io” può esistere solo a condizione di accettare di articolarsi ed esplicitarsi, cioè di dividersi in parti staccate, ad esempio quella parte che pensa sé stessa come un “io” e quell’altra parte, il corpo, che ‘accetta’ di essere guidata dall’altra parte, quella cosciente e coscienziosa (secondo alcune forme di superstizione neurologica questa distinzione coincide con quella fra emisfero sinistro, quello linguistico, ed emisfero destro, non linguistico[44]). Il punto da ribadire è che non esiste “io” al di fuori del linguaggio, anche se certamente esistono soggettività non linguistiche[45].

La soggettività umana è costruita intorno a questa particolare capacità. La presa biopolitica sul corpo comincia quando un piccolo umano comincia a pensare sé stesso come a qualcosa di autonomo e separato, come qualcosa che ha dei “segreti” da difendere, ed eventualmente “confessare” (anche solo a sé stesso), come qualcosa che ha degli “scopi” da raggiungere, degli “standard” da soddisfare. Il “soggetto” umano non è altro che questo incessante lavorio su sé stessi: il soggetto umano è quel corpo animale che è alle prese in ogni momento della sua esistenza con il compito di soggettivarsi (torna l’instancabile attività del gioco del rocchetto). Il dispositivo è ancora quello di cui parla Chomsky: ogni presa di parola istanzia un Oggetto Sintattico che si combina, ecco di nuovo e sempre l’operatore Merge, con gli Oggetti Sintattici che lo hanno preceduto. Un soggetto è questo discorso ininterrotto che comincia quando per la prima volta il corpo prende la parola e si parla, e smette solo quando quel corpo non è più capace di farlo (parlare significa sempre dire “io”, anche nelle lingue che non lo richiedono obbligatoriamente, come è il caso dell’italiano[46]). Non c’è altra realtà, per il soggetto, all’infuori di questo sforzo di soggettivarsi. C’è il soggetto, scrive Foucault, perché ci sono «tecnologie del soggetto», ossia «tecniche attraverso cui l’individuo è condotto, o da solo o con l’aiuto o sotto la direzione di un altro, a trasformare sé stesso e a modificare il suo rapporto con sé»[47]. In questo senso la confessione è il gesto inaugurale della soggettività umana (un gesto che è tanto psicologico quanto religioso), impensabile per un vivente non linguistico: il gesto attraverso cui un corpo non tanto dice la verità su sé stesso, in realtà attraverso questo gesto quel corpo diventa qualcuno che ha un segreto. Non c’è la confessione perché c’è il segreto, al contrario, c’è il segreto perché c’è la confessione: «la confessione è un atto verbale attraverso cui il soggetto fa una affermazione su ciò che egli è, si lega a questa verità, si colloca in un rapporto di dipendenza nei confronti di altri, e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con sé stesso»[48].

È ancora una volta Freud, in quel libro indispensabile per comprendere cosa sia la biopolitica che è L’Io e l’Es, a mostrare in modo esemplare il nesso fra linguaggio, soggettività, confessione e potere. All’inizio, scrive Freud, c’è solo l’Es, che non è affatto il campo dell’istinto e del primordiale (quando non c’è un secondario non ha senso parlare di un primario). Il campo dell’Es è come la «massa amorfa» di de Saussure rispetto alla lingua, è come la prateria del nord America prima del filo spinato e dell’allevamento industriale, è come il mare prima delle reti a strascico. L’Es è il continuo della vita, delle soggettività non individuate eppure ognuna inconfondibile, degli infiniti nessi che legano ogni vivente ad ogni altro ente del mondo: «da questo punto di vista» scrive Bergson nell’Evoluzione creatrice, un libro che non merita affatto la cattiva fama che l’accompagna, «la vita appare come una corrente che va da un germe all’altro attraverso la mediazione di un organismo sviluppato». È la continuità, allora, la caratteristica del campo della vita e del mondo: «tutto avviene come se l’organismo stesso non fosse che un’escrescenza, un germoglio che il vecchio germe fa scaturire mentre lavora per continuarsi in un germe nuovo. L’essenziale è la continuità del progresso che si produce indefinitamente, progresso invisibile sul quale ogni organismo visibile cavalca per il breve intervallo di tempo che gli è dato vivere»[49].

All’inizio c’è l’Es, allora, significa che all’inizio non c’è alcun inizio, perché il tempo del continuo non è quello cronologico dell’orologio, del prima e del dopo, dell’alto e del basso. Non c’è mai stato inizio, c’è la continuità del movimento della vita. Il tempo, come lo spazio, arriva con l’infinità discreta, con l’Oggetto Sintattico, con Merge. Poi, appunto, arriva la parola, e tutto di colpo cambia, e per sempre[50]. Seguiamo Freud, e vediamo come si articola quel campo unitario e continuo che è l’Es prima del linguaggio (in realtà dell’Es ― come ci ricorda lo psicoanalista Matte Blanco[51] – non sappiamo nulla, proprio perché si colloca nello spazio che precede il linguaggio, perché il ‘suo’ regime logico sfugge in linea di principio a quello del linguaggio; quindi, a rigore, dirne che è così e così è privo di senso. Ma è appunto questo il problema del rapporto fra vita e linguaggio). La prima articolazione e fondamentale, scrive Freud, è quella fra sistema Preconscio (e poi Cosciente) e sistema Inconscio:

la vera differenza fra una rappresentazione (o pensiero) inc e una rappresentazione prec consiste nel fatto che la prima si produce in relazione a qualche materiale che rimane ignoto, mentre nella seconda (la prec) interviene in aggiunta un collegamento con rappresentazioni verbali. […] Allora la domanda: Com’è che qualche cosa diventa cosciente? andrebbe formulata più adeguatamente nel modo seguente: Com’è che qualche cosa diventa preconscio? E la risposta dovrebbe essere: attraverso il collegamento con le rispettive rappresentazioni verbali[52].

Per isolare una porzione di Es in modo che diventi pensabile e dicibile occorre disporre di un dispositivo che 1) la estragga dalla rete di connessioni entro cui era inserita; 2) la renda percepibile ai sensi 3); questo è possibile associando una porzione di Es ad un suono che la coscienza può ascoltare: «queste rappresentazioni verbali sono residui mnestici, sono state in passato percezioni, e come tutti i residui mnestici possono ridiventare coscienti»[53]. Per tornare al caso della confessione: parlare a sé di sé significa associare parole (ossia le «rappresentazioni verbali» collegate ai «residui mnestici») che consentono di diventare coscienti della «rappresentazione (o pensiero)» collegata a quel segno linguistico. Parlare è, prima di tutto, parlarsi. Confessarsi è costituirsi come quel corpo che rappresenta sé stesso come un “io”. Come non c’è segreto senza confessione, così non c’è “io” senza la capacità di ascoltare sé stessi parlando(si): «la funzione delle rappresentazioni verbali diventa ora perfettamente chiara. Per mezzo loro i processi interni di pensiero si trasformano in percezioni»[54].

La coscienza, ossia il nucleo originario di quello che sta per diventare Io, è inseparabile dal linguaggio. Ma parlare, come abbiamo visto nello schema essenziale e terribile di de Saussure, significa letteralmente farsi a pezzi. È il prezzo da pagare per potersi dire coscienti, e quindi per potersi pensare come “io”, come un soggetto. Il punto biopolitico di questa operazione è che le parole non descrivono l’interiorità umana, al contrario, la costruiscono. Quando c’era l’Es, non c’era interno né esterno, né corpo né mente, né spirito né materia. C’era il continuo dell’Es, e nient’altro (è quello che Deleuze e Guattari chiamano «piano di immanenza»[55]). In questo senso il linguaggio non si limita ad applicare una etichetta sonora ad un contenuto fino ad allora inconscio, perché quel contenuto, prima del linguaggio, semplicemente non esisteva. Il linguaggio lo inventa del tutto. Per questo nel linguaggio è implicita la forza e la violenza del potere, un potere che non si limita a raccontare come vivono gli uomini, bensì a comandare loro come devono vivere, come devono pensare, come devono sentire.

Quanto a questo Freud, come sempre, non si tira indietro: «tornando al nostro argomento», cioè alla questione della cura psicoanalitica, «se la via da percorrere consiste nel determinare come qualche cosa di per sé inconscio diventi preconscio, alla domanda su come noi [come psicoanalisti] rendiamo (pre)conscio ciò che è rimosso bisogna rispondere nel modo seguente: mediante la inserzione, attraverso il lavoro analitico, di questi elementi prec intermedi»[56]. La parola dell’analista – che qui svela una pericolosa affinità con il medico ed il bisturi, o il poliziotto e il manganello – è una «inserzione» nel corpo dell’analizzato. Da che parte stia la psicoanalisi, in quanto talking cure, non è in dubbio, almeno per Freud: si tratta di «uno strumento inteso a rendere possibile la conquista progressiva dell’Es da parte dell’Io»[57].

Il punto è che questa operazione avviene anche in assenza dell’analista. Il Super-Io, ossia la «voce della coscienza»[58], si forma attraverso un analogo processo di «inserzione» dall’esterno: «come il bambino fu indotto costrittivamente a obbedire ai propri genitori, così l’Io è soggetto all’imperativo categorico del proprio Super-Io»[59]. Obbedire significa agire come vogliono i comandi, cioè le parole, di un altro, sia un genitore, un insegnante, un prete o un economista: «è impossibile disconoscere anche al Super-Io un’origine dalle cose udite; esso è pur sempre una parte dell’Io e rimane accessibile alla coscienza in virtù di queste rappresentazioni verbali»[60]. L’erede interiorizzato di questa obbedienza esterna è il SuperIo. Siccome il Super-Io parla, il bambino non ha più bisogno di qualcuno che, dall’esterno, gli comanda cosa fare e cosa non fare: è diventato, come il nipotino di Freud, un “bravo” bambino, e così se lo dice da solo. Il Super-Io è un poliziotto privato, un controllore che non ci lascia mai, un Panopticon personalizzato.

L’analisi di Freud mostra in modo evidente che il problema della biopolitica non è affatto quello di un potere esterno dispotico e illiberale che controlla le azioni dei soggetti. Questa è una visione del tutto illusoria, che ignora le radici antropologiche della biopolitica. Non si tratta di liberarsi del potere delle multinazionali o delle banche (anche se ora è di questo che dobbiamo occuparci; ma una banca comunista non smette di essere una banca, così come lo “sviluppo sostenibile” non smette di essere sviluppo, per non parlare della “decrescita” che non è altro che una crescita preceduta dal segno meno). Il problema è la banca che è dentro ciascuno di noi. Il corpo dell’animale umano è terreno di conquista di istanze, come quella dell’Io e del Super-Io, che hanno come unico scopo contendersene il controllo: la divisione dell’umano in “io” e corpo è la matrice di tutte le altre, fra capitale e lavoro, fra intellettuale e manovale, fra uomo e animale. Il primo nomos non è quello della terra[61], bensì quello del corpo umano. La prima e fondamentale forma di espropriazione è quella del corpo da parte dell’Io, della soggettività che si ascolta mentre dice “io”. Un “io” che subito pretende spazio e risorse, tempo e attenzioni, proprietà privata e – inevitabilmente – dei poliziotti che la difendano. Se il linguaggio è inseparabile dalla soggettività, allora è inseparabile anche da tutti i conflitti che lo scontro fra le diverse soggettività non può non comportare. Sulla terra non c’è abbastanza spazio per le (giuste, peraltro) pretese di nove miliardi di “io”[62], ognuno con le sue sacrosante esigenze di comfort, elettricità, cure mediche, turismo e – soprattutto – “realizzazione personale”. La posta in gioco per la filosofia che viene non è né l’estensione della cultura dei diritti ad altri “soggetti”, siano le balene o le foreste equatoriali[63] (ammesso che possa esistere, l’“io” di una balena sarà conflittuale quanto quello di un essere umano), e tantomeno lavorare per costruire un ordine mondiale basato sul dialogo e il rispetto reciproco[64] (come abbiamo visto non c’è “io” senza “pulsione di morte”, e viceversa). Si tratta piuttosto di cominciare (o tornare) a immaginare l’animalità dell’uomo[65], cioè forme di soggettività non individuali, impersonali[66], quelle che Deleuze chiama semplicemente «una vita…»[67].

  1. Animalità e immanenza

Infinità discreta + corpo di sapiens = soggettività umana, cioè “io” o, come lo chiamano i preti di tutto il mondo, “persona”. Quella che Agamben chiama la «macchina antropogenica»[68], è questo dispositivo che produce corpi umani, corpi che si pensano come “io”. La politica come la conosciamo è il tentativo di fare stare insieme non tanto i corpi degli uomini, quanto le loro diverse soggettività individuate. Ed è qui che si pone, infine, il problema del corpo. Un problema che si può porre solo a partire dal linguaggio, cioè da quell’apparato che ha come prima e principale funzione quella di – seguendo l’insegnamento di Schmitt – prenderlo (la «massa» da conquistare), dividerlo (il dualismo del corpo e della mente) e infine metterlo al lavoro (il primo schiavo è il ‘nostro’ stesso corpo).

Il problema del corpo non si pone per un vivente, ad esempio un ratto, che non pensi sé stesso come un “io” che abita in una massa di carne al suo comando. Il ratto vive la sua vita, ora appassionante ora noiosa, ora eccitante ora piatta, ora pericolosa ora tranquilla. Il ratto vive la vita che vive, coincide con la sua esistenza. In questo senso non esiste, per il ratto, alcun problema con il ‘suo’ corpo, perché non esiste nessuna soggettività che possa sentirsi come qualcosa di staccato dal corpo. Un pensiero del corpo è possibile solo dove non c’è coincidenza con il corpo, dove non si è corpo: «il pensiero» umano, infatti, «non è altro che quello scollamento fra l’uomo e il mondo che consente la distanza, l’interrogazione e il dubbio»[69]. Il pensiero del ratto (perché anche il suo è un pensiero[70]), è tuttavia un pensiero nel flusso della vita, nell’adesione completa all’esistenza, un pensiero mimetico del mondo che si fa ratto, e del ratto che si fa mondo. In questo senso, come ricorda Lacan, solo gli umani hanno un corpo[71], tutti gli altri viventi sono il corpo che sono, senza diaframmi o «scollamento».

Per questo il tema di una filosofia che venga dopo il «linguistic turn» non può che essere il corpo. Un corpo che non è quello della fenomenologia, perché se lo rappresenta come se il «linguistic turn» non ci fosse mai stato, come un “risalire alle origini”, quando non c’è origine per il corpo umano, ché in realtà nessuno l’ha mai ancora visto. Il corpo da scoprire, al contrario, è un corpo – è ancora Lacan qui a guidarci – che per esistere come corpo, e basta (e non come l’altro del pensiero, della mente, come altro di qualcosa), deve attraversare il linguaggio. In questo senso la psicoanalisi, in quanto talking cure, è il sapere che più e meglio di altri ha provato a immaginare quale possa essere questo corpo inedito che passa attraverso le parole e le interpretazioni dell’analisi al solo scopo di poterne fare a meno, di liberarsene una volta per tutte. La psicoanalisi (almeno quella lacaniana) è appunto il tentativo di pensare la libertà del corpo, liberato dall’Io come dal Super-Io, dalla mamma e dal papà, ma anche dal PIL e dal “dovere” di “essere sé stessi”:

il nostro soggetto così com’è, il soggetto che parla, se volete, può ben rivendicare il primato, ma non sarà mai possibile considerarlo puramente e semplicemente come il libero iniziatore del suo discorso, dal momento che, essendo diviso, esso è legato a quell’altro soggetto che è il soggetto dell’inconscio e risulta dipendente da una struttura di linguaggio. È questa la scoperta dell’inconscio[72].

Che corpo è, questo corpo, un corpo finalmente animale[73], finalmente e soltanto corpo? Pensare questo corpo significa provare ad immaginare cosa potrebbe essere qualcosa a cui non può corrispondere un sostantivo, perché il nome come abbiamo visto è una scatola o la gabbia di uno zoo. Quando pensiamo al gatto, al suo corpo, è alla parola “gatto” che in realtà pensiamo, all’Oggetto Sintattico discreto “gatto”. Attraverso la parola “gatto” il gatto in carne ed ossa diventa una cosa isolata e autonoma (anche se nel mondo non esiste niente di simile, la lingua ci costringe a immaginare che il mondo sia una collezione di cose, come quelle che vediamo dietro le vetrine di un museo, siano vasi etruschi o animali impagliati). Il gatto non è più preso nell’inseguimento della farfalla, o nel gioco con i nostri piedi, o nel leccarsi le zampe, o nel dormire sul sellino di un motorino. Ora il gatto è una cosa, per conto suo, come se fosse l’unica cosa al mondo. Per questa ragione pensare al corpo umano dopo il «linguistic turn» significa pensarlo senza nominarlo, ossia senza estrarlo dal mondo in cui vive e senza del quale non potrebbe esistere. «Essendo composto da una pluralità di forze irriducibili» – scrive Deleuze – «il corpo è un fenomeno molteplice la cui unità si determina in base a un “dominio”»[74]; il corpo non è unitario come è unitario un territorio conquistato da un esercito straniero (l’Io). Il «“dominio”» del corpo coincide con il territorio mobile e indefinito delle ‘sue’ intersezioni con altre forze e tensioni: «affinché si costituisca un corpo – chimico, biologico, sociale, politico – è sufficiente che due forze qualsiasi, diverse l’una dall’altra, entrino in rapporto tra di loro»[75]. Intanto il corpo non è più solo il corpo vivente, il corpo organico (sottomesso all’autorità di un principio superiore, sia l’omeostasi o il cosiddetto “istinto di conservazione”), e tantomeno il corpo dell’uomo. Il corpo è un momento, individuato ma non soggettivato, del «continuo» – come scriveva Bergson – della vita. Il corpo non ha bisogno di dire “io” perché ha non tempo da perdere per pensarsi fuori dalla vita. Il corpo è la vita che si vive attraverso di esso[76].

Un corpo del genere, ricordavamo più sopra, è quello che Deleuze chiama una «vita», generica e impersonale, eppure affatto inconfondibile: «diciamo che la pura immanenza» – che è la condizione che si vive una volta che il «linguistic turn» sia stato superato e svuotato dall’interno – «è uNa vita, e nient’altro. Non è immanenza alla vita, ma l’immanente che non è in niente è una vita. Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: è completa potenza, è completa beatitudine»[77]. Immanenza, vita, animalità (umana), sono declinazioni diverse di una stessa situazione, senza trascendenza, e quindi senza Stato né Chiesa, senza nemmeno desiderio (con tutta l’insopportabile chiacchiera che questa storia del desiderio si tira dietro). Un soggetto, infatti, è qualcuno «il cui desiderio è che l’Altro gli chieda»[78] qualcosa. È il soggetto che è stretto nella morsa del desiderio (che oggi, fra l’altro, è il principale mezzo per asservire al dispositivo consumistico), e quindi della trascendenza e del rimando (cioè del linguaggio, che infatti non è altro che un infinito sistema di rimandi).

Di questa animalità ancora impensata, e a rigore impensabile, non è possibile dire molto, come non è possibile dell’immanenza, concetto limite in cui le tradizionali distinzioni fra “io” e “tu”, soggetto e oggetto, realtà e apparenza finiscono per annullarsi reciprocamente. È «una vita impersonale, e tuttavia singolare»[79] (questo stesso nocciolo durissimo e indigeribile al di sotto del soggetto, e tuttavia affatto impersonale è quello che Lacan indicava, nelle sue formule, «a minuscola»[80], in contrapposizione all’A grande del linguaggio e del potere), e proprio per questa ragione in grado di partecipare al movimento della vita. Dopo il «linguistic turn» finalmente c’è – è ancora Lacan a parlare – un reale «senza legge»[81], appunto liberato dalla morsa del linguaggio e delle chiese, in cui vite anonime sperimentano quello che nessuno, a parte forse qualche artista (è l’ipotesi di Lacan, che pensa all’esempio di James Joyce), ha mai vissuto: una vita nello spazio non delimitato e non delimitabile del comune[82], ossia «il tentativo di realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto»[83]. Dal linguaggio al corpo, appunto.

[1] G. Canguilhem, Le concept et la vie, in «Revue Philosophique de Louvain», 64 (82), 1966, pp. 193-223, p. 193.

[2] R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino 2010, p. 6.

[3] M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari 2012.

[4] Cfr. anche C. Martin, J. Heil, The Ontological Turn, in «Midwest Studies in Philosophy», XXIII, 1999, pp. 34-60.

[5] R. Esposito, cit., p. 7.

[6] R. Rorty (a cura di), The Linguistic Turn: Essays in Philosophical Method, Chicago 1967.

[7] Si pensi al prepotente ritorno di attenzione per il tema – a lungo rimosso – delle origini del linguaggio umano, intrecciato a quello dei linguaggi animali; cfr. F. Cimatti, Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva, Roma 1998 e F. Ferretti, Alle origini del linguaggio umano. Il punto di vista evoluzionistico, Roma-Bari 2010.

[8] F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, Torino 2000; P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Torino 2003.

[9] T. Sorell, Scientism: Philosophy and the Infatuation with Science, London 1991.

[10] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Milano 2010, p. 410.

[11] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Roma-Bari 2013.

[12] G. Agamben, cit., p. 403.

[13] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Guareschi, Roma 2003.

[14] F. Cimatti, Concetto e significato. Saussure e la natura umana, in «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 3, 2010, pp. 89-101.

[15] F. de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Bari 19785, p. 136.

[16] C. Schmitt, Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna 1984, p. 299.

[17] Ivi, p. 297.

[18] Ivi, p. 298.

[19] Ibid.

[20] F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Roma-Bari 2005.

[21] Come, ad esempio, S. Pinker, L’istinto del linguaggio, Milano 1998.

[22] Cfr. M. Hauser, D. Konishi (a cura di), The Design of Animal Communication, Boston 1999; M. Hauser, C. Yang, R. Berwick, I. Tattersall, M. Ryan, J. Watumull, N. Chomsky, R. Lewontin, The Mistery of Language Evolution, in «Frontiers in Psychology», 5 (401), pp. 1-12.

[23] C. Schmitt, cit. pp. 310-311.

[24] M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-1979, Paris 2004.

[25] N. Hornstein, J. Nunes, K. Grohman, Understanding Minimalism, Cambridge UK 2006.

[26] N. Chomsky, On Phases, p. 3, http://www.fosssil.in/Chomsky_Phases.pdf.

[27] “Combinare”, “fondere”; cfr. G. Graffi, Che cos’è la grammatica generativa, Roma 2008, p. 62.

[28] N. Chomsky, cit., p. 5.

[29] Cfr. ad esempio il nuovo concetto biologico di “esposoma”, che mira ad integrare e superare la troppo netta distinzione – digitale, appunto – fra “genotipo” e “fenotipo”; cfr. C. Wild, Complementing the Genome with an “Exposome”: The Outstanding Challenge of Environmental Exposure Measurement in Molecular Epidemiology, in «Cancer Epidemiology, Biomarkers & Preventions», 14, pp. 1847-1850. Più in generale sui rapporti fra fisica quantistica e biologia cfr. M. Arndta, T. Juffmannb, V. Vedral, Quantum physics meets biology, in «HFSP Journal», 3 (6), 2009, pp. 386-400.

[30] B. Arsenijevic, W. Hinzen, Recursion as a human universal and as a primitive, in «Biolinguistics», 4, 165-173.

[31] N. Chomsky, cit., p. 6.

[32] F. Cimatti, La zecca e l’uomo. Antropologia e linguaggio fra Wittgenstein e Lacan, in «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 7 (2), 2012, pp. 38-52.

[33] G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Roma 2014, p. 34.

[34] S. Freud, Al di là del principio del piacere, in Opere 1917-1923, a cura di C. Musatti, Torino 1977, p. 201.

[35] F. Cimatti, Linguaggio e religione. Lacan sull’umano come “animale malato”, in «Psicoterapia e Scienze umane», 4, 2010, pp. 463-472.

[36] J. Lacan, Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, a cura di G. Contri, Torino 1979, p. 53.

[37] Ivi, p. 55.

[38] In realtà questo tema è al centro anche di quella parte delle neuroscienze italiane più attente alla filosofia; cfr. ad esempio V. Gallese, Mirror Neurons and the Social Nature of Language: The Neural Exploitation Hypothesis, in «Social Neuroscience», 3, 2008, pp. 317-333.

[39] S. Freud, cit. p. 201.

[40] Ibid.

[41] F. Cimatti, La vita che verrà. Biopolitica per “Homo sapiens”, Verona 2011.

[42] G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino 1982.

[43] F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, Torino 2000.

[44] M. Gazzaniga, L’ interprete. Come il cervello decodifica il mondo, Roma 2010.

[45] C. Wolfe, Before the Law. Humans and Other Animals in a Biopolitical Frame, Chicago 2012.

[46] T. Stivers, N. Enfield, P. Brown, C. Englert, M. Hayashi, T. Heinemann, G. Hoymann, F. Rossano, J. P. de Ruiter, K.-E.Yoon, S.. Levinson, Universals and cultural variation in turn-taking in conversation, in «Proceedings of the National Academy of Sciences», 106 (26), 2009, pp. 10587-10592.

[47] M. Foucault, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Il Corso di Lovanio (1981), a cura di F. Brion e B. Harcourt, Torino 2013, p. 15.

[48] , p. 9.

[49] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, a cura di F. Polidori, Milano 2002, p. 28.

[50] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit.

[51] I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica, Torino 1975.

[52] S. Freud, L’Io e l’Es, in Opere 1917-1923, a cura di C. Musatti, Torino 1977, p. 483.

[53] Ibid.

[54] , p. 486.

[55] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, Torino 2002.

[56] S. Freud, L’Io e l’Es, cit., p. 484.

[57] Ivi, p. 517.

[58] Ivi, p. 499.

[59] Ivi, p. 510.

[60] , p. 514.

[61] C. Schmitt, Il nomos della terra, a cura di F. Volpi, Milano 1991.

[62] D. Kidner, Nature and Psyche: Radical Environmentalism and the Politics of Subjectivity, New York 2001; B. Herzogenrath, An [Un]Likely Alliance: Thinking Environment[s] with Deleuze/Guattari, Cambridge UK 2008; P. MacCormack, Posthuman Ethics, Farnham UK 2012.

[63] S. Žižek, Against Human Rights, in «New Left Review», 34, 2005, pp. 1-9.

[64] Ad esempio sul modello delle teorie di Habermas; cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, a cura di G. E. Rusconi, Bologna 1986.

[65] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit.

[66] R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino 2007.

[67] G. Deleuze, Immanenza. Una vita…, Milano 2010.

[68] G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale,Torino 2002, p. 34.

[69] G. Canguilhem, La conoscenza della vita, a cura di A. Santucci, Bologna 1976, p. 34.

[70] F. Cimatti, La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani, Roma 2000.

[71] J. Lacan, Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Torino 2013, p. 597.

[72] Id, Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, a cura di A. Di Ciaccia, Roma 2014, p. 51.

[73] F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, cit.

[74] G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, a cura di F. Polidori, Torino 2002, p. 61.

[75] Ivi, p. 60.

[76] Sia consentita una nota personale. Un tempo una affermazione come questa sarebbe stata giudicata ― ad esempio da G. Lukács, La distruzione della ragione, Torino 1959 ― come “oggettivamente” reazionaria e irrazionalistica. Il punto è che il disastro del “socialismo reale” ha sgombrato il campo dall’equivoco secondo cui la ragione “rivoluzionaria” sarebbe migliore di quella “borghese”. La ragione è comunque e sempre ragione, in altre parole non c’è una biopolitica buona e una cattiva. Il punto è capire se per superare la crisi ecolo gica e filosofica del nostro tempo basti appellarsi ad una (presunta) “buona” ragione (che poi è sempre la nostra ragione) oppure non sia arrivato il momento di provare a superare del tutto questa faccenda della ragione (nelle sue varie forme del dialogo, dell’umanesimo, dell’“economia reale” rispetto alla “economia finanziaria” e così via moraleggiando). Siccome credo che la filosofia si occupi né del mondo com’è (compito della scienza) né di come dovrebbe essere (compito dei preti e dei tribunali), bensì di come potrebbe essere, qui si propende per quest’ultima ipotesi.

[77] G. Deleuze, Immanenza, cit., p. 9.

[78] J. Lacan, Il mio insegnamento, cit. p. 39.

[79] G. Deleuze, Immanenza, cit., p. 10.

[80] J. Lacan, Seminario XI, cit., p. 63.

[81] Id., Seminario XXIII. Il sinthomo, a cura di A. Di Ciaccia, Roma 2006, p. 134.

[82] G. Agamben, La comunità che viene, Torino 1990; R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 2006.

[83] G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Milano 2011, p. 137.

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