Pasquale Amato
Intendiamo qui proporre quelli che a nostro avviso sono gli elementi più stimolanti del pensiero esposto in “Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio, Editori Laterza, Bari 2009”, attraverso una sintetica lettura di quella che lo stesso autore definisce una “ricerca archeologica sul giuramento”.
A partire dal confronto con Paolo Prodi, autore nel 1992 de Il sacramento del potere, Agamben ci conduce, per un’archeologia del giuramento, ad invertire l’ipotesi di un rimando, rivelatosi scontato per la maggior parte degli studiosi che hanno indagato sull’argomento, alla sfera magico-religiosa, all’affidarsi a forze divine che puniscano lo spergiuro. Un circolo vizioso, dunque, che fa leggere il giuramento come strumento per impedire lo spergiuro. L’attenta lettura delle fonti greche e romane ci ha consentito di distinguere il mondo classico, in cui l’horkos è l’unica potenza a cui persino gli dèi sono subordinati, e la cultura monoteistica (in particolare cristiana) che identifica Dio, “parola vera ed efficace in principio”, con il giuramento. Ma, dice Agamben, la tesi va rovesciata: è il giuramento, in quanto originale esperienza performativa della parola, che spiega la Religione (e il Diritto).
Abbiamo visto come il giuramento si collochi nell’ambito della fides, istituto la cui funzione è “l’affermazione performativa delle verità e della attendibilità della parola”, tant’è vero che nel mondo classico gli horkia sono pista, cioè affidabili, in virtù della testimonianza degli dèi.
Quel che però più ci riguarda è il cristianesimo, religione e divinizzazione del logos, in cui la fede, esperienza performativa di una “veridizione”, è fede nella parola ereditata dal giuramento. La Chiesa, dice Agamben, tenta contraddittoriamente di conciliare tale fede con asserzioni dogmatiche, per iscrivere tecnicisticamente il giuramento e la maledizione in forme giuridiche specifiche, lasciando alla filosofia, non costretta a codificare la veridizione in un sistema di verità, il ruolo di vera religio che fonda qualunque evento del linguaggio nella veridizione.
Abbiamo quindi constatato la prossimità tra giuramento e sacratio (o devotio), leggendo nella sacertas, sì il “sacramento del potere”, ma anche il “sacramento del linguaggio”, visto che attraverso la parola il giuramento consacra il vivente alla parola stessa. E Agamben ci mostra che la sacratio originaria, mutando in politiké ara, in maledizione, giustifica il legame esistente tra diritto e maledizione, ammonendo che, solo spezzando tale nesso originale, la politica renderà possibile un uso nuovo, altro, di parola e diritto.
Agamben, alla luce dell’accurata riflessione sulle fonti, colloca in conclusione il giuramento in uno stretto rapporto con l’antropogenesi. Il forte riferimento all’analoga tesi di Lévi-Strauss è determinato dalla volontà di integrarne il paradigma che, a parere di Agamben, risulta estremamente riduttivo, in quanto esclusivamente cognitivo. A partire dalla considerazione che “l’universo ha cominciato a significare molto prima che si cominciasse a sapere cosa significava”, Lévi-Strauss afferma che l’uomo diventato “parlante” coglie, nell’improvvisa significatività del mondo, un sovrappiù non contenibile dalla propria facoltà di linguaggio. Dal tentativo di superare tale “inadequazione fondamentale tra significante e significato”, deriverebbero quei fenomeni linguistici che possono tipicamente essere rappresentati dal mana (termine che, in analogia al nostro “coso”, o anche a manitou, designa non oggetti, sacri o meno, ma “un vuoto di senso o un valore indeterminato di significazione”), definito da Lévi-Strauss “malattia del linguaggio, ombra opaca che il linguaggio getta sul pensiero”, difetto che impedisce, dunque, “la saldatura tra significato e conoscenza”. Ma il nostro Autore si chiede se non sia ragionevole supporre che, oltre a quelle gnoseologiche, questa difficoltà originaria dell’“uomo parlante” presentasse anche, e probabilmente innanzi tutto, implicazioni etiche.
Ed è la risposta a questo interrogativo che, particolarmente, ha colpito il nostro interesse, la considerazione, cioè, che l’uomo, nello scoprirsi dotato di una facoltà di cui, a differenza dell’animale, ha fatto la “sua potenza specifica”, affida al giuramento una funzione molto rilevante. La capacità di linguaggio mette problematicamente in connessione il parlare e l’agire, non solo perché implica i limiti della eventuale conoscenza di significatività del mondo, ma soprattutto perché espone il parlante alla possibilità della menzogna, oltre che a quella della verità. Quindi l’uomo, il “vivente che ha linguaggio”, che nel logos, impegnandosi a rispondere del proprio dire, mette in gioco la sua natura e la sua vita, risolve nel giuramento l’esigenza “di legare insieme in un nesso etico e politico le parole, le cose e le azioni”.
L’uomo d’oggi, osserva Agamben nelle conclusioni, vive ancora “nel solco di questa decisione” originaria, in qualche modo dovendosi confrontare con la “prima promessa, la prima – e per così dire, trascendentale – sacratio” che gli impone di mettersi in gioco nel logos. Ma noi apparteniamo a generazioni che tendono ad eludere il vincolo con il giuramento, che vedono indebolita questa relazione etica con la lingua, “forma in cavo” che è il posto in cui l’unico vivente dotato della facoltà di linguaggio “per parlare deve dire ‘io’, deve, cioè, ‘prendere la parola’, assumerla e farla propria”.
Con parole dure, Agamben stigmatizza l’attuale separazione tra il vivente ridotto “a una realtà puramente biologica” e il parlante che difficilmente, ormai, può rispondere di una “parola sempre più vana”, sulla base della quale la politica si configura come un’esperienza “sempre più precaria”.
Definisce, quindi, la nostra epoca come “età dell’eclissi del giuramento”, ma anche “età della bestemmia”, perché Dio, smarrito il “nesso vivente con la lingua”, può essere nominato soltanto invano.
Prima di proporre una rapida lettura di alcuni dei passaggi attraverso cui l’Autore giunge alle sue tesi conclusive, ci piace qui, come auspicio, riportare integralmente il passo finale del libro: “In un momento in cui tutte le lingue europee sembrano condannate a giurare in vano e in cui la politica non può che assumere la forma di una oikonomia, cioè di un governo della vuota parola sulla nuda vita, è ancora dalla filosofia che può venire, nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha linguaggio, l’indicazione di una linea di resistenza e di svolta”.
Ripercorriamo ora il progressivo sviluppo delle tesi di Agamben, attraverso quelli che crediamo essere i nodi principali.
Il lavoro con il quale l’Autore si confronta, che trasversalmente fa da riferimento critico fino alla fine, è il citato saggio storico di Prodi, che già focalizzava la crisi dell’uomo occidentale alle prese con la fragilità del patto politico conseguente al declino del giuramento come “sacramento del potere”. Sappiamo come Agamben corregga e completi tale teoria, spostandone l’asse sul linguaggio, ma ci interessa qui fare cenno alla discussione, avviata a partire dal libro di Prodi, con la quale l’Autore critica il diffuso luogo comune che, in assenza di documenti storici che chiariscano le origini di istituti come il giuramento, attribuisce quelle origini a stadi culturali privi di attestazione storica, dedotti da analisi comparative di tipo linguistico-grammaticale, in cui l’ipotesi di una indistinta dimensione archeo-religiosa porta gli studiosi (Benveniste è uno di questi) ad interpretare l’horkos come la “sostanza sacra” con cui entra in contatto chi giura. Interessanti spunti di riflessione, nel contesto, provengono dalla questione della “ultra-storia”.
La lettura delle Legum allegoriae di Filone supporta l’affermazione che il logos di Dio è il linguaggio che sempre trova realizzazione nei fatti (“Dio parlando nello stesso istante fa”), fino a poter dire che i suoi “logoi sono horkoi”, che cioè le “parole di Dio sono giuramenti”. Il giuramento degli uomini, dunque, è “il tentativo di adeguare il linguaggio umano a questo modello divino, rendendolo, per quanto possibile, pistos, credibile”.
I Romani chiamavano fides quella che per i Greci era pistis, cioè la “fedeltà personale”, “il credito che abbiamo”. I due termini, però, per i Greci e per i Romani, erano riferiti anche all’istituto invocabile, in una guerra, dalla città più debole per impegnare il vincitore alla benevolenza. Il legame era sanzionato dallo scambio reciproco di solenni giuramenti e Agamben può dunque definire la fides come un atto verbale il cui effetto è la reciproca fiducia, ma che in ogni caso ha come oggetto, come il “giuramento, la conformità fra le parole e le azioni delle parti”.
Dall’esame della sacratio (e della devotio) – istituto attraverso il quale, dicono le fonti antiche, a seguito del giuramento un accusato veniva reso sacer, consacrato ad una “divinità vendicatrice” che lo punisse se avesse trasgredito alla parola data –, cogliamo l’importanza della maledizione dello spergiuro che chiudeva la formula di tutti i giuramenti. La maggior parte degli studiosi, avverte Agamben, arrivano così a considerare il giuramento come una ”maledizione condizionale”, attribuendo alle divinità il doppio ruolo di testimoni e di punitori. Con l’aiuto di altri autori (Ziebarth, per esempio, o Fowler), l’analisi di Agamben ci conduce al legame tra politica e maledizione di cui abbiamo parlato all’inizio. L’Autore evidenzia qui l’intimo rapporto che maledizione e spergiuro hanno con la bestemmia, e segue l’analisi di Benveniste che, in riferimento all’interdizione della pronuncia del nome di Dio, mostra come la bestemmia tenti, contro la volontà della tradizione religiosa di escludere ciò che è altro dal sacro divino, di ripristinare la totalità profanando il nome di Dio, perché “tutto ciò che di Dio possediamo è il suo nome”. Agamben dice: “Il nome di Dio, isolato e pronunciato ‘in vano’, corrisponde simmetricamente allo spergiuro, che separa le parole dalle cose; giuramento e bestemmia, come bene-dizione e male-dizione, sono cooriginariamente impliciti nello stesso evento di linguaggio”. E più avanti, sulla base della considerazione che la bestemmia, come “divorzio dal significato”, svuota di senso “il nome di Dio – cioè il potere significante del logos”, riducendolo “a un abracadabra”, a nome incomprensibile, pronunciato a vuoto, Agamben opera il rovesciamento della tesi che vuole il giuramento derivato dalla sfera magico-religiosa: la magia nasce dal giuramento, “il nome di Dio, separato dal giuramento e dalla sua connessione alle cose, trapassa in mormorio satanico”.
Il riferimento al filologo Usener e ai Sondergötter (“dèi speciali”) rafforza la convinzione che il nome del dio presente nel giuramento rappresenta, anzi è, “evento del linguaggio” che lega in modo indissolubile parole e cose. “Ogni nominazione, ogni atto di parola è, in questo senso, un giuramento” che impegna il parlante nel logos – e il logos stesso – a rispondere della propria parola che, se viene meno, pone in essere la male-dizione.
È esplicita, poi, l’osservazione che gli speech acts rappresentano, come il giuramento dimostra in quanto enunciato performativo, un residuo nella lingua di quello “stadio […] in cui il nesso fra le parole e le cose non è di tipo semantico-denotativo, ma performativo, nel senso che […] l’atto verbale invera l’essere”. A partire da ciò, il soggetto che giura si lega ad una “veridizione” (termine che l’Autore mutua da Foucault), mette cioè in gioco se stesso “legandosi performativamente alla verità della propria affermazione”.
A conclusione di questa sintesi (certo non esaustiva), riproponiamo la convinzione di Agamben sull’appartenenza del giuramento ad un ambito intermedio tra religione e diritto, ambito che richiama il contrasto tra fede e ragione dei nostri tempi, le cui radici risiedono nei “due caratteri cooriginari del logos che sono la veridizione (da cui provengono il diritto e la religione positiva) e l’asserzione (da cui derivano la logica e la scienza)”.
Nota: tutte le citazioni sono tratte da Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio, Editori Laterza, Bari 2009.