Recensione:
Giuseppe D’Acunto, Il logos della carne. Il linguaggio in Ortega y Gasset e nella Zambrano, Cittadella, Assisi 2016
Massimo Piermarini
Chi ama la terra di Spagna, non può non amare s. Giovanni della Croce e s. Teresa d’Avila, i veri artefici e iniziatori della letteratura e del pensiero spagnolo moderno, oltreché due grandi mistici e ardenti campioni di stile nel campo della prosa e della poesia. Nel Novecento, un’altra coppia di pensatori di rango ci rinvia alle origini del pensiero e della letteratura spagnola moderna: Ortega y Gasset e María Zambrano. Vi ritroviamo la stessa tensione spirituale condotta sino al parossismo, la stessa logica delle passioni, la stessa profondità nell’indagine delle manifestazioni e dei simboli dell’interiorità della vita e del corpo. Il libro di Giuseppe D’Acunto mette in luce l’assoluta originalità del pensiero orteghiano e la sua vasta portata dal punto di vista ontologico, etico, estetico, centrando la sua indagine sulla problematica del linguaggio nell’ambito di una filosofia dell’essere o della ragione vitale che soltanto in apparenza può scambiarsi con una versione spagnola dell’esistenzialismo, in quanto portatrice di strutture di pensabilità dell’essere storico, del dovere morale e dell’estetica. Ontologia vitalista, fondazione dell’etica della decisione e pensiero intorno al linguaggio come espressione e azione dell’individuo costituiscono, infatti, nel pensiero di Ortega, un blocco unico. Il linguaggio viene saggiato secondo una prospettiva “radicale”. Nello “star fuori” dell’uomo, in relazione col mondo, esso occupa un posto di rilievo, in quanto espressione.
Stare al mondo è “stare fuori”, cioè esprimere. Il linguaggio è «un comportamento antropologico reattivo» (p. 10). L’espressione diventa un problema di scelta. La circoscritta sfera in cui l’uomo dice non ne limita, ma ne moltiplica la polisemicità. Il prendere posizione è, infine, una prospettiva assunta rispetto al mondo. La lingua viva, così, ha il primato su quella scritta (p. 15). La parola rivela e nasconde, così come il silenzio segna il confine tra pensiero e linguaggio (p. 19). La lingua disintegra però la gesticolazione, ed è solo un frammento dell’espressività umana che è pure tono e modulazione, non solo parlato. In altri termini la lingua è, per Ortega, in rapporto con la carne, cifra semiotica di un interno, di qualcosa di intimo.
Accanto all’intimità della carne e dell’anima, c’è però quella dello spirito. Si tratta di un’intimità che nasce da una dinamica, da una cinematica dei movimenti corporei.
La stretta teoretica di Ortega si fa qui bergsoniana: lo spirito è dinamismo e slancio, energia in movimento. Il fenomeno del linguaggio e la sua essenza si legano così strettamente all’antropologia orteghiana, che è di tipo pragmatico (pp. 22 sgg.).
La lingua per Ortega non è solo melodia e lirismo, ma anche gesto, atteggiamento corporeo. Infine ecco un’impronta vichiana: il linguaggio rimanda a una collettività sociale, è l’oggetto di una scienza primitiva (p. 29 – Vico è espressamente chiamato in causa per la tesi della metaforicità di ogni lingua) e contiene una forma mentis determinata (p. 29) e, almeno in origine, è identico al conoscere. L’espressività del linguaggio rimanda al primato del parlato sulla parola scritta e al contesto o alla «realtà che quel testo è» (p. 33), a ciò che il pensiero è in connessione con una determinata vita. Ogni testo, secondo questa impostazione ermeneutica, ha un contesto e un contorno extralinguistico (cfr. pp. 35 e 53). La stessa nominazione della cosa, la sua enunciazione, esige un termine che abbia un’analogia con essa, che sia cioè una metafora. Se l’apparire della cosa richiede il nome, l’ontologia rimanda all’estetica (più propriamente alla linguistica). È alla metafora, tema assai caro anche a Ernesto Grassi, che si rivolge l’attenzione di D’Acunto, che studia la pregnanza dell’interpretazione orteghiana di essa come autentico nome delle cose nella loro nativa e sorgiva primarietà (pp. 41 sgg.). I problemi di lettura, di traduzione e più in generale di interpretazione assumono in Ortega, sulla base della sua concezione della parola, una nuova luce. La parola riacquista il suo significato di attività, dinamismo, “pressione” reciproca tra parola e contorno. La posizione di Ortega viene dall’Autore confrontata con quella di Chomsky e di Benveniste (pp. 54-59). Il terzo capitolo approfondisce questi punti fermi della filosofia del linguaggio come gesticolazione e dinamismo continuo, traendone tutte le conseguenze: l’oggetto estetico si identifica con la metafora, comune alla lingua, che è sempre metafora che «lascia apparire il nuovo nel momento stesso che trasforma il vecchio» (p. 70). Nella metafora, più precisamente, la parola perde il suo significato di nome per divenire verbo che è «“effettuazione” del mio atto vitale di vedere una tale cosa» (p.76). La prospettiva dinamica, evoluzionistica e creativa della concezione del linguaggio di Ortega viene dunque confermata. Essa ci insegna che la metafora è l’essere in via di esecuzione e rappresenta la vita nella sua realtà radicale e concreta.
Nella Zambrano, a cui è dedicata, con grande finezza analitica e articolazione argomentativa, la seconda parte del libro, le posizioni del maestro sembra si radicalizzino e anche il linguaggio si accende, infuocato dall’eros filosofico. Il progetto orteghiano di ontologia dinamica o raziovitalismo si approfondisce come fusione e contrasto di filosofia e poesia e, naturalmente, la parola assurge a principio di una iniziazione alla verità che soltanto la bellezza e l’amore possono alimentare. La vita ha bisogno della parola, ma rischia di perdersi nel razionalismo astratto. La risposta è l’ascolto di echi giovannei e pulsioni mistiche della sfera interiore (p. 84). L’esecutività di Ortega diventa, nell’ontologia di Zambrano, “avvenimento” della parola: «il principio al di sopra di tutto» (ibid.). La trasparenza della parola è la sua stessa trascendenza, il suo nocciolo rivelativo. Essa è divina e gloriosa (p. 88).
Il linguaggio sarà pertanto il frutto di essa e conserverà sempre una parentela con ciò che è naturale. La parola come gesticolazione di Ortega diventa in Zambrano attenzione, ascolto in silenzio e memoria, rivelazione della verità temporale, nella quale si rivela la persona e la vita (p. 94), ricettività e passività, in pausa e nel silenzio, in un processo di svuotamento che è ricerca del centro di illuminazione interiore, oltre le viscere e la loro oscurità (p. 93). L’Autore delinea, nella parte conclusiva del volume, in maniera chiara e puntuale, i passaggi originali del pensiero della Zambrano, la valenza del suo timbro filosofico e lirico, che apre e fa sgorgare tutte le sue nascoste sorgenti neoplatoniche e agostiniane: luce, amore, cuore, grazia. La parola prepara la persona a esporsi alla luce, attraversando la “notte oscura” dell’anima. La dimensione della Zambrano è più eterea, pneumatica e il suo passo più deciso di quello del maestro. La parola non è, qui, soltanto metafora e luogo poetico, ma vita dell’anima e la filosofia diventa “ragione poetica”. Lo spostamento non è quello dalla cosa alla metafora, ma quello verso il centro di gravità (e di irradiazione) dell’anima, provocato dall’amore. D’Acunto ripercorre l’intelaiatura del misticismo della Zambrano, immerso nell’oscurità vitale delle viscere e del cuore, segno di un’interiorità aperta (pp. 104-106), coniugato con la poesia, unica possibile «continuità della creazione» (p. 108). Il fitto ricamo delle categorie della Zambrano, ripercorso nel testo, annoda i fili di un pensiero coerente e organico, teso a acquistare o riconquistare il logos dell’anima: la parola, che fa guadagnare la dimensione cosmica (p. 111), di cui la poesia, con i suoi luoghi, è il linguaggio sacro (pp. 113-125).