Intervista a Seyla Benhabib

Nicola Cotrone

 

Seyla Benhabib: breve presentazione e cenni biografici

 

 

Seyla Benhabib, ad oggi l’autrice che più approfonditamente ha elaborato il tema della dimensione culturale della cittadinanza, critica nelle sue opere sia i capisaldi del pensiero modernista legati alla fiducia illimitata nel progresso e nella tecnologia umana che i concetti di cultura e società così come storicamente intesi. La sua rivisitazione e ridefinizione della democrazia deliberativa attraverso gli strumenti delle “iterazioni democratiche” e della politica “giusgenerativa” permettono di scandagliare il complesso paradigma democratico, oggi più che mai incalzato dal dilemma del multiculturalismo anche di matrice politico-religiosa. L’intervista (Firenze, 28 giugno 2014), oltre ad essere un importante momento di conoscenza della studiosa e un confronto serrato sugli ultimi sviluppi del suo pensiero, ha confermato la sua capacità di intervenire nel dibattito filosofico-politico e di indagare i parametri della “cittadinanza post-nazionale”.

Seyla Benhabib è nata a Istanbul nel 1950 da una famiglia di origine ebraica. Già docente di Teoria Politica presso l’Università di Harvard è attualmente Eugene Meyer Professor of Political Science and Philosophy presso la Yale University – New Haven (Connecticut). Dal 1979 al 1981 é stata Alexander von Humboldt Fellow a Starnberg e Francoforte e si è avvicinata al pensiero di Jürgen Habermas. Ha studiato filosofia, politica e storia del pensiero femminile a Boston, presso la New School for Social Research e si è occupata di teoria critica, filosofia politica e femminismo. È stata docente ospite presso le università di Costanza, Francoforte e Macerata. Per il suo contributo alla comprensione delle tematiche interculturali ha vinto i premi: Ernst Bloch (2009), Leopold Lucas (2012) e il recentissimo Meister Eckhart del 19 maggio 2014 a Colonia in Germania. È stata insignita della laurea “honoris causa” dalle Università di Utrecht, Valencia e dalla Boğaziçi University di Istanbul. La sua storia personale e familiare è la testimonianza di come le diverse culture possano convivere all’interno dei conflitti che dominano il dialogo interculturale contemporaneo.

Ha indagato le relazioni della teoria critica della società con la tradizione del pensiero politico e con l’etica contemporanea e propone un progetto di etica universale che risente delle suggestioni di Habermas. Intende altresì integrare il pensiero femminile e il criticismo all’interno di un’etica dialogica che prospetta l’atto etico come capacità di entrare in relazione con il punto di vista dell’altro. I suoi studi si sono anche focalizzati sul rapporto con il modello dell’etica del discorso proposto da Habermas e la politica liberale delle democrazie occidentali. In The Reluctant Modernism of Hannah Arendt (1996) ha inoltre approfondito il pensiero politico di Hannah Arendt. Tra le sue opere più importanti: Critique, Norm, and Utopia: A Study of the Foundations of Critical Theory, Columbia University Press, Columbia 1986; Situating the Self – Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics, Polity Press, Cambridge 1992; The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era, Princeton University Press, Princeton 2002; (trad. it. La rivendicazione dell’identità culturale – Eguaglianza e diversità nell’era globale, Il Mulino, Bologna 2005); The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens, Cambridge University Press, Cambridge 2004; (trad. it. I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006); Another Cosmopolitanism, Oxford University Press, Oxford 2006; (trad. it., Cittadini globali – Cosmopolitismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2008).


Intervista a Seyla Benhabib

 

 

(Firenze, 28 giugno 2014)

Parte di questa intervista (domande: 7, 9, 10, 11) è stata pubblicata, il 10 febbraio 2015, sul sito della Rivista on-line “Reset-DOC” (Dialogues on Civilizations), [direttore Giancarlo Bosetti] con il titolo: Giustizia e pari diritti nella diversità – Vi racconto il mio cosmopolitismo – (Seyla Benhabib intervistata da Nicola Cotrone). Il testo è disponibile all’indirizzo:

L’intervista a Seyla Benhabib è stata realizzata a Firenze il 28 giugno 2014 a margine dei lavori della Conferenza inaugurale dell’International Society of Public Law (ICON-S) sul tema: Rethinking the Boundaries of Public Law and Public Space (Firenze 26-28 giugno 2014). La politologa di Yale ha partecipato alla Conferenza discutendo con Robert O. Keohane (Princeton University) e Gráinne de Búrca (New York University) sul tema: Democracy and Governance in a Multicultural World.


There are life stories that make a difference … So, don’t get discouraged. Good work always emerges out of this, you know, mediation. You have to have both the message and the passion.
Ci sono storie di vita che fanno la differenza … Per cui, non ti scoraggiare. Il lavoro ben fatto emerge sempre da questa mediazione: devi possedere sia il messaggio da trasmettere che la passione per farlo.


I like the concrete phenomenal logical political experience. This is what gets me passionate.

Mi piace l’esperienza concreta, fenomenica, logica e politica. Questo è ciò che mi appassiona.

 

[Seyla Benhabib – Firenze, 28 giugno 2014]

 

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Seyla Benhabib: la passione e l’esperienza fenomenologica
al servizio della filosofia politica

 

Domanda 1

In Communication and the other: beyond deliberative democracy (1996) Iris Marion Young believes that the discussion between individuals is the most appropriate instrument for democratic processes, on one condition , that you abandon or resize the argumentative style of the discussion in favor of the narrative. The role of narrative communication is crucial for two reasons: a) first the narrative can play an important role when the discussion relates to matters of public policy or actions that deal with a need or a right. The narrative offers an important tool for contextualizing and showing a specific need or right; b) the narrative also contributes, in respect of the knowledge context, to clarify the political topic at stake, to interpret the actions of each other and to understand what may be the effects of a policy on citizens in different social positions. Thinking to your reading of Hannah Arendt, how does fiction affect the communication in a public deliberative process?

In Communication and the Other: Beyond Deliberative Democracy (1996) Iris Marion Young ritiene che la discussione tra individui sia lo strumento più adeguato ai processi democratici, a una condizione, che si abbandoni o ridimensioni lo stile argomentativo della discussione a favore di quello narrativo. Tale ruolo della comunicazione narrativa è cruciale per due motivi: a) per prima cosa la narrazione può assumere un ruolo importante quando la discussione fa riferimento ad argomenti di tipo politico o ad azioni di fatto che si appellano ad un bisogno o a un diritto. La narrazione fornisce uno strumento importante per contestualizzare e mostrare una determinata esigenza o un diritto; b) la narrazione contribuisce inoltre, nell’ambito della conoscenza sociale, a chiarire l’argomento politico proposto (dai diversi gruppi), a interpretare le azioni gli uni degli altri e a capire quali possono essere gli effetti di una decisione politica o di un’azione di cittadini in diverse posizioni sociali. Pensando anche alle sue letture di Hannah Arendt quanto incide secondo lei il ruolo della comunicazione narrativa nel dibattito pubblico deliberativo?

Inizierei col fare una distinzione tra racconto (narrative) e finzione (fiction). Come ha osservato Iris Marion Young i racconti possono anche essere storie narrate in prima persona e non è necessario che siano immaginarie. Lei parla di diverse forme di racconti inclusa ciò che definisce “greeting”, (saluto) nella consapevolezza che il riconoscimento dell’altro è sempre relativo alla conoscenza che si ha di se stessi come persona tra gli altri.

Ritengo che la prima osservazione da fare sia questa piccola e letterale distinzione tra narrativa e immaginazione perchè alcuni racconti sono immaginari, altri no, sono prima di tutto racconti storici che narrano esperienze vissute. Credo che Young faccia riferimento alla necessità del proprio coinvolgimento, di raccontare storie in prima persona o di raccontare le storie della propria vita, facendo emergere, in questo processo, il proprio vissuto e la propria soggettività.

Sono d’accondo con lei quando dice che ciò può avere un ruolo importante nella creazione di una comunità e sappiamo bene quanto sia importante, per una comunità e la sua cultura, la qualità dei racconti che ci caratterizza come popolo: noi italiani, noi americani, noi tedeschi. Ciascuno ha una sua tradizione, una sua eredità, una sua storia[1].

Credo che la differenza tra me e Iris Marion Young risieda nel fatto che io continuo a credere che questi racconti non siano processi equivalenti di giustificazione. In altre parole credo che sia necessario fare un passo avanti. Nel caso la narrazione sia un principio morale è giustificabile? E su quali basi? Nel caso invece sia un principio politico è possibile la sua legittimazione? Secondo Young il programma di giustificazione dell’etica del discorso (e dell’etica comunicativa) è troppo duro da realizzare, per tale motivo ha inteso renderlo più contestuale[2]. Ritengo che se rinunciassimo ad alcune assurdità della giustificazione (… give up some nonsense of justification) apriremmo le porte al contestualismo o al relativismo e credo che questo sia un aspetto centrale (… we open the door to … either contextualism or relativism and I think this is the main thing).

Ho sempre apprezzato i contributi della Young ma la domanda rimane: “Fondamentalmente qual è il ruolo della narrativa?”. Per me fa parte del processo comunicativo, è uno strumento e non può essere intesa o utilizzata come il processo stesso, così come non può sostituirsi alla giustificazione.

Una breve riflessione su Hannah Arendt. Credo che il concetto della “rete narrativa” (web of narratives)[3] – o anche “strati narrativi” – nei lavori di Arendt sia un concetto fenomenologico. Si occupa di come sono costitute le nostre identità: “Chi sono? Chi siamo? Come conosciamo?”. Prima mi hai detto: «Sono nato nel sud Italia, mio padre è un agricoltore ecc. …» e io potrei dire «Sono nata ad Istanbul, sono arrivata negli Stati Uniti a 19 anni. Adesso sono cittadina americana ecc. …». Attraverso questi racconti identifichiamo noi stessi. Per Arendt al loro interno si rivela non solo chi siamo, ma anche cosa facciamo, quali sono i nostri compiti (We identify each other by this narrative and Arendt also had in the inside that not only who we are, but what we do).

Per Arendt l’identità degli individui e delle nostre azioni sono “narrative costitutive” (narrative constitute)[4] che io vedo come qualcosa di molto profondo che ci avvicina a Ludwig Wittgenstein, ci avvicina alla tradizione di Ricoeur ed è, in qualche modo, come ho sempre detto, al centro del concetto espresso più tardi da Habermas delle “azioni comunicative”.

 

Domanda 2

Where does your interest for this empirical cases that you can always combine with your philosophical reflection?

Da dove nasce questo tuo interesse per i casi empirici che riesci sempre a combinare con la tua riflessione filosofica?

Ho studiato in Germania con Habermas il quale mi ha poi offerto la possibilità di prendere l’abilitazione all’insegnamento universitario. Ho preferito tornare negli Stati Uniti dove mi sono abilitata con la tesi che sarebbe diventata il mio secondo libro: Critique, Norm and Utopia – A Study of the Foundations of Critical Theory (Columbia University Press, New York 1986). La mia tesi di Laurea[5] sulla Scienza filosofica del diritto di Hegel ed in particolare sulla prima sezione: Filosofia del Diritto, (scritta circa 40 anni fa) mi ha permesso di indagare le contraddizioni sociali ed è stato il mio punto di partenza per approfondire la filosofia politica che mi ha sempre affascinato.

Provengo perciò da un lavoro molto toerico dove il mio studio filosofico mi ha portato ad indagare la trasformazione del concetto di critica da Hegel a Marx e fino ad Habermas. In questa tradizione c’è sempre stata molta attenzione sulla combinazione delle analisi dei modelli e delle forme con la critica sociale, vale a dire la teoria sociale (social theory). Credo che siamo un bel gruppo di studiosi che lavora in questo modo, non solo Iris Marion Young ma anche i miei buoni amici Nancy Fraser e Alessandro Ferrara. Tutti proveniamo da questa tradizione.

Oltre alla teoria critica di Habermas, è stata Hannah Arendt ad aver influenzato i miei studi. Ho sempre letto in parallelo le loro opere e conosco il complesso delle tensioni e delle ostilità che li contrappone. Appena si approfondisce la conoscenza della Arendt ci si accorge quanto sia una filosofa politica accurata. Il suo scopo è quello di mettere in discussione la politica nel contesto della cultura storica. Cerco di dare la stessa visibilità nel mio lavoro. Generalmente mi concentro su un problema e mi domando cosa ha portato a quel problema e come si è trasformato all’interno di quella data cultura e contesto sociale. Ad esempio il tema dei profughi e dei richiedenti asilo mi interessa non solo perché mi domando il perché avvenga e dove ha origine, ma anche perché da molto tempo sono interessata ai problemi degli altri intesi come “altri concreti” (concrete other).

Mi sono interessata agli sviluppi politici degli ultimi 20/25 anni. Ero in Europa quando è scoppiata la guerra civile in Yugoslavia e ho notato come da un lato c’era la forte volontà di costruire l’unificazione europea, dall’altro si stava sviluppando una guerra civile e religiosa proprio al suo interno. Così ho cominciato a guardare a tutto ciò dall’interno e con lo sguardo della filosofa politica, e questo è stato molto interesante.

L’Europa che si sta costruendo è una nuova entità che diventa un punto di riferimento per “Noi” e anche per gli “Altri”. Ma quali sono i suoi confini? La turchia fa parte dell’Europa? Queste sono le domande cui noi studiosi di filosofia politica siamo chiamati a dare una risposta. Ed è questo il lavoro che mi piace fare: è interessante vedere come nella realtà si integrano anche questi problemi filosofici (reality embeds within itself also these philosophical problems) che hanno bisogno di una risposta equilibrata. A differenza della filosofia analitica, la filosofia politica e la teoria critica accettano questa sfida. Mi piace confrontarmi con l’esperienza concreta, fenomenica, logica e politica. Questo è ciò che mi appassiona (I like the concrete phenomenal logical political experience. This is what gets me passionate).

 

Domanda 3

I have the impression that you would be contrary in conceiving the principle of redistribution on a global scale, and would put first the democratic self-governance (with all issues related to citizenship). But how can we foster an “economic justice among peoples”, according to the “principle of democratic self-government”? Linking the criteria of global justice and the forms of deliberative democracy, wouldn’t this finally join the general obligation to “assistance” invoked by Rawls in The Law of Peoples? And why do you think that the global redistribution programs are incompatible with democratic processes of opinion and will formation, including practices of deliberative democracy, democratic iterations of rights and claims of migrants’ rights?

Mi sembra di aver capito che lei sia contraria a una concezione su scala globale del principio redistributivo, e tende, nelle sue analisi, a far prevalere la priorità dell’autogoverno democratico (con tutte le problematiche legate alla cittadinanza) sulla redistribuzione internazionale delle risorse. Ma come si può conciliare e creare una “giustizia economica tra i popoli”, con il “principio dell’autogoverno democratico”? Postulare una correlazione tra i criteri di giustizia globale e le forme della democrazia deliberativa, come fa lei, non significa, in ultima analisi, ricadere nel generico dovere di “assistenza” invocato da Rawls in La legge dei popoli? E perché secondo lei i programmi di redistribuzione globale non sono conciliabili con i processi democratici di opinione e di formazione della volontà, comprese le pratiche di democrazia deliberativa, le iterazioni democratiche e le rivendicazioni dei diritti migratori?

In questa domanda è riassunto esattamente il problema (… this is exactly the issue). Mi piace molto questa domanda perché quando ho scritto il III Capitolo di I diritti degli altri (pubblicato nel 2004, tradotto in italiano nel 2006) ho trattato di Diritto dei popoli e giustizia distributiva. A partire da A Theory of Justice (1971) di John Rawls (che successivamente ha scritto The law of peoples – 1999) si è aperto un dibattito cui hanno partecipato Charles Beitz e Thomas Pogge. Il primo ha scritto Justice and International Relations (1975), il secondo Realizing Rawls (1989) e World Poverty and Human Rights – Cosmopolitan Responsabilities and Reforms, (2002). Già nel 1992 Pogge con Cosmopolitanism and Sovereignty aveva inaugurato la sua riflessione sul cosmopolitismo.

Ora il punto è questo: io ho condiviso la critica cosmopolita cha va oltre il ruolo dello stato-nazione. Il vero problema è quello che Rawls nel suo Il diritto dei Popoli (1971) vede ancora il popolo come un’unica entità. Sento di condividere la critica cosmopolitica su questa visione. Purtroppo però, a mio parere, questa critica (in particolare Pogge e Beitz) ha completamente ignorato la questione dell’identità all’interno del problema della giustizia distributiva (… the question of identity in the problem of distributive justice was being completely neglected). La motivazione risiede nel fatto che, in particolare per Pogge, è come se il mondo fosse già e di fatto una comunità costituita, una comunità umana cosmopolita all’interno della quale è possibile pensare ai principi di giustizia distribuitiva globale. Come è noto Pogge fa riferimento al paradigma della “risorsa globale” (global resource), secondo il quale esiste un obbligo da parte degli stati ricchi verso gli stati poveri attraverso molteplici programmi di intervento. Ma questo discorso era per me insoddisfacente perchè non riuscivo a capire come ci potesse essere una concreta ricaduta positiva, e in quale misura, (anche all’interno del “Noi”) sarebbe stato possibile approcciare un dialogo. Pertanto inizialmente parlare di giustizia distribuitiva globale mi è sembrato astratto e negativo.

Alcune intuizioni sono buone, altre no. Solo alcune le ho ritenute degne di considerazione. In secondo luogo continuavo a domandarmi: a) qual è la politica della giustizia distribuitiva? b) C’è una linea guida comune? c) Abbiamo l’obbligo di dire al mondo come riorganizzare le risorse e le ricchezze? Inoltre continuavo a chiedermi: dov’è la questione della democrazia? Perchè il problema della legittimità democratica e della giustizia distributiva non vengono affrontati insieme?[6] Non credo di aver sbagliato nella mia critica perchè ritengo che le teorie sulla giustizia distribuitiva non sono attente alle questioni di cittadinanza ed immigrazione o alla distribuzione della popolazione (… theories of distributive justice do not pay attention to questions of citizenship and migration or the distribution of the population). Su questo punto mi ha fatto riflettere Michael Walzer il quale ha assolutamente ragione quando in Spheres of Justice (1983) dice che “il primo punto della giustizia distribuitiva è la distribuizione degli uomini anche all’interno delle diverse comunità politiche”. Ciò richiama il problema della giustizia e della politica di inclusione ed esclusione. Inizialmente sono stata critica con questa visione ma ora che mi sto occupando di problemi relativi al rapporto tra diritti umani e politiche economiche devo dire che questo non è un punto da sottovalutare.

A mio parere il motivo per il quale le teorie sulla giustizia distribuitiva non pongono attenzione a questi problemi è perchè c’è un deficit democratico al loro interno (… there is a democratic deficit in those theories). Pogge è un mio collega di Yale, siamo entrambi kantiani, cosmopoliti e proveniamo dalla medesima tradizione storico-filosofica. Ci siamo posti la domanda di quali fossero le differenze tra giustizia distributiva, questioni di cittadinanza, immigrazione e diritti umani. Recentemente stiamo avendo un buon dialogo tant’è che durante il seminario “Habermas and Rawls on Justice and Politics”, che nella primavera 2014 abbiamo tenuto insieme, divesri studenti ci hanno chiesto: «Quali sono le differenze tra di voi?».

Più recentemente Pogge sta discutendo i termini dell’ordine internazionale dei diriti umani e di come questo stia fallendo nel tentativo di rimanere all’altezza dei propri obiettivi. Questo è un punto di vista metodologico diverso rispetto alla questione astratta della giustizia globale distribuitiva[7], che a mio parere perseguiva in passato. Dalle conclusioni di questo corso è venuto fuori che, secondo Pogge, è fondamentale realizzare l’oggetto di un determinato diritto: se realizzi l’oggetto del tuo diritto (salute, educazione, standard di vita) hai raggiunto il tuo scopo. La procedura di giustificazione attraverso la quale si è legittimati ad averne diritto è, per Pogge, secondaria. A mio parere, al contrario, i diritti rientrano all’interno di un processo di legittimazione democratica. Infatti non vi è certezza di realizzare l’oggetto del diritto se non vi è una procedura stabilita di legittimazione (If you don’t have established procedure of legitimization, the object of the right is not secure). Questi temi sono l’oggetto del mio confronto con Pogge e hanno contribuito a spostare la mia attenzione sul rapporto tra diritti e legittimità[8].

 

Domanda 4

There is an increasing influence of international economic organizations (G20, IMF, WTO, OECD) that, in the global economy, are creating, on the one hand, a system of interdependencies, on the other hand, are developing  a model of global decision that affects the national policies. The paradox is that, while they are not organs of democratic representation, these international organizations are taking decisions that make them responsible in the eyes of the voters of those governments, democratically elected, that instead are abdicating their decision-making role. How can we read this paradox? Have we to consider them as new supranational entities in a cosmopolitan perspective that goes beyond the simple system of cooperation and assistance advocated by Rawls? While distinguishing the responsibilities and moral principles of distributive justice from the international organizations that deal with global justice, Beitz continues to believe that, for an equitable distribution of wealth, you cannot simply translate the model and processes of the national society into some international institutions. Do you agree with this interpretation?

Assistiamo a una crescente influenza delle Organizzazioni economiche internazionali (G20, FMI, WTO, OCSE) che, all’interno dell’economia mondiale, stanno creando, da un lato, un sistema di interdipendenze significative per avviare processi distributivi, dall’altro sviluppano un modello di decisione globale che ricade sui singoli paesi. Il paradosso è che, pur non essendo organi di rappresentanza democratica, tali organizzazioni internazionali stanno assumendo decisioni che le rendono responsabili agli occhi degli elettori di quei governi, democraticamente eletti, che invece stanno abdicando al loro ruolo decisionale. Come leggere questo processo? Si tratta di nuove entità sovranazionali in una prospettiva cosmopolitica che va oltre il semplice sistema di cooperazione e assistenza auspicato da Rawls? Pur distinguendo le responsabilità e i principi morali (moral principles) della giustizia redistributiva dalle organizzazioni internazionali che si occupano di giustizia globale, Beitz continua a credere che, per un’equa distribuzione delle ricchezze, non è possibile traslare semplicemente il modello e i processi della società nazionale alle istituzioni internazionali. Concorda con questa lettura?

Queste sono questioni assolutamente cruciali e in questa conferenza inaugurale dell’International Society of Public Law (ICON-S), cui ho partecipato in questi giorni a Firenze, quello delle organizzazioni internazionali è stato uno dei temi in discussione insieme alla riflessione su come sta cambiando il modo di intendere lo studio e la ricerca sociologica nel mondo globale.

Negli ultimi anni molti studiosi, filosofi ed esperti di politica internazionale stanno provando a capire la natura di tutte le organizzazioni internazionali. Da un punto di vista legale le possiamo semplicemente inquadrare come entità che hanno un’autorità delegata (… is simply to say these organizations have delegated authorities). Infatti potremmo affermare che di per sé esse non hanno alcuna autorità (… they don’t have authority by themselves) e sono delegate dagli Stati membri che appartengono a quella data organizzazione. Ad esempio non tutti gli stati del mondo sono membri del WTO o dell’IMF. Perciò tutto si regge su un semplice modello di delega (… simple model of delegation). Ma ciò che sta accadendo è che una volta che queste organizzazioni si sono messe in movimento, sviluppano una loro vita propria e il loro modo di procedere (pareri, direttive, atti di indirizzo) così come il potere che esercitano va ben oltre i trattati che le hanno istituite e lo stesso principio di delega che vi era sotteso (… they develop a life of their own. And that what they do, the power they exercise goes well beyond the treaties the delegation model that established them). Per cui viene sollevato il problema della trasparenza e della responsabilità democratica (… so arises the question of democratic accountability and transparency). Il problema è il seguente: chi ha dato loro il potere e per fare cosa? Qual è l’interesse degli stati a istituire queste organizzazioni? Sono quesiti che rimandano a problemi complessi e che i governi democratici devono affrontare. C’è un senso e ci sono persone dietro queste decisioni. Tali istituzioni e apparati burocratici non stanno spuntando dal nulla. Gli stessi Stati nazionali le hanno istituite e, allo stesso tempo, stanno delegando alcuni dei loro più importanti poteri istituzionali. C’è un grande dibattito su questo punto e per molti studiosi anche l’Unione Europea è messa sullo stesso piano di queste organizzazioni. A mio parere, c’è un’enorme differenza basata sul fatto che l’U.E. è un’entità fondata su un trattato costituzionale che la identifica e la inquadra all’interno di confini ben precisi. Al contrario il WTO e il FMI non rappresentano il mondo intero. Nel primo caso si tratta di un trattato costituzionale, nel secondo di un accordo commerciale.

Ritengo che questa contrapposizione ponga seri problemi per i governi democratici, (I think this really poses big problems for democratic governments,) perché, come hai giustamente puntualizzato, e io sono completamente d’accordo con te (completely agree with you), c’è una fondamentale simmetria e consequenzialità nell’azione di questi “organismi” che, quando applicano la delega ricevuta, fanno inevitabilmente ricadere le decisioni sui singoli paesi.

E credo che il pericolo vero di queste istituzioni, definite istituzioni della “governance” globale (global governance institutions), risieda nel fatto che non sono istituzioni realmente cosmopolite. Né queste corrispondono ad una sorta di “repubblica dell’uguaglianza” dove le priorità dovrebbero essere: diritti umani, pari opportunità, equità e interesse di tutti. Al contrario vi è sempre una maggiore disparità tra i principi democratici di responsabilità, che dovrebbero guidare le loro decisioni, e l’impatto di queste sulle democrazie. È questo uno dei problemi più difficili di cui ancora non si è presa coscienza a livello internazionale e che ancora non si è del tutto manifestato .

C’è una vasta letteratura sull’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization) circa le sue procedure e i suoi pareri sulle linee guida economico-commerciali dei singoli stati e degli organismi istituzionali. Allo stesso tempo c’è anche una letteratura che cerca di dimostrare come il WTO stia cercando di introdurre un maggior grado di riflessione e una maggiore responsabilità nelle sue stesse decisioni. Pertanto la domanda fondamentale è: come possiamo considerare e pensare il processo di democratizzazione di queste istituzioni di “governance” globale? Quale modello potremmo utilizzare?

Io ritengo, e su questo ho appena finito di scrivere un articolo che sta per essere pubblicato[9] e che qui ti anticipo, che il modello classico di democrazia classica che ci proviene da Rousseau si basa sul modello della paternità (authorship), ovvero, io sono l’autore delle leggi che sono promulgate nel mio nome e avendole io autorizzate me ne assumo la responsabilità delle conseguenze.

Questo è l’aspetto utopistico (fiction) dei governi democratici che operano per il popolo, in nome del popolo, attraverso il popolo. Questa è l’essenza delle costituzioni repubblicane e democratiche. Le istituzioni della “governance” globale non potranno mai soddisfare tale modello (These global governance institutions can never meet that model). Pertanto il dilemma è: se queste istituzioni non sono rappresentative delle persone, dobbiamo rinunciare ai nostri ideali democratici? Oppure dobbiamo sottoporle a procedure di democratizzazione? Io credo che dobbiamo perseguire quest’ultima ipotesi. Queste istituzioni non sono istituzioni democratice ma possiamo sottoporle a tale processo. In un certo qual modo possiamo metterle continuamente sotto pressione. Questa è una battaglia prettamente politca perché l’IMF così come il WTO si opporranno sempre più a questi cambiamenti sostenendo che loro hanno le proprie regole e soprattutto i grandi capitali finanziari. Io ho la speranza che qualcosa possa cambiare e a volte possono verificarsi dei paradossi positivi. È il caso, e la cosa mi ha molto stupito, della Cina che, dopo molte insistenze, è diventata membro del WTO. In cambio la grande potenza economica asiatica ha dovuto promettere che avrebbe riconosciuto il diritto a libere organizzazioni sindacali (… permit free union organization rights). Non è rivoluzionario pensare che in Cina possano nascere e affermarsi organizzazioni sindacali (Trade Unions)? Ed è ancora più sorprendente che mentre in Cina i movimenti dei lavoratori si stanno sempre più affermando, negli U.S.A. solo 8% della popolazione è iscritta ad un sindacato.

Pertanto sono completamente d’accordo con te: queste istituzioni pur non essendo democratiche, stanno assumendo decisioni che, non solo hanno concrete conseguenze sulla vita democratica dei singoli paesi (e il caso cinese ne è un esempio) ma influenzano l’opinione pubblica circa la comprensione dello spirito democratico (… so I completely agree with you: these institutions are not democratic … and they are impacting the self-understanding of democracy). Se i governi democratici non faranno pressione perché queste organizzazioni manifestino più trasparenza e responsabilità per le decisioni che prendono il rischio concreto, come tu hai osservato, è che realmente i governi, democraticamente eletti, rinuncino al loro ruolo decisionale. È una lotta (It’s a struggle) e i risultati non si otterranno così facilmente.

Non sono d’accordo con Charles Beitz quando sostiene che “non possiamo semplicemente trasferire il modello e il processo democratico delle società nazionali all’interno di queste istituzioni internazionali”. Ciò effettivamente non è possibile. Ma dobbiamo stare attenti alle diverse soluzioni di questo problema che vengono da più parti. Ci sono infatti diverse scuole di pensiero: c’è chi ritiene che si potrebbero avere dei rappresentanti del popolo all’interno di tutte queste istituzioni; oppure rappresentanti della società civile (civilian representatives); o  rappresentanti pubblici (public representatives). In definitiva aprire queste istituzioni alla società civile che dall’interno possa, in qualche modo, esercitare un controllo. Questo infatti non può essere esercitato solo dagli Stati e dalle organizzazioni private che finanziano queste istituzioni ma dovrebbero essere presenti anche gruppi della società civile che rappresentano i vari interessi.

Un’altra istituzione di cui si è molto discusso è l’European Ombudsman (il mediatore europeo dei diritti) al quale i cittadini possono rivolgersi direttamente per segnalare violazioni dei diritti umani[10].  Coloro che non possono avere un rappresentante legale sono tutelati da questa figura istituzionale che è deputata a difendere i diritti dei più deboli e ha il potere di supervisore e di giudice.  Al Mediatore o difensore civico (Ombudsman) sono rivolte le denunce relative ai casi di cattiva amministrazione che coinvolgono istituzioni e organismi dell’Unione europea. È una istituzione pubblica (public persona) direttamente responsabile nei confronti delle persone e della società civile e non difende gli interessi delle singole organizzazioni (responsible to the public, not to the interests, not to the organizations’ interests). Sto menzionando questo istituto europeo perchè quando la gente pensa a queste istituzioni internazionali vorrebbe una maggiore responsabilità pubblica e una maggiore sensibilità nei confronti di tutti i cittadini e non solo tutelare gli interessi di una parte di essi.

 

Domanda 5

Can we think about implementing democratic forms of iteration within the institutions and the legal and regulatory framework on a global scale, starting not only by the “others” (e.g. the girls involved in the affaire du voile in France)butalso from the subjects belonging to the stratified contexts produced by the governance? How do you respondto criticismin its workaccording to which thetestoccurringprocessesofdemocraticiterationis carried out bya limited number ofempirical casesthat are only foundinsome individualcountries?

È possibile mettere in atto forme di iterazione democratica all’interno delle istituzioni e del contesto giuridico-normativo, nel quadro su scala globale, a partire non solo da soggetti “diversi” (vedi le ragazze islamiche coinvolte nell’affaire du foulard in Francia) ma da protagonisti appartenenti a contesti stratificati e complessi di governance? Come risponde ad alcune critiche ai suoi lavori secondo le quali la prova che si verificano i processi di iterazione democratica è affidata ad un numero limitato di casi empirici che si riscontrano solo all’interno di alcuni singoli paesi?

Rispondo subito alla seconda parte della domanda dicendo che le iterazioni democratiche non sono circoscritti necessariamente alla situazione politico-culturale di un singolo paese. Ritengo infatti che la nostra lettura di tali processi debba acquisire un carattere transnazionale. Questi processi infatti rappresentano grandi discussioni, e danno adito a molte interpretazioni. Oltre al caso della Costituzione tunisina è interessante analizzare, come esporrò brevemente più avanti, il caso delle industrie che lavorano il legno in Cile per conto di grandi multinazionali. Quest’ultimo è l’esempio empirico sul quale sto lavorando in questo momento. Il mio obiettivo è dimostrare, attraverso questo caso, come norme sindacali internazionali sono riuscite a entrare all’interno di una “governance” democratica di un singolo paese e permettere che minoranze (come in questo caso la minoranza degli indiani Mapuchi) possano costituire proprie organizzazioni e avere propri rappresentanti sindacali. Questo è un processo di iterazione democratica transnazionale.

Passando alla prima parte della domanda posso dire che effettivamente la tua osservazione è corretta. Infatti è proprio all’interno di queste forme stratificate di “governi multipli” (multiple governments) che le iterazioni democratiche diventano fondamentali. Questo perché in tale processo c’è un certo dare/avere e conosciamo bene come le norme generali necessitano di un’interpretazione, una contestualizzazione e di una reciprocità (mutually). In questo ambito il diritto ci fornisce un interessante esempio. Infatti da diverso tempo la mia riflessione si sta concentrando sempre più sull’interpretazione delle leggi internazionali che secondo il mio punto di vista è lo strumento paradigmatico attraverso cui il processo iterativo sta giocando un ruolo molto importante[11].

Come si concretizza tutto ciò? Per fare anche qui un esempio istituzionale che fa parte delle mie riflessioni possiamo fare riferimento alla Convenzione sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW)[12], è una delle convenzioni di maggior successo perché se pensiamo che su 193 stati membri nelle Nazioni Unite[13], (compresi i 2 stati osservatori: Santa Sede e Palestina, quest’ultimo dal 2012), sono 186 gli Stati firmatari del CEDAW[14]. Essere uno stato firmatario significa accettare obblighi ben precisi tra i quali quello di presentare una carta dei diritti umani e più precisamente un resoconto di quelli che sono i diritti delle donne in quel paese, i gruppi che controllano il rispetto di tali diritti e diversi altri gruppi della società civile che scelgono nelle proprie comunità coloro che hanno la facoltà di azione per i diritti delle donne.

Recentemente in Egitto ed in Tunisia si è aperto un dibattito  sui diritti delle donne in rapporto alla legge della Sharia. In particolare i partiti musulmani hanno proposto di uscire dal CEDAW, ma non è così semplice uscire da un accordo internazionale. È possibile, ma c’è un prezzo da pagare perché ci possono essere delle reazioni negative da parte della società civile come il boicottaggio da parte delle organizzazioni femminili e di altre organizzazioni internazionali.

C’è un grande dibattito internazionale. Ma mentre in Egitto questo movimento non ha avuto molto successo a causa delle complicazioni politiche, in Tunisia c’è stato una re-interpretazione (re-interpretation). In un certo senso si è verificata una iterazione democratica da parte di alcune donne musulmane che hanno sostenuto che l’interpretazione che si è data della parità, così come è prescritta dalla Convenzione CEDAW, non è la completa uguaglianza di uomini e donne. Ciò che loro richiedono è il principio di complementarità (“We want complementarity”). Ciò vuol dire che il rispetto potrà essere assicurato solo se i compiti e la distribuzione delle mansioni e dei diritti tra uomini e donne sarà fondata su un rapporto reciproco.

Hanno così iniziato a sostenere un tipo di posizione di complementarità o differenza e, ironia della sorte, sono gli stessi dibattiti che hanno coinvolto la mia generazione di femministe tra uguaglianza e differenza (egalité et difference). Nell’uguaglianza c’è il diritto alla differenza e questo dibattito è stato sentito oltre che in Francia anche in Italia. Pertanto la richiesta di queste associazioni di donne musulmane è stata: «non usciamo dal CEDAW. Ci interessa rimanere nel CEDAW, ma vogliamo dare una nostra re-interpretazione anche se il posto della donna vogliamo che rimanga sempre in casa con il compito di accudire i figli ecc.». Chiaramente ciò ha portato ad un grande dibattito che ho seguito con interesse. Alla fine tutte le diverse parti in campo hanno trovato l’accordo su questo punto: viene definitivamente posta la parola fine alle rivendicazioni dell’uguaglianza delle donne (… all parties agreed to an intensive close of women’s equality) perché nella nuova Costituzione[15], che è stata approvata a gennaio 2014, i diritti delle donne non sono limitati come previsto dalla legge della Sharia[16]. Questo, per me, rappresenta un bellissimo esempio di un processo democratico iterato (This is a wonderful example, for me, of a democratic iterated process). Potremmo affermare che lo spirito della Legge della Sharia è cambiata senza cambiare la Legge.

Devo far notare che, tra le diverse parti in campo nella discussione tunisina, una grande influenza l’ha avuta la Francia ed in particolare alcune organizzazioni femminili tra cui la Societé des femmes musliment. Questa interazione tra associazioni di paesi diversi per una causa comune ci mostra come il processo di iterazione democratica sia diventato transnazionale. Si tratta realmente di un aspetto che attraversa e coinvolge nazioni diverse che, apparentemente, hanno poco in comune. È questo il tema principale del mio prossimo libro che molto probabilmente sarà pubblicato nel 2015. Il mio lavoro si sta concentrando sempre più sulla transnazionalità dei processi democratici iterati (… this is what my work – my next book – is focusing on the transnationality: the transnationality of the democratic iterated process)[17]. Già nel mio ultimo Dignity in Adversity (Polity, 2011) c’è un Capitolo su questo argomento: Claiming Rights across Borders – International Human Rights and Democratic Sovereignty.

Il mio maggiore interesse per i cambiamenti avvenuti in Tunisia è fondato sul fatto che ci troviamo di fronte ad un caso singolare: la conversione (o rivoluzione) sui diritti delle donne musulmane non è solo il frutto di un processo transnazionale ma, contemporaneamente, l’esito di una decisione parlamentare o, per essere più precisi, di un’Assemblea Costituente.

In particolare l’articolo 45 della nuova Costituzione dispone inoltre che «lo Stato garantisce i diritti acquisiti dalle donne e lavora per sostenerli e svilupparli». Inoltre si sottolinea che «lo Stato garantisce le pari opportunità tra donne e uomini e provvede a eliminare la violenza contro le donne»[18].

Vorrei però osservare che non ci sono garanzie nella storia. La storia è sempre piena di imprevisti e accidenti e seppur contagiosa non sempre le cose vanno come era nelle intenzioni, un esempio è il processo democratico egiziano che si quasi del tutto arrestato. In ogni caso il processo democratico tunisino è un esempio di iterazione che è partita dal basso, ed in particolare dalle donne che sono riuscite nel loro intento di avviare un vero processo di inclusione democratica, sino ad arrivare ad una Costituzione scritta.

Vorrei ora segnalarti un altro esempio di processo di iterazione democratica transnazionale che è oggetto di un mio attuale lavoro. Se analizziamo le diverse situazioni internazionali ci accorgiamo che queste condizioni sono sempre più numerose. Un paio di anni fa mi trovavo in Cile dove l’industria del legno è molto sviluppata[19]. C’è una specifica normativa in materia di assunzioni e l’organizzazione sindacale internazionale ha stipulato uno specifico contratto per tutti i paesi (come il Canada) che hanno rapporti di lavoro con il Cile e, allo stesso tempo, hanno stabilito che quando lavorano il legname nelle foreste devono rispettare i diritti delle popolazioni indigene.

Gli accordi di ordine socio-economico a livello internazionali hanno positive ricadute all’interno delle comunità nazionali ed “ironia della sorte” (ironically) in particolare per quelle minoranze che fino a quel momento non avevano visto riconosciuti i propri diritti socio-culturali. Infatti in Cile c’è una minoranza indiana, la popolazione dei Mapuchi[20] che vive tra il sud del Cile e l’Argentina e che da sempre si batte per la difesa delle proprie radici ed in particolare contro le multinazionali che operano e sfruttano le risorse naturali (legno e minerali) di cui è ricco il proprio territorio. Il paradosso è stato che proprio le norme internazionali stipulate dalle multinazionali per tutelare le assunzioni dei lavoratori del legno stanno di fatto permettendo agli indiani Mapuchi di costituire proprie organizzazioni e avere propri rappresentanti sindacali. Qualcosa di inconcepibile fino a qualche tempo fa viste le vessazioni che la comunità ha subito sin dai tempi dell’Impero Inca e dei “conquistadores” spagnoli che volevano assoggettarli. Il processo che ha portato all’interno di una “governance” democratica una norma transnazionale è stato alquanto inaspettato e strano.

Questo è il motivo per il quale l’iterazione democratica è un concetto fondamentale che ci può aiutare a capire molto riguardo a questi aspetti di politica transnazionale. La domanda che ci dobbiamo porre è se questi processi sono sempre democratici. Cosa c’è di democratico all’interno delle leggi in materia di assunzioni e all’interno delle organizzazioni liberali internazionali? Dov’è l’aspetto democratico?

Ho ricevuto diverse critiche su questo punto. In particolare secondo alcuni all’interno del caso empirico, è possibile riscontrare solo un ottimo esempio di “cosa può rendere democratico un paese” (what makes democratic a nation). Io ritengo invece che si debbano cercare le caratteristiche formali di un tale processo democratico (you have to look at the formal features of the process).

Infatti potrei sintetizzare la mia risposta a queste obiezioni elencando almeno tre criteri formalmente validi secondo cui possiamo ritenere epistemologicamente fondato un processo democratico:

a) un processo democratico è tale se sono inclusi (are included) gli interessi di tutti coloro che sono coinvolti. Chi sono tutti coloro i cui interessi sono colpiti da un processo democratico? Questo fa parte dello scontro politico attraverso lo strumento del dialogo. Ma non possiamo sapere prima chi è coinvolto perché questo è un principio. Chiunque può dire “i miei interessi sono colpiti (my interests are affected) posso pertanto avviare un giusto processo democratico”;

b) nell’includere tutti coloro che sono coinvolti nel processo si determina una uguaglianza formale o parità formale (formal equality) di tutti i partecipanti. La maggior parte della filosofia politica sulla normativa dei lavoratori riguarda l’interpretazione del significato dell’uguaglianza formale. Anche se sarà difficile qualsiasi tipo di accordo, è un principio di cui abbiamo bisogno altrimenti sarà difficile anche sederci ad un tavolo di trattativa (there is a lot of discussion);

c) il terzo criterio prevede l’uguaglianza (pari opportunità) nello stabilire l’agenda, vale a dire un preciso ordine del giorno delle discussioni. Ciò vale a qualsiasi livello da quello universitario sino a livello internazionale (WTO, G20, ecc.). Questo è un aspetto estremamente importante: tutti hanno diritto ad avanzare proposte e a decidere gli argomenti sui quali prendere decisioni per poterli inserire nell’agenda delle discussioni. Non è un privilegio per coloro che sono già al tavolo delle trattative. Probabilmente potremmo trovarne altri ma questi, per me, sono tre criteri fondamentali per capire se un processo democratico si possa definire realmente tale. Qualcuno potrebbe obiettare: “come possiamo essere sicuri che si è di fronte ad una uguaglianza formale?”. Ritengo che dobbiamo imparare a guardarci dentro e far trasparire fuori quell’equilibrio che abbiamo dentro di noi e che Rawls ha definito “equilibrio riflessivo” (reflected equilibrium)[21]. Quando si comincia una discussione politica ciascuno può apportare il suo contributo, nessuno, dal punto di vista morale, è una tabula rasa. Tutti siamo, prima che cittadini, individui (questo principio vale anche per coloro che sono tagliati fuori dalla cittadinanza) e tutti abbiamo il dovere di contribuire al processo di modernizzazione globale ed esserne soggetti attivi. L’equilibrio riflessivo è lo stato di equilibrio e di coerenza frutto di un processo deliberativo attraverso il quale si è raggiunta una regolamentazione reciproca tra principi generali e giudizi Il senso di giustizia degli esseri umani è per Rawls, ed io sono pienamente d’accordo con lui, alla base del giudizio morale e delle motivazioni morali che ci spingono a prendere decisioni: un insieme di credenze morali all’interno di un equilibrio riflessivo ideale caratterizza i principi che sono a fondamento del nostro senso umano di giustizia (… a set of moral beliefs in ideal reflective equilibrium describes or characterizes the underlying principles of the human sense of justice).

Facciamo parte di questo processo di modernità globale e abbiamo il dovere di conciliare le nostre intuizioni sui principi di uguaglianza e libertà con quelle dei nostri interlocutori.

I tre criteri che io sostengo rientrano in questa prospettiva e sono lo strumento di giustificazione del processo di equità che, perché ciò di cui parliamo non resti solo una teoria sociologica o un paradigma di scienze politiche, sfocia in processi democratici transnazionali.

 

Domanda 6

Can we say that the processes of democratic iteration and jurisgenerativity can be understood as the contextualization of the (claims) universal rights claims?

A tal proposito possiamo affermare che i processi di iterazione democratica e giusgenerativi possono essere intesi come la contestualizzazione delle rivendicazioni dei diritti universali?

Bene questo è precisamente ciò che io intendo con processo democratico. Sto cercando, nei miei lavori, di trovare una risposta al dilemma di una universalità che non viene vista come concreta. Nei processi iterativi si raggiunge, a mio parere, la sintesi tra ciò che è astratto e ciò che è concreto. È un processo di mediazione e re-interpretazione che intendo utilizzare quando penso alle norme universali che necessitano di essere interpretate, contestualizzate e ri-collocate nuovamente (… universal norms that need to be reinterpreted, recontextualized and resituated). Ciò vale sia per la filosofia morale che per la filosofia politica. I principi morali che guidano le mie azioni valgono come leggi universali per tutti. Ma come è possibile che i principi che guidano le mie azioni diventino una legge universale per tutti? Io sto adottando un principio universale? Come devo intendere questa posizione? Supponiamo che io insulti qualcuno alla presenza dei componenti della sua famiglia. Dovrei cominciare a domandarmi: come mi sentirei se mi mettessi nei suoi panni? È giusto comportarsi in questo modo? Questo è ciò che io definisco “contestualizzazione” (contextualization). È un semplice principio che deve essere adottato se vogliamo definire le nostre azioni moralmente giuste. Ma capisco che non sia facile soprattutto a livello di conflitti internazionali. Ciò che a me interessa è il principio teorico: “come mi devo comportare quando c’è un conflitto tra i propri interessi e la legge universale”?. Per quanto mi riguarda il punto di partenza è la filosofia morale. Supponiamo che accetti le leggi morali come principio delle mie azioni. Come mi comporto e cosa faccio esattamente? È questo il senso ultimo della critica kantiana.

Vorrei sottoporre alla tua attenzione la figura di Stanley Cavell, un filosofo e intellettuale statunitense molto interessante e che io ammiro. Alcuni saggi di Stanley Cavell su questo argomento mi hanno impressionato profondamente. La questione della contestualizzazione è alla base di questi scritti. Si tratta di un problema epistemologico basato sull’identificazione del particolare. Ma come lo identifico? È un problema simile a quello posto dalla filosofia morale ed in particolare per quanto riguarda la contestualizzazione dei principi di giustizia. C’è bisogno di un procedimento metodologico. Per certi versi ci ricolleghiamo alla domanda iniziale su Iris Marion Young. Accetto sia il contestualismo che la narrativa e non li vedo in contrasto con una procedura metodologica. Il proceduralismo deve aprirsi a questa problematica del contesto (… proceduralism has to open itself to this problematic of the context). O, se si vuole, è anche una questione di valutazione. Non si tratta solo di riconoscere un principio ma di porre attenzione ad un  discorso valutativo e in politica la valutazione è sempre un tema assolutamente cruciale nella mediazione tra l’universale ed il particolare (… in politics judgment is always absolutely crucial in mediating the universal and the particular).

 

Domanda 7

[Pubblicata il 10 febbraio 2015 sul sito della Rivista on-line “Reset-DOC” (Dialogues on Civilizations): http://www.reset.it/reset-doc/giustizia-e-pari-diritti-nella-diversita-vi-racconto-il-mio-cosmopolitismo]

 

Liberal democracies are built on the “tension” between the claims for human rights and the principle of sovereignty. This affects the self-definition and self-constitution of any political system. The paradox of democratic legitimacy (to which you refer in your work) summarizes this “double bind” or “constitutive dilemma”. How can we overcome it, so to live together respecting both the human fundamental rights and collective self-determination? And how can we reply to those authors (including Michael Walzer) who, in considering the issues of belonging and justice, reflect on this paradox without taking into account the human rights standards?

 

Le democrazie liberali sono edificate sulla “tensione” tra le rivendicazioni dei diritti umani e il principio di sovranità. Ciò condiziona l’autodefinizione e l’autocostituzione di qualsiasi sistema politico. Il paradosso della legittimità democratica (cui lei fa riferimento nella sua opera) sintetizza bene questo “duplice vincolo” o “dilemma costitutivo”. Come lo si può superare in maniera tale da poter far convivere insieme rispetto per i diritti e autodeterminazione collettiva? E come risponde ai suoi interlocutori (tra cui Michael Walzer) i quali nell’affrontare i problemi dell’appartenenza e della giustizia, riflettono su questo paradosso senza prendere in considerazione le norme sui diritti umani?

In Sfere di giustizia (1983) Michael Walzer sostiene che il diritto all’autodeterminazione sia per lui fondamentale e che gli obblighi verso gli stranieri e gli altri siano più che altro obblighi morali e non ritiene di interpretarli come obblighi giuridici. L’unica argomentazione che sostiene e che “se ci sono stranieri all’interno di una comunità non è possibile concedere loro il permesso di cittadinanza come accadeva nel sistema ellenico”. Egli scopre che siamo di fronte d una democrazia difficile (tight democratic): le sue argomentazioni non si fondano sui diritti ma afferiscono alla comprensione del Sé e dell’istituzione democratica più in generale.

Bene, per rispondere alla tua domanda posso dire che per me la tensione costitutiva di ogni democrazia parte con l’affermare che “noi siamo una repubblica e vogliamo garantire a vicenda uguaglianza e liberta”. Questa è la struttura universale delle costituzioni (… this is the universal structure of constitutions).

Anche se le costituzioni sono diverse le costituzioni di Stati Uniti, Italia, così come quella dell’Unione Europea hanno in comune gli stessi diritti. Le diverse entità statali sono unite e costituite nel nome di tali diritti. Questa è la grammatica e la sintassi del costituzionalismo democratico dei diritti (… this is the grammar and the syntax of democratic constitutionalism right).

La democrazia è solo e semplicemente il popolo. L’organizzazione del popolo rientra nella stuttura dell’autogoverno. Ed è all’interno di questa stessa struttura che troviamo rivendicazioni di inclusione ed esclusione. Universalità e autogoverno, credo che in questi due concetti dobbiamo indagare e studiare la natura di questo paradosso. È una vera esperienza politca, una continua esperienza politca che a volte rischiamo di dimenticare perché il nazionalismo tenta nascondercelo.

Nel tempo la filosofia politica ha dimenticato di porsi domande sul diritto acquisito di autodefinizione di popolo e, allo stesso tempo, ha messo da parte gli interrogativi e la riflessione su chi è dentro e chi è fuori dai diritti di cittadinanza. Inoltre è diventata cieca confondendo l’ethnos con il demos. Ma l’ethnos e il demos sono in una costante e perpetua lotta collettiva dove la definizione, la narrazione e l’auto-costituzione della nazione fanno parte della lotta democratica[22]. I confini del demos sono sempre diversi dai confini storici e geografici, questi sono accidentali e dipendono dalle guerre, dai commerci, dalle mutate relazioni internazionali.

In un mio saggio di alcuni anni fa, Sexual Difference and Collective IdentitiesThe New Global Constellation (1999), ho affermato che il postmodernismo ha segnato la fine della storia intesa come un processo continuo, progressivo e coerente e ha creato per l’uomo una frattura senza punti di riferimento. Inoltre ha sbandierato la fine della filosofia e del dominio delle narrative di giustificazione e legittimazione (… trumpeted the end of philosophy and of master narratives of justification and legitimation).

Non sono solo i paesi coinvolti negli arrivi dei migranti ad avere questo tipo di problema. Per tutti gli anni ’90 dello scorso secolo, e sino ai primi anni del 2000, in molte democrazie non erano tagliati fuori dalla cittadinanza solo coloro che appartenevano ad altre religioni o avevano il colore della pelle diverso ma anche coloro che pur appartenendo alla comunità non avevano sufficienti risorse economiche. Pertanto l’aspetto più importante della lotta democratica è sempre correlato al tema del significato di cittadinanza e dello sviluppo dei diritti che ne derivano. La legittimità democratica è il frutto di uno scontro, di una lotta per i diritti di cittadinanza, di voto, per la piena partecipazione. In passato questi problemi li abbiamo dimenticati per un lungo periodo, poi da circa 20/30 anni a questa parte il tema della globalizzazione ha coinvolto il problema democratico e ci ha resi di nuovo consapevoli. Non ritroviamo gli stessi problemi anche, per esempio, nelle antiche e lunghe Repubbliche fiorentina (1115-1532 circa) e genovese (1096-1797).

 

Domanda 8

In your view, identity is a relational self, who is discursively open  to the dialogue and therefore is able, through arguments, to test his/her ideas and values and to explain his/her moral behavior of meaning. In this relationship with otherness where the individual is placed in a “horizon of meaning”, I think there is a contiguity with Paul Ricoeur’s concept of narrative identity. What is, if it were, your relation to the French philosopher?

Nel suo pensiero il concetto di identità si impone come un sé relazionale che, all’interno del discorso, apre, sia ad una percezione dell’individuo come un essere capace di interlocuzione, sia, all’interno del dialogo, riesce a mettere alla prova della sfera pubblica le sue idee, i suoi valori e, attraverso la descrizione argomentativa, la spiegazione morale dei suoi comportamenti. In questo rapporto con l’alterità dove l’individuo è posto di fronte ad un “orizzonte di senso” da interpretare e “risignificare narrativamente”, mi sembra si poter leggere una certa contiguità con il concetto di identità narrativa di Paul Ricoeur. Se la sua riflessione è stata influenzata dal filosofo francese, quali sono i vostri punti di contatto più profondi?

Questa è una domanda eccellente. Sono stata infatti molto influenzata da uno degli ultimi lavori di Paul Ricoeur sulla filosofia freudiana: Della interpretazione – Saggio su Freud (2002) e ho sempre pensato che il filosofo francese contemporaneo avesse un eccellente approccio logico con il pensiero di Hegel. Il suo testo Sé come un altro (1990)[23] è molto importante per la distinzione tra l’io e l’altro che bisognerebbe approfondire per capire le relazioni con gli altri lontani, gli altri stranieri del sud del mondo. È nella relazione che il soggetto comprende il Sé e la dimensione del diverso da me. Allo stesso tempo attua una delle sue proprie capacità quella del raccontare e del raccontarsi.

Assolutamente dobbiamo dare valore ai rapporti di identità costituzionale ma, allo stesso tempo, dobbiamo capire che c’è un momento particolare nel quale l’aspetto delle relazioni deve essere esaltato. Credo che Ricoeur abbia messo in risalto questo aspetto abbastanza bene. E ritengo che attraverso il suo discorso narrativo il soggetto esca dalla sua limitata esperienza trascendentale e si proietti nella conoscenza delle molteplici forme esistenziali che riguardano il diverso da noi.

Per quanto mi riguarda non ho ancora lavorato sul pensiero di Ricoeur come avrei dovuto, è un obiettivo che mi voglio prefiggere per il prossimo futuro. Stavo infatti pensando, tempo fa, di organizzare un seminario sul suo pensiero con i miei studenti già laureati.

Riconosco pertanto che non posso darti una risposta esaustiva perché non ho potuto ancora approfondire i suoi ultimi lavori. Ma tu hai ragione nel dire che c’è grande affinità tra il mio modo di intendere il rapporto con l’altro, la consapevolezza dell’alterità degli altri e la teoria narrativa e il Sé narrativo dell’ultimo Ricoeur.

 

Domanda 9

[Pubblicata il 10 febbraio 2015 sul sito della Rivista on-line “Reset-DOC” (Dialogues on Civilizations):
http://www.reset.it/reset-doc/giustizia-e-pari-diritti-nella-diversita-vi-racconto-il-mio-cosmopolitismo]

 

Equal rights in diversity, in this way we can summarizes your views about a federal cosmopolitanism aiming to a global justice. According to Fred Dallmayr (Varieties of cosmopolitanism, 2011)

«As in any city, members of cosmopolis must be able to claim the status of citizen irrespective of their economic, ethnic, or religious background; differently put: they must enjoy a qualitative (or normative) equality, especially in and before the law». If the recognition of differences does not mean dismantling the regulatory system connected to the status of citizenship, don’t  you think that we risk to establish a sort of “multilayer citizenship”,  where individuals are, at the same time, citizens of a city and of the cosmopolis, so to say? On the other hand, in thinking according to cosmopolitanism  as the first and fundamental dimension – especially the so-called democratic cosmopolitanism –  don’t we risk to assimilate the different of cultural traditions, identities and social diversities,  and therefore dismiss a concrete recognition of differences?

 

Pari diritti nella diversità, si potrebbe sintetizzare così il suo cosmopolitismo federale che ha come obiettivo il raggiungimento di una giustizia globale. Secondo Fred Dallmayr (Varieties of cosmopolitanism – 2011)

«In ogni città, i membri “cosmopoliti” devono essere in grado di rivendicare lo status di cittadino a prescindere dalle loro condizioni economiche, la loro etnia o il loro credo religioso. Con tutte le loro differenze essi hanno il dovere di godere di una parità qualitativa e normativa, in particolare di fronte alla legge».

Se il riconoscimento delle differenze non vuol dire smantellare un sistema normativo nel quale si innesta lo statuto della cittadinanza, non crede che il rischio potrebbe essere quello che si verifichi una cittadinanza a strati o “multipla” in cui gli individui sono sia cittadini di una particolare città che cittadini cosmopoliti? Con il cosmopolitismo (ed in particolare con il cosiddetto cosmopolitismo democratico) non c’è il rischio di un appiattimento delle tradizioni culturali, delle identità e delle diversità sociali vanificando tutti i progressi concreti del riconoscimento delle differenze?

 

Ritengo che qui ci siano due ordini di problemi: il primo riguarda la citazione di Fred Dallmayr ed è inerente al problema dell’uguaglianza e della diversità davanti alla legge; il secondo riguarda questioni più generali come il concetto di cultura e il cosmopolitismo.

Per quanto riguarda il primo punto dobbiamo capire che l’uguaglianza davanti alla legge è un principio. È un principio fondamentale per i governi democratici che va inteso come una continua lotta tra uguaglianza e diversità e non come un principio statico.

Chi avrebbe mai pensato in passato che le persone diversamente abili sarebbero emerse come una categoria di esseri umani verso i quali avere degli obblighi, e adesso abbiamo il dovere giuridico di uguaglianza per cui nelle nostre democrazie dobbiamo organizzare gli spazi pubblici in modo tale che i portatori di handicap e i diveresamente abili possano accedervi. Questo è un esempio di lotta democratica tra uguaglianza e diversità.

È una lotta che non si può arrestare perché ci saranno sempre nuovi individui o gruppi che rivendicheranno i propri diritti e ambiranno all’uguaglianza. Per cui, sotto questo punto di vista concordo con Fred Dallmayr, solo che vedrei questo processo come un tipo di processo dialettale di inclusione ed esclusione e, allo stesso tempo, acquisizione di un diritto. Ora, il riconoscimento della differenza non significa smantellare completamente il regolare sistema di cittadinanza, ma purtroppo spesso questo non accade ed è interessante vedere come oggi alcune sfide per la cittadinanza provengono dalla mercificazione della stessa cittadinanza.

Qui interviene la forza e la potenza dei mercati e dei capitali. In alcuni paesi come per esempio Singapore la cittadinanza è concessa solo ai milionari. Possiamo affermare pertanto che uno dei risultati dello sviluppo del capitalismo transnazionale sono la mercificazione della cittadinanza (So there is the commercialization of citizenship as a result of the development of transnational capitalism). Ci sono molti uomini d’affari che possiedono 3 passaporti. Questo è un altro aspetto del neo-cosmopolitismo liberale che si identifica con il capitalismo globale. Io vorrei continuare a lavorare invece in un’altra prospettiva: nella direzione del cosmopolitismo kantiano che aveva nel rispetto universale per tutti gli esseri umani il suo fondamento. Nei diritti universali c’è la chiave per un cosmopolitismo democratico e federale che possa adattarsi ai nuovi governi multilivello (multi-layers) o, come la definiscono alcuni studiosi la cittadinanza deve essere intesa come un “costrutto multi-layered” (multi-layered construct), in cui la propria cittadinanza è intesa, all’interno della collettività, a diversi livelli: locale, etnica, nazionale, statale, trasversale o sovra-statale – ed è influenzata e costruita su relazioni proprie di uno specifico contesto storico-culturale di ogni livello. La cittadinanza multilivello (multi-layers citizenship) potrebbe essere il futuro perchè oggi, più che in passato, le nazioni sono coinvolte in una rete di relazioni e obblighi reciproci.

Vorrei anche, e questo può dare un evidente contributo alla pace mondiale, che la Turchia possa far parte dell’Unione Europea non solo perché ritengo che la Turchia sia storicamente integrata all’interno dell’Unione ma anche perché questa sua inclusione e partecipazione attiva all’interno di strutture di governo multilivello (o multistrato) possa migliorarne il processo democratico.

Le motivazioni non risiedono, come ritiene qualcuno, nell’economia di mercato europeo che con l’ingresso della Turchia diverrebbe più potente. Le cose in realtà sono diverse: la possibilità che la Turchia entri nell’Unione europea era legata alla sua adozione dell’Acquis comunitario[24] che, per ora, fa fatica ad accettare completamente[25]. Questa difficoltà è figlia degli avvenimenti politici e sociali che hanno interessato il paese, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso fino alle soglie del Duemila: il sistema militare, che in Turchia ha ricoperto un ruolo fondamentale per la stessa stabilità dello Stato, ha da sempre cercato di riportare la religione dell’Islam come soggetto politico in Turchia. Ciò che la repubblica turca ideata da Atatürk aveva rifiutato. Allo stesso tempo c’è ancora una mina vagante in Turchia: Ahmet Kenan Evren[26] il quale, attraverso i media, ancora può influenzare l’opinione pubblica e i militari.

Pertanto le strutture multilivello delle autorità democratiche migliorano lo standard della democrazia perché esiste la possibilità di un maggiore controllo, c’è la possibilità di fare passi avanti e rivedere alcune posizioni, è quel processo che i miei colleghi americani amano definire con l’espressione “buone pratiche” (best practices). Se impariamo a utilizzare le buone pratiche politiche potremmo essere più ottimisti per il futuro.

Le minacce per la cultura non arriva da questi movimenti e sviluppi democratici, tutta la democrazia è messa a repentaglio dai networks mediatici. Mi spiego. Qual è la cultura che intende trasmettere, per esempio, della CNN? Ero nella mia stanza d’albergo e guardavo la CNN e c’è voluto un po’ prima di vedere il notiziario: c’era molta pubblicità, cosa vuol dire? Mi sembra una cosa molto strana eppure tutto ha un senso. La loro idea di cittadino del mondo è quella di un consumatore passivo di alto livello come un uomo di affari o una brillante donna in carriera, molto istruita e intelligente.

Le minacce più importanti e, allo stesso tempo, più subdole alla cultura democrazia che vuol dire libertà di pensiero, libertà critica e corretta informazione derivano dai media che si sono globalizzati e uniformati. Come è successo in Italia negli ultimi venti anni i veri pericoli provengono da un impero mediatico che spazza via tutto (washes everything out) e non rappresenta gli ideali cosmopoliti.

Purtroppo anche le se persone passano le idee rimangono e la cultura di un popolo rimane segnata per molto tempo e questo si è visto con Putin, Berlusconi, Evren, è questa la vera emergenza del mondo di oggi, un’emergenza culturale: non subiamo propriamente una dittatura fascista ma in molti paesi c’è sicuramente una sorta di conquista esecutiva presidenziale, una sorta di presidenzialismo demagogico (… presidential executive, it’s a kind of demagogical presidentialism).

Ma vedo che ultimamente in Italia state superando questo problema e spero che il senso democratico e inclusivo possa prevalere. Il cosmopolitismo non è una sorta di visione ottimistica e positiva di quello che sarà il futuro, ma credo possa e debba diventare un quadro normativo di riferimento che è collegato con le nuove realtà e identità multiple. Una giusta struttura democratica dove la molteplicità nelle nostre anime possa confrontarsi (the multiplicity in our soul). Il cosmopolitismo, per come lo intendo io, non deve smantellare le strutture democratiche esistenti ma avviare una rinegoziazione che adegui le condizioni democratiche ai nuovi scenari multietnici.

Un’aspetto interessante è quello della lingua. In Germania si discute molto sul fatto che per aver successo nel campo scientifico sia necessario pubblicare in inglese e c’è un’espressione che dice: “Publishing English and perishing in German”. L’inglese è diventata una “lingua franca” perchè in molte culture come quella cinese o africana si parla anche inglese. La stessa cosa successe ai tempi dei miei genitori con il francese. L’italiano[27] ha sempre il suo fascino anche se siamo in una situazione dove il cosmopolitismo e la sopravvivenza di una lingua dipendono dalla sua capacità di espansione e continuità territoriale.

Questo della lingua non è un problema da poco perché il cosmopolitismo non instaura relazione superficiali come la critica, da parte dei regimi nazionalisti di destra durante il XX secolo, ha fatto credere. Spesso il cosmopolitismo in Europa è stato identificato con il giudaismo: gli ebrei, non avendo una loro terra, non avevano una patria ed erano il popolo della diaspora.

 

Domanda 10

[Pubblicata il 10 febbraio 2015 sul sito della Rivista on-line “Reset-DOC” (Dialogues on Civilizations): http://www.reset.it/reset-doc/giustizia-e-pari-diritti-nella-diversita-vi-racconto-il-mio-cosmopolitismo]

 

We can say that with the entry into the public sphere of those who are excluded (women, immigrants, minorities) it’s making a Copernican Revolution because, like you said in an interview, «Come into the public sphere, so what changes is not only who is speaking but also what is been spoken about»[28]. Do you agree with this statement?

Possiamo dire che con l’ingresso nella sfera pubblica di coloro che sono esclusi (donne, immigrati, minoranze) si realizza una “Rivoluzione Copernicana” perché, come lei ha giustamente fatto notare in una sua intervista: «Entriamo nella sfera pubblica e ciò che cambia non è solo chi sta parlando (immigrati, richiedenti asilo, stranieri, N.d.T.) ma anche di cosa si sta parlando, cosa si dice o è stato detto in merito ad un determinato argomento». Conferma ancora questa affermazione?

Credo che questa osservazione sia assolutamente corretta. L’esempio più eclatante ovviamente l’abbiamo visto con l’ingresso delle donne nella spera pubblica: poter parlare di molestie sessuali, abusi sessuali e maltrattamento dei bambini è stata una grande rivoluzione.

Per alcuni legislatori tali argomenti sono ancora incredibilmente ostici e pensare di discuterne e concretizzare la rivendicazione di taluni diritti delle donne all’interno di una norma specifica appare ancora difficile. In alcuni paesi le strade, in questa prospettiva, sono ancora sbarrate: una rivoluzione morale e politica che rimane soffocata.

Un esempio positivo invece lo troviamo in uno degli sport più popolari al mondo: il calcio.  Qui a livello internazionale vediamo giocatori di origine turca che hanno ottenuto per esempio la cittadinanza tedesca o nato nello Zaire e naturalizzato in Belgio che giocano nella squadra nazionale del paese che ha accolto loro o i loro genitore e se non fosse per il cognome nessuno oserebbe mai di considerarlo uno straniero[29].  Sono riflessioni queste che contribuiscono a cambiare il nostro modo di pensare e anche le nostre identità.

La sfera pubblica si apre al privato in questo senso e inizia a influenzare la vita privata conducendo l’individuo ad una sorta di “ricollocazione” di se stesso (resituate themselves).

Dobbiamo però anche considerare un aspetto negativo e un rischio delle identità cosmopolite vale a dire una frammentazione (fragmentation), che il mio collega di Francoforte Axel Honneth definisce con il termine “patologie” (pathology)[30]. Così come abbiamo individuato una “frammentazione all’interno della nazione” e una frammentazione e divisione all’interno delle democrazie ci può essere una frammentazione dell’individuo (… fragmentation within the individual it may be very difficult to hold these pieces together). E all’interno delle comunità degli immigrati queste difficoltà identitarie non sono irrilevanti. Il risultato di questa dis-locazione (dislocation) è una maggiore difesa della propria cultura di appartenenza e tali comunità spesso, all’interno del paese che li accoglie, diventano ancora più attaccati alla loro originaria identità (… immigrant communities become more attached to their original identities) quella stessa che credevano aver lasciato alle loro spalle. Sembra un paradosso ma nella maggior parte dei casi gli immigrati sono più legati loro alla proprie origini di quanto non lo siano coloro che rimangono in patria.

In questo modo il processo di frammentazione dell’identità o formazione reattiva (… identity fragmentation or reaction formation) potrebbero finire per influire sull’integrazione del singolo o dell’intera comunità nel paese accogliente con il rischio di rimanere escluso definitivamente (a perpetual outsider), senza considerare che il processo di frammentazione identitaria crea l’emarginazione di interi gruppi sociali. E conosciamo bene l’impatto negativo psicologico che l’emarginazione può avere sul singolo e a livello sociale. Ma nel processo di frammentazione ci sono aspetti negativi che dobbiamo distinguere dagli aspetti definiti “patologici”. Questo problema ha interessato molto Jürgen Habermas il quale ha scritto un meraviglioso saggio: Can Complex Societies Construct a Rational Identity (1974)[31] nel quale l’autore si domandava: “È possibile che una società complessa costruisca identità ragionevoli?”. Credo che questa domanda sia essenziale ed è ciò che rimane di una bella sfida sia a livello individuale che per la collettività. Su questo argomento anche il nostro collega Alessandro Ferrara ha scritto alcuni lavori molto interessanti che offrono diversi spunti di riflessione[32] (I like his work, very much on this question). Mi piace molto il suo ultimo lavoro (The Democratic Horizon – Cambridge University Press 2014) che si concentra in particolare su temi come l’“iperpluralismo” (hyperpluralism), la politica democratica “plurima” (multivariate democratic polity) e il pluralismo riflessivo (reflexive pluralism).

 

Domanda 11

[Pubblicata il 10 febbraio 2015 sul sito della Rivista on-line “Reset-DOC” (Dialogues on Civilizations): http://www.reset.it/reset-doc/giustizia-e-pari-diritti-nella-diversita-vi-racconto-il-mio-cosmopolitismo]

 

Rethinking citizenship beyond the nation state. How is it possible to rethink the idea of cosmopolitan democracy, we in the West are not longer alone but together with Chinese, Indian, South American countries. We are moving toward a space and a time of experimentation, but skip directly to the cosmopolitan democracy (such as it has always been understood in the West) means re-inscribed within the political tradition of Eurocentric, Greek and Judeo-Christian. You can build a genuinely transnational practices without open to new forms of Western domination? If we want to think critically, we must take the language seriously. In this sense, I wonder whether it makes sense to use the term citizenship, which is a term of the western lexicon, to talk about the political subject.

Ripensare la cittadinanza al di là dello stato nazione. Come è possibile ripensare l’idea di democrazia cosmopolitica, non più da soli noi occidentali ma insieme a cinesi, indiani, sud-americani.  Ci stiamo muovendo verso uno spazio ed un tempo di sperimentazione ma saltare direttamente alla democrazia cosmopolitica (così come è stata sempre intesa in occidente) significa re-inscriversi all’interno della tradizione politica eurocentrica, greca e giudeo-cristiana. È possibile costruire delle pratiche genuinamente transnazionali senza aprire a nuove forme di dominazione occidentale? Se vogliamo un pensiero critico, dobbiamo prendere il linguaggio sul serio. In questo senso, mi chiedo se abbia senso usare il termine di cittadinanza, che è un termine del lessico occidentale, per parlare del soggetto politico.

È una domanda molto interessante che abbraccia molti aspetti: linguistico, politico e culturale. È infatti un quesito che partendo dalla critica post-coloniale coinvolge il multiculturalismo, il problema della cittadinanza, dei gruppi minoritari e le differenze culturali.

È stato Max Weber a ritenere per primo che il concetto di cittadinanza è fondamentalmente connesso all’esperienza della formazione delle città occidentali, dove si è affermato quello spazio della vita sociale dove è possibile l’affermazione dell’opinione pubblica, della critica e del controllo e che Habermas ha definito sfera pubblica[33]. Nel tempo il modello della società occidentale si è diffuso e la formazione dello stato ha cominciato a seguire canoni che potremmo definire universali. Nel periodo post-coloniale ancora di più c’è stata l’internazionalizzazione di una formazione politica occidentale. Come è evidente dall’esperienza giuridica, formale e dell’esperienza reale, oggi in molti paesi del Medio Oriente e dell’Africa il moderno concetto di cittadinanza è ancora fondato su alleanze etniche, religiose e settarie.

In realtà molti di questi Paesi sono “Stati deboli” (weak States) e stanno fallendo nel loro tentativo di creare un consenso forte che permetta ai cittadini un forte senso di appartenenza e di attaccamento alle istituzioni statali. Questo è un vero problema, ma non credo che dipenda dal concetto di cittadinanza. Dipende dal tipo di democrazia che il paese ha deciso di mettere in atto e quali orientamenti politico-culturali intende seguire. L’India, ad esempio è la più grande democrazia al mondo (the world’s largest democracy) tant’è che i risultati elettorali sono disponibili dopo 6/7 settimane che si è cominciato a votare[34]. Qualsiasi sistema elettorale, nonostante le critiche cui è soggetto, è un segno di democrazia.

Pertanto a livello formale il concetto di cittadinanza, a prescindere dalle sue origini e radici culturali, si è universalizzato. La domanda interessante da porsi è: ci sono nuovi elementi e contenuti che arricchiscono il concetto di cittadinanza in considerazione del fatto che è diventato il risultato di una migrazione transculturale (transcultural migration)?

Un mio collega di Yale sta lavorando sul concetto etico-filosofico sudafricano dell’Ubuntu che si rifà ad una legge tribale e che indica “armonia, amicizia, riconciliazione”. È un’espressione della lingua bantu che esprime “benevolenza verso il prossimo” e “rispetto dell’altro” come regola di vita. Credo che nella nuova legge constituzionale sudafricana si intenda introdurre il principio e il modo di essere Ubuntu in modo da sviluppare un nuovo concetto di cittadinanza. Addirittura in India è successo qualcosa di completamente rivoluzionario: la Corte Suprema indiana ha riconosciuto il “terzo genere sessuale”[35]. Non escludo che il dibattito politico-culturale che sta investendo paesi come il Brasile e il Canada in merito alle popolazioni indigene, che hanno un legame particolare e un diverso rapporto con la propria terra, possa contribuire a cambiare la nostra comprensione del concetto di cittadinanza in termini di un rapporto più incentrato sulla territorialità che non sull’autorità politica (Indigenous populations who have a different relationship to the land would change our understanding of citizenship in terms of relationship to territoriality rather than authority).

Questi sviluppi sono molto interessanti ma non li vedo come un semplice processo di urbanizzazione a senso unico ma sono una interpretazione o trasposizione (way translation) bidirezionale: non solo esportiamo i nostri concetti e le nostre idee (occidentali) che gli altri interpretano, ma può accadere, come in questi casi, che siamo noi a dover re-interpretare ciò che ci arriva dagli altri. È arrivato il momento di attingere ad un bacino culturale comune, perché c’è qualcosa che ora noi dobbiamo far nostro e che ci viene da coloro che fino a ieri (vedi il colonialismo) erano stati costretti a subire una cultura (in larga parte occidentale) che non gli apparteneva. Non c’è più una cultura eurocentrica o una politica prettamente occidentale ma una teoria multiculturale che guarda a diversi generi tradizionali. Non ho idea di quale possa essere, in futuro, l’impatto della recente e rivoluzionaria decisione della Corte indiana sul “terzo genere”. Ciò che posso affermare è che questi casi contribuiscono a rafforzare i dibattiti con paesi come l’India, il Sud Africa e il Brasile dai quali stiamo imparando l’arte del dialogo e del confronto politico. Determinate decisioni delle Corti Supreme attivano processi “giusgenerativi” e, come sostiene Robert Cover, trasformano il significato e la comprensione di concetti e temi che ritenevamo dei dogmi. La stessa comprensione del significato originario di cittadinanza che per noi occidentali è fondato sul rapporto pubblico/privato (sfera pubblica e sfera privata) muta. I miei stessi interessi di ricerca sono influenzati da questi cambiamenti.

Per una riflessione su questi temi credo possano essere molto interessanti alcuni lavori del filosofo politico James Tully (ottimo studioso e collega di Charles Taylor) ed in particolare il suo Strange Multiplicity – Constitutionalism in an Age of Diversity (Cambridge University Press, Cambridge 1995). È un ricercatore molto impegnato nello studio delle differenze politiche e culturali ed è autore di diversi lavori sulla situazione canadese.

[Intervista e traduzione di Nicola Cotrone]


 

[1] In La rivendicazione dell’identità culturale (2002) Benhabib, nel riprendere un passaggio del saggio di Homi K. Bhabha The location of culture (1994), sullo stretto rapporto che lega il racconto collettivo alla cultura e alla nazione, osserva che: «Ciò che Bhabha chiama “la temporalità continuista, cumulativa del pedagogico” rinvia alle strategie narrative, alla scrittura, alla produzione e all’insegnamentodi storie, miti e altr racconti collettivi, per mezzo dei quali la nazione unanimemente rappresenta se stessa come un’unità compatta. In simili strategie di rappresentazione, “il popolo” si costituisce come individuo». Benhabib S., La rivendicazione dell’identità culturale, Il Mulino, Bologna 2005, p. 28. Il passo cui l’autrice fa riferimento è il seguente: «Nella produzione della nazione in quanto narrazione vi è una scissione tra la temporalità continuista, cumulativa del pedagogico e la strategia ripetitiva, ricorsiva del performativo». Bhabha H. K., The location of culture, Routledge, London-New York 1994; trad. it. I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, p. 145.

[2] A conferma di ciò in Communication and the Other – Beyond Deliberative Democracy (1996) Iris Marion Young afferma che: «… Intendo sostenere che la comunicazione politica deve tener conto dei contributi positivi che il saluto, la retorica e il racconto possono recare, e talvolta recano, alla deliberazione. Un’interpretazione meno restrittiva delle modalità della comunicazione politica è più inclusiva, sia perché rispetta i modi di esprimersi specifici di persone diverse, sia perché rende esplicite numerose forme di discorso non argomentative che consentono l’inclusione e la comprensione nonostante le differenze». Young I. M., Communication and the Other – Beyond Deliberative Democracy, in Benhabib S. (a cura di), Democracy and Difference – Contesting the Boundaries of the Political, Princeton University Press, Princeton 1996, pp. 120-137; trad. it., (a cura di Francesco P. Vertova), La comunicazione politica inclusiva. Il saluto, la retorica e il racconto nel contesto dell’argomentazione politica, in Iride, Vol. XI, n. 23 (1998), p. 19 (pp. 13-41).

[3] Già in Sexual Difference and Collective Identities – The New Global Constellation (1999), Benhabib aveva discusso l’importanza delle reti o strati di narrazione nella costituzione delle identità. Cfr. Benhabib S., Sexual Difference and Collective Identities – The New Global Constellation, in Signs: Journal of women in culture and society, Vol. 24, n. 2 (1999), pp. 335-361.

[4] In un saggio del 1994, che riflette sulla convinzione di Hannah Arendt nella potenza redentrice della narrativa (redemptive power of Narrative), Seyla Benhabib spiega che, per la Arendt, le azioni umane, compiute dalle donne e dagli uomini in quanto esseri deliberativi, «vivono solo nei racconti di coloro che le hanno compiute e nelle narrazioni di coloro che le hanno comprese, interpretate e le ricordano». (Mia la trad.). Benhabib S., Hannah Arendt and the Redemptive Power of Narrative, in Hinchman L. P., Hinchman S. K. (a cura di), Hannah Arendt – Critical Essays, SUNY University Press, Albany 1994, p. 124 (pp. 111-137). Una prima versione del saggio è apparsa nel 1990: Benhabib S., Hannah Arendt and the Redemptive Power of Narrative, in Social Research, Vol. 57, n. 1 (1990), pp. 167-196. Uno spunto di riflessione su questo tema è suggerito, per esempio, dalle lettere dei soldati inviate dal fronte della Prima e Seconda Guerra Mondiale. Coloro che ancora oggi leggono “vedono” nelle loro parole concretamente tutto ciò che accadeva in quei luoghi, le loro emozioni, le loro paure, i loro presagi.

[5] In un passaggio dell’intervista Benhabib ha dichiarato che parte della sua Tesi di abilitazione è stata pubblicata in due diversi saggi: a) Benhabib S., Modernity and the Aporias of Critical Theory, in Telos, Vol. 21, n. 49 (1981), pp. 39-59; b) Benhabib S., The ‘Logic’ of Civil Society – A Reconsideration of Hegel and Marx, in Philosophy and Social Criticism, Vol. 8, n. 2 (1981), pp. 151-166.

[6] Sin dal saggio Deliberative Rationality and Models of Democratic Legitimacy (1994) la riflessione politico-filosofica di Benhabib è impostata sul paradosso della legittimità democratica.

[7] «Il nostro nuovo ordine economico globale è molto duro per la povertà a livello globale. Questo perché le decisioni vengono prese all’interno di negoziati dove i nostri rappresentanti sfruttano spietatamente il loro potere contrattuale e le loro competenze nelle trattative di gran lunga superiori alla controparte dei paesi più deboli. Inoltre in questi negoziati i paesi più ricchi approfittano della debolezza, dell’ignoranza e della corruttibilità dei paesi più poveri al fine di trovare nelle trattative qualsiasi contropartita che serva a stabilire un accordo per un loro più grande vantaggio». Pogge T., World Poverty and Human Rights – Cosmopolitan Responsabilities and Reforms, Polity Press, Cambridge 2002, p. 20. (Mia la trad.). Ci sembra di capire, dalle parole pronunciate da Benhabib in questa intervista, («That’s a different methodological point than the abstract question of global distributive justice») che Pogge negli ultimi suoi lavori stia cambiando direzione e che sia più concreto. Ciò si evince anche, come dichiara l’intervistata, dal Corso “Habermas and Rawls on Justice and Politics” che, nella primavera del 2014, Benhabib e Pogge hanno tenuto insieme presso la Facoltà di Legge della Yale University (Yale Center for Law & Philosophy – Intellectual Life – Philosophy Department (Ph.D.) and Law School (J.S.D.). Cfr.: http://www.law.yale.edu/intellectuallife/LawPhilosophy_courses.htm.

[8] Per Benhabib nella legittimazione democratica rientra per esempio anche il diritto all’educazione e alla salute. Pertanto, se l’oggetto del diritto non rientra nella procedura stabilita dalla sua legittimazione, non vi è certezza della realizzazione di quel diritto.

[9] Il saggio è stato presentato dall’autrice alla Convention dell’APSA (American Political Science Association) che si è tenuta a Washington DC il 30 Agosto 2014 – (Not for Circulation or Publication without Permission of the Author). L’articolo, inedito, ci è stato inviato dall’autrice, in versione PDF, in una mail del 25 Novembre 2014: Benhabib S., Democratic Sovereignty and Transnational Law – On Legal Utopianism and Democratic Skepticism. Successivamente il testo è stato presentato alla “Marx Wartofsky Lecture” presso il Graduate Center Philosophy Program della City Universityof New York il 1° Aprile 2015. È prevista la sua pubblicazione, sulla rivista “Global Constitutionalism” nella primavera 2016, con il titolo: The New Sovereigntism and Transnational Law: Legal Utopianism, Democratic Skepticism and Statist Realism. Il saggio esamina la controversia relativa alla sovranità democratica contemporanea alla luce di una nuova era e all’interno di un nascente diritto cosmopolitico (o cosmopolitismo giuridico). Benhabib contrappone le conclusioni essenzialmente negative elaborate da alcuni teorici politici sulla possibilità di conciliare la sovranità democratica con un ordinamento giuridico transnazionale, all’utopismo di una dottrina giuridica contemporanea che rivendica un costituzionalismo globale con o senza lo Stato. Per la politologa di Yale le norme sui diritti umani transnazionali (vedi caso del Cile) non indeboliscono la sovranità democratica ma la rafforzano e definiscono quei processi attraverso i quali le norme dei diritti sono contestualizzate all’interno di processi politici di iterazioni democratiche. La sfida è quella di pensare al di là delle diverse contrapposizioni: cosmopoliti contro repubblicani; democratici contro internazionali e transnazionali; sovranità democratica contro il diritto internazionale dei diritti umani. La parte finale del saggio mette a fuoco il dilemma della “paternità di un modello di legittimità democratica” nei confronti degli sviluppi post-Westfalia. Se ieri il modello normativo di legittimità democratica era centrato su un’autorità statale di tipo westfaliano con un demos chiaramente ben definito, oggi le trasformazioni post-westfaliane della sovranità dello stato (sia a livello sociologico che di diritto internazionale) insieme al modello di legittimità democratica delle norme dei diritti umani transnazionali (che hanno una “paternità democratica” – democratic authorship) risultano essere chiaramente divergenti e destabilizzano.

[10] Il difensore civico è una figura di garanzia a tutela del cittadino, che ha il compito di accogliere i reclami non accolti in prima istanza dall’ufficio reclami del soggetto che eroga un servizio. È definito ombudsman (termine che prende il nome dall’ufficio di garanzia costituzionale istituito in Svezia nel 1809. Letteralmente vuol dire: “uomo che funge da tramite”. Durante l’Impero Romano l’istituto dello ius intercessionis, affidato ai Tribuni della plebe, ricopriva quelle che oggi sono le funzioni del difensore civico. Questa istituzione romana era nota con il nome di defensor civitatis ed essa continuò ad essere presente nella cultura del tempo fino a scomparire con il declino di entrambi gli imperi d’occidente e d’oriente. Si rivede la figura del defensor civitatis all’interno di alcune amministrazioni come quella degli ostrogoti.
Possono sporgere denuncia al Mediatore europeo i cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea e le persone residenti in uno Stato membro. Possono anche sporgere denuncia al Mediatore le imprese, le associazioni e altri soggetti che abbiano sede nell’Unione europea. Il Mediatore europeo è un organo indipendente e imparziale che chiede conto all’amministrazione dell’UE e conduce indagini su casi di cattiva amministrazione nell’azione di istituzioni, organi, uffici e agenzie dell’Unione europea. Solo la Corte di giustizia dell’UE, nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale, non rientra nel mandato del Mediatore. Quest’ultimo può constatare cattiva amministrazione nel caso in cui un’istituzione non rispetti i diritti fondamentali, le norme o i principi giuridici o i principi della buona amministrazione. Ciò comprende, ad esempio, irregolarità amministrative, ingiustizia, discriminazione, abuso di potere, mancanza di risposta, rifiuto di accesso all’informazione e ritardo ingiustificato. Tutti i cittadini o i residenti dell’Unione europea, nonché imprese, associazioni o altri organismi con sede legale nell’UE, possono presentare una denuncia. Per farlo non è necessario essere stati personalmente vittime del caso segnalato. È opportuno rammentare che il Mediatore europeo può trattare esclusivamente denunce riguardanti l’amministrazione dell’UE e non quelle concernenti le amministrazioni nazionali, regionali o locali, anche nel caso in cui esse riguardino materie dell’Unione europea. «Il Mediatore ha registrato 2.510 denunce nel 2011, di cui 698 sono stati nel suo mandato. Ciò a fronte di 2.667 denunce nel 2010, di 744 che erano nel quadro del mandato. Ha aperto 396 inchieste, rispetto a 335 nel 2010, e completato 318 indagini durante l’anno (326 nel 2010) tamiflu over the counter. In totale, il Mediatore ha gestito oltre 3.828 denunce e informazioni richieste – up da 3.700 nel 2010». (Fonte: European Ombudsman – Rapporto 2011: http://www.ombudsman.europa.eu/home.faces).

[11] Nel rispondere a questa domanda, Benhabib, in un successivo passaggio ha dichiarato: «Questo aspetto si sta espandendo e sarà questo è il mio lavoro futuro. Questo è il motivo per il quale ho improvvisamente cominciato a lavorare tantissimo e a concentrarmi sulle problematiche legate a norme di diritto internazionale (I started doing so much work all of a sudden on thinking about problems on international law). Mi sono accorta che questo filone di indagine rappresentava un settore dove si concentrano la maggior parte dei problemi internazionali e degli scontri politici. Pertanto se dovessi dare una risposta sintetica alla tua domanda (“È possibile mettere in atto forme di iterazione democratica all’interno di un contesto giuridico-normativo di carattere internazionale”?) risponderei: “assolutamente si”».

[12] Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne (Convention on the Elimination of All forms of Discrimination Against Women – CEDAW. Il documento, articolato in un preambolo e 30 articoli, è stato adottato il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed è entrata in vigore a livello internazionale dal 3 settembre 1981. A giugno del 2009 i Paesi firmatari che hanno ratificato la Convenzione erano 186. L’Italia ha ratificato la Convenzione il 10.06.1985 con la Legge 14.03.1985 n. 132, in vigore dal 10. 07.1985.

[13] Dato ufficiale aggiornato a dicembre 2011. (Fonte United Nations: http://www.un.org/en/members/index.shtml). Con 193 Stati membri, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) è l’unica organizzazione in cui è possibile discutere di una molteplicità di questioni di valenza globale coinvolgendo tutti i Paesi e gli attori interessati. L’ONU vanta un’universalità unica per il ventaglio di temi che tratta, la sua composizione, la partecipazione ai processi decisionali, l’elaborazione di norme e standard di portata internazionale come pure l’influsso planetario. Nonostante le grandi difficoltà a livello mondiale l’ONU gode di una legittimità senza confronti a livello globale.

[14] Sono sette gli Stati membri dell’ONU che non hanno ratificato la Convenzione sono l’Iran, Nauru, Palau, Somalia, Sudan, Tonga e Stati Uniti. Fra questi gli stati islamici quali (Iran, Somalia, Sudan) o le piccole nazioni insulari del Pacifico (Nauru, Palau, Tonga). Niue e la Città del Vaticano non hanno firmato la Convenzione mentre gli Stati Uniti hanno firmato ma non ancora ratificato. Nel 2007, dopo molte pressioni da parte di organizzazioni delle donne come l’Alleanza Nazionale di associazioni femminili di Taiwan, il Paese ha ratificato la Convenzione inserendola nella legislazione nazionale anche se non è ancora stata ratificata a livello internazionale.

[15] Il 26 gennaio 2014 viene approvata con una maggioranza di 200 voti a favore, 12 contrari e 4 astenuti la nuova Costituzione tunisina. Questo è il primo vero risultato di quel movimento di protesta definito “primavera araba”e che grazie alle rivolte del 2010-2011 ha posto fine al regime autocratico di Zine El Abdine Ben Ali, dando vita ad un nuovo governo “apolitico” (frutto dell’accordo fra gli islamisti di Ennahda, in maggioranza all’assemblea, e le opposizioni) che entro la fine del 2014 dovrà indire nuove elezioni legislative e presidenziali. La Costituzione si compone di 149 articoli, organizzati in 10 capitoli e preceduti da un preambolo che richiama l’origine rivoluzionaria del testo ed esprime i valori su cui si fonda il nuovo ordinamento costituzionale: fra questi si evidenziano, in particolare, l’appartenenza identitaria all’Islam e il rispetto dei principi cardine del costituzionalismo democratico, quali l’uguaglianza tra i cittadini, la separazione dei poteri, la sovranità popolare e la tutela dei diritti umani. La convivenza dell’Islam con i principi liberal-democratici viene rimarcata anche nelle prime due disposizioni costituzionali: secondo l’art. 1, infatti, «La Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano; la sua religione è l’Islam, la sua lingua l’arabo e il suo regime la Repubblica», mentre l’art. 2  sancisce che «La Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo Stato di diritto».  Come ha auspicato il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon: «Speriamo che questo diventi un possibile modello per gli altri popoli che aspirano a riforme democratiche». In merito all’uguaglianza tra uomo e donna, un tema che per la prima volta si affaccia all’interno di una Carta fondamentale in un Paese arabo e musulmano, lo scrittore e poeta marocchino Tahar Ben Jelloun, in un articolo del 21 gennaio 2014, ha scritto: «In Tunisia l’albero della primavera araba ha dato ora i suoi primi frutti. Per la prima volta un Paese arabo e musulmano ha iscritto nella sua nuova Costituzione l’uguaglianza tra uomo e donna (le cittadine e i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza discriminazioni) ed è anche riuscito a mettere da parte la Sharia instaurando la libertà di coscienza (lo Stato è custode della religione, garante della libertà di coscienza e di fede e del libero esercizio del culto). Inoltre lo Stato garantisce la libertà d’espressione e vieta la tortura fisica e morale (la tortura è un crimine imprescrittibile). Non solo: grazie all’impegno della società civile, e in particolare alle lotte delle donne, la Tunisia è riuscita a rispedire nelle moschee il partito islamista Ennahda, aprendo al tempo stesso il Paese alla modernità, tragicamente assente nel resto del mondo arabo. Uguaglianza di diritti significa che non vi potrà più essere poligamia né ripudio; ma anche che l’eredità non sarà più regolata dalle leggi dell’Islam, che assegnano sistematicamente alle donne una quota dimezzata rispetto a quella degli eredi maschi (Sura IV, versetto 12: “In quanto ai vostri figli, Dio vi ordina di attribuire al maschio una parte uguale a quella di due figlie femmine”). L’uguaglianza è altresì un passo verso la parità in materia di rappresentanza e di remunerazione. In Europa gli uomini sono tuttora meglio retribuiti delle donne per lo stesso incarico. Sarà forse proprio la Tunisia a dare l’esempio con un cambio radicale, superando pregiudizi e arcaismi». Jelloun T. B., La Costituzione tunisina è rivoluzionaria, in Repubblica.it, disponibile all’indirizzo:
http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/mondo/2014/01/21/news/la_costituzione_tunisina_rivoluzionaria-76533560/. Sul tema dello Stato custode della religione e garante delle libertà di coscienza di determinate minoranze all’interno di un gruppo si veda Shachar A., The Puzzle of Interlocking Power Hierarchies – Sharing the Pieces of Jurisdictional Authority, in Harvard Civil Rights – Civil Liberties Law Review, Vol. 35, n. 2 (2000), pp. 387-426. Il premio Nobel per la pace 2015 è andato a 4 associazioni della Tunisia (è la prima volta per il Paese): il “Tunisian national dialogue quartet” (il quartetto per il dialogo in Tunisia) ha, secondo il comitato norvegese, contribuito fattivamente alla costruzione della democrazia dopo la “rivoluzione dei gelsomini” del 2011. Il quartetto è composto da quattro organizzazioni della società civile: a) il sindacato generale dei lavoratori Ugtt; b) il sindacato patronale Utica; c) l’Ordine degli avvocati; d) la Lega Tunisina per i Diritti Umani. Nato nell’estate del 2013, «quando il processo di democratizzazione rischiava di frantumarsi per gli omicidi politici e un diffuso malcontento sociale», il quartetto – si legge nella motivazione del premio – «ha dato vita a un processo politico pacifico alternativo in un momento in cui il Paese era sull’orlo della guerra civile». Ciò ha consentito alla Tunisia, nel giro di pochi anni, di creare un sistema costituzionale di governo che garantisce i diritti fondamentali di un’intera popolazione, a prescindere dal sesso dalle convinzioni politiche e dal credo religioso. Il paese è chiamato ad affrontare importanti sfide politiche, economiche e di sicurezza. «Più di ogni altra cosa – si legge nella conclusione delle motivazioni – il premio vuole essere un incoraggiamento al popolo tunisino». Il Comitato si augura che questo premio sia di esempio e serva a spronare tutti gli altri paesi arabi che intendono intraprendere questo percorso democratico. (Cfr. Webreportage: dopo la rivoluzione, all’indirizzo: www.corriere.it/esteri/speciali/2014/tunisi/).

[16] La nuova Costituzione sancisce che l’Islam è la religione di Stato ma esclude la Sharia (la legge islamica) come base del diritto del Paese.

[17] Il “processo di iterazione democratica transnazionale” è tra i temi oggetto di riflessione del prossimo libro di Seyla Benhabib che, come ci ha anticipato l’autrice in una mail del 6 gennaio 2016, avrà il seguente titolo: The New Sovereigntism – Exile, Statelessness and Migration: Jewish Identity and Political Theory, (Princeton University Press). La pubblicazione del saggio è prevista per la primavera 2016.

[18] Il 9 gennaio 2014 i membri dell’Assemblea nazionale costituente (Anc) hanno adottato l’articolo 45 che garantisce i diritti acquisiti della donna con 116 voti favorevoli, 32 astenuti e 40 contrari. Il testo dell’articolo garantisce la protezione dei diritti della donna e le pari opportunità. Lo stato tunisino, inoltre, si impegna ad adottare ogni misura necessaria per contrastare la violenza contro le donne. La nuova Carta del paese mira in sostanza alla parità uomo-donna. Infatti mentre l’articolo 20 afferma l’eguaglianza di diritti e doveri dei due sessi, l’articolo 45 impone che il governo non solo protegga i diritti delle donne, ma garantisca le pari opportunità anche all’interno dei consigli elettivi.

[19] L’industria del mobile in Cile comprende «2.500 unità produttive, che vanno dal modesto laboratorio artigianale alle medie e grandi imprese. Tuttavia, solo il 10% di queste viene considerato come impresa industriale. La maggior parte della produzione, circa il 70% si concentra nella zona metropolitana di Santiago e nella regione limitrofa di Valparaiso. L’industria del mobile fornisce occupazione diretta a oltre 35.000 persone e, indirettamente, a circa 75.000, considerando l’indotto correlato (adesivi, vernici, imballaggi, trasporti ecc.). Il principale vantaggio dell’industria cilena del mobile è la immensa zona di foreste e piantagioni, in particolare del Pino Radiata. Il paese andino quindi è uno dei pochi al mondo in cui viene consumato meno legname di quello che viene prodotto. Inoltre è reperibile legname di qualità pregiata nella vicina Bolivia. Secondo le stime ASIMAD (Associazione Industriali del Legno del Cile), il valore della produzione nazionale del mobile ha raggiunto i 469 miliardi di Pesos (pari a circa 844 milioni di US Dollari) nel 2009». (Fonte: Federlegno Arredo – International Relations & Promotion. Scheda di Settore – Giugno 2010 “Cile: nota di settore legno-arredo”. Il file PDF della Scheda è disponibile on-line all’indirizzo: www.federlegnoarredo.it/ContentsFiles%5CCILE_N_S_preview.pdf. Ulteriori approfondimenti in merito al recente successo economico-industriale del modello cileno e alla sua politica macroeconomica sono disponibili all’indirizzo: http://www.prochile.gob.cl).

[20] I Mapuche (dalla fusione di due termini Mapudungun: Che, “Popolo” e Mapu, “della Terra”) sono gli abitanti Amerindi originari del Cile Centrale e Meridionale e del Sud della Argentina (Regno di Araucanía e Patagonia). Oggi i discendenti Mapuche vivono attualmente lungo i territori meridionali di Cile e Argentina; alcuni mantengono le proprie tradizioni e continuano a sostenersi attraverso l’agricoltura, ma una crescente maggioranza si è trasferita nelle città in cerca di migliori opportunità economiche. In anni recenti, tornata la democrazia, se da un lato c’è stato un tentativo da parte del governo del Cile per stemperare alcune delle iniquità del passato – attraverso, per esempio, il riconoscimento dell’insegnamento del Mapudungun, il linguaggio dei Mapuche, nella zona di Temuco, ed interventi a favore della tutela della loro cultura – dall’altro è la maggioranza dei Mapuche a dichiararsi non solo insoddisfatta, ma addirittura ancora vittima di cocenti discriminazioni, incluso il ricorso ad arresti arbitrari. Per questo motivo, rappresentanti delle organizzazioni Mapuche si sono unite alla Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli non rappresentati (UNPO) in cerca di riconoscimento e protezione per la loro cultura ed i loro diritti territoriali. L’Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati, in acronimo UNPO (dall’inglese Unrepresented Nations and Peoples Organization), è un’organizzazione non governativa internazionale democratica. I suoi membri sono popoli indigeni, nazioni occupate, minoranze e Stati o territori indipendenti a cui manca una rappresentazione diplomatica internazionale. Secondo i dati del censimento del 2002 sarebbero solo 604.349, vale a dire appena il 4% della popolazione Cilena, mentre circa 300.000 vivono sull’altro versante delle Ande, in Argentina. Inoltre, come già detto nella sezione storica, a causa della perdita delle proprie terre, molti Mapuche ora vivono in condizioni miserevoli in grandi città come Santiago. Ancora oggi i Mapuche si battono contro leggi anti-terrorismo nate durante l’epoca della dittatura di Pinochet e che invece vengono ancora usate, di frequente, contro i capi della stessa comunità. L’UNPO si dedica ai cinque princìpi illustrati nella sua convenzione: a) ugual diritto per tutti all’autodeterminazione; b) rispetto dei diritti umani universalmente accettati come dichiarati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; c) rispetto dei principi del pluralismo democratico e rifiuto dei totalitarismi e dell’intolleranza religiosa; d) promozione della nonviolenza e rifiuto del terrorismo come strumento di trattativa; e) protezione dell’ambiente naturale. L’UNPO non è collegata alle Nazioni Unite e a tutti i membri è richiesto di rispettare la convenzione dell’UNPO. Devono affermare di supportare il principio della non-violenza nella lotta della loro gente per una soluzione pacifica dei problemi e di applicare la metodologia democratica come principio guida.

[21] Il termine è stato coniato da John Rawls nel suo A Theory of Justice (1971) e ha lo scopo di riassumere un metodo per giungere a indagare i principi di giustizia. Anche se non ha utilizzato questa espressione è stato il filosofo statunitense Nelson Goodman (1906-1998) a introdurre il metodo dell’equilibrio riflessivo come approccio per giustificare i principi della logica induttiva.

[22] In La rivendicazione dell’identità culturale (2002) Benhabib dichiara: «Occorre che ciò che Homi Bhabha denomina gli aspetti “pedagogico” e “performativo” della narrazione nazionale, in qualche modo si sostengano a vicenda o si combinino l’uno con l’altro; che è precisamente quanto lo studioso di questioni umane tenta di spiegare». Benhabib S., La rivendicazione dell’identità culturale, op. cit., p. 28.

[23] Ricoeur P., Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; trad. it., (Iannotta D.), Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.

[24] Il Diritto acquisito comunitario: è l’insieme dei diritti, degli obblighi giuridici e degli obiettivi politici che accomunano e vincolano gli stati membri dell’Unione Europea. Ciascun membro dell’Unione, se intende entrare a farne parte, deve recepire senza riserve obblighi e finalità politiche. I paesi candidati a diventare membri devono accettare l’acquis per poter aderire all’Unione europea e, al fine di una piena integrazione, devono accoglierlo nei rispettivi ordinamenti nazionali che potrebbero così subire modifiche. A partire dalla data in cui diventano membri effettivi dell’Unione lo devono applicare.

[25] Beril Dedeoğlu, docente presso il Dipartimento di Relazioni Internazionali (Università di Galatasaray) nel rispondere ad alcune domande sul processo di adesione della Turchia alla U.E. afferma che: «La crisi economica in Europa ha finito per arrestare il processo di allargamento dell’Unione. Se l’Unione Europea arresta il processo di integrazione, soprattutto verso un candidato come la Turchia, non saprà più come relazionarsi con quest’ultima. Da un lato non vuole perdere la Turchia dall’altro non l’accetta completamente. Per uscire dall’impasse, gli Stati nordici membri dell’Unione Europea e in particolare la Gran Bretagna tentano di proporre un modello. È una sorta di “adesione per livelli”. L’Unione Europea dovrebbe sedersi al tavolo dei negoziati con la Turchia e ridefinire le condizioni e la procedura di adesione. Si inaugura, dunque, un nuovo percorso. E non è una trovata per impedire l’adesione della Turchia. Non è come il modello proposto da Nicolas Sarkozy di una ‘la collaborazione esclusiva’. Vuole essere, al contrario, una soluzione che va a beneficio di entrambe le parti. La Turchia diventerebbe membro solo per quegli ‘acquis’ comunitari che ha accettato».L’intervista della studiosa Beril Dedeoğlu è disponibile on-line all’indirizzo:
http://it.euronews.com/2012/12/28/turchia-e-allargamento-dell-ue/.

[26] Il 12 settembre 1980, mentre era in carica il governo Demirel, l’esercito guidato dal generale Kenan Evren prese il potere, legittimando questo atto con la legge dei servizi interni. Nato nel 1917 Ahmet Kenan Evren dopo il colpo di Stato del 1982 divenne uno degli uomini più potenti della Turchia. Lasciato l’esercito fu eletto Presidente della Repubblica, carica che ha ricoperto fino al 1989.

[27] A proposito della lingua italiana Benhabib, a questo punto dell’intervista, ha rievocato la grande passione della sua mamma per la nostra lingua e l’Italia: «Mia mamma voleva venire in Italia perché amava la vostra lingua. Frequentava una scuola italiana ad Istambul e sapeva parlare italiano. Voleva venire in Italia negli anni 1938/39 durante la dittatura di Mussolini e la sua mamma le ha impedito di fare questo viaggio. Aveva ottenuto una borsa di studio proprio per andare e studiare in Italia e il non essere riuscita a realizzare questo sogno è stato il più grande rammarico della sua vita. Amava l’Italia ed era solita citare alcune brevi frasi di Dante Alighieri  come “lasciate ogni speranza…”. Ero una bambina di 12/13 anni e ascoltavo spesso queste citazioni e racconti della letteratura italiana. Pertanto la cultura italiana è entrata a casa mia e la si respirava nell’aria, fa parte della mia storia e dei miei ricordi personali. Così sono cresciuta in questo contesto, forse è proprio per questo motivo che il cosmopolitismo non mi è estraneo. L’estraneità non è più una cosa strana ma sta diventando la condizione di vita per i più che sono stranieri nel paese che li accoglie. Forse le eccezioni stanno diventanto la regola (Maybe the exceptions are becoming the rule).

[28] Benhabib S., Interactive Universalism and the Rights of Others, (Part 1/2); Reset-DOC (Dialogues on Civilizations) – Seyla Benhabib at Istanbul Seminars 2011 – Bilgi University, Santralistanbul. Intervista di Nina zu Fürstenberg pubblicata on-line il 29 maggio 2013. Il video è disponibile all’indirizzo: http://www.resetdoc.org/story/00000022249/ e all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=prS1In2Z8WU.

[29] Si pensi al campione tedesco del Real Madrid, Mesut Özil che con il collega di origini turche İlkay Gündoğan, è diventato un pilastro inamovibile della “Nationalmannschaft” guidata dall’allenatore Joachim Löw e che ha conquistato la Coppa del mondo di calcio dell’edizione 2014 giocata in Brasile. Sia in campo economico che sportivo gli stranieri forniscono un contributo decisivo per i successi tedeschi. Turchi, polacchi, ghanesi tunisini hanno portato nella nazionale tedesca la multiculturalità al potere. Con giocatori che hanno origini in Turchia, Polonia, Ghana o altri luoghi del mondo la Germania è la nazionale più multiculturale del calcio mondiale, specchio fedele di uno dei paesi con la maggior presenza di stranieri del mondo. E grazie all’immigrazione il paese avanza sia nell’economia che nello sport. Paradossalmente è stato proprio il mondo del calcio, dove ancora oggi ci sono manifestazioni di intolleranza e razzismo, ad aprirsi, tra i primi, alla libera circolazione di calciatori stranieri tra le squadre di club. Era il 1995 quando la sentenza “Bosman”, emessa dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea, riconosceva il calciatore professionista quale lavoratore subordinato. Al calciatore venivano pertanto riconosciuti tutti i diritti che spettano ai lavoratori comunitari. Le conseguenze sono state rivoluzionarie sia per le singole squadre di club che per le nazionali e per i calciatori che provengono da oltre i confini dell’Europa comunitaria. La sentenza è fondata sul diritto della libera circolazione in ambito UE, sancita dall’ Art. 48 del trattato CEE e poi dal trattato di Schengen del 1992. Anche questa sentenza ha contribuito, sin dalla metà degli anni novanta, ad aprire la strada verso una nuova cittadinanza post-nazionale.

[30] Cfr. Honneth A., Pathologien der Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007; trad. it. (a cura di Carnevale A.), Patologie della ragione. Storia e attualità della teoria critica, Pensa Multimedia, Lecce 2012.

[31] Habermas J., Können komplexe Gesellschaften eine vernünftige Identität ausbilden?, (Can Complex Societies Construct a Rational Identity), in Idem, Zur Rekonstruktion des Historischen Materialismus – Suhrkamp taschenbuch wissenschaft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1976, pp. 23-84. Parzialmente tradotto e inserito con il titolo: On Social Identity, in Telos, Vol. 19 (1974), pp. 91-103 (traduttore anonimo). Il saggio è stato presentato da Habermas come discorso di ringraziamento per la consegna del Premio Hegel 1973 (Hegel-Preises 1973) conferito al filosofo tedesco, e a Dieter Henrich, dalla città di Stoccarda il 19 gennaio 1974.

[32] Del filosofo-politico italiano (Università “Tor Vergata” – Roma) si vedano: a) Ferrara A., Judging Democracy in the 21st Century – Crisis or Transformation?, in No Foundations – An Interdisciplinary Journal of Law and Justice, Vol. 10 (2013), pp. 1-22; disponibile on-line all’infirizzo: http://www.helsinki.fi/nofo/NoFo10FERRARA.pdf; b) Ferrara A., Reflective Authenticity – Rethinking the Project of Modernity, Routledge, New York 1998); c) Ferrara A., Justice and Judgment – The Rise and the Prospect of the Judgment Model in Contemporary Political Philosophy, Sage, London 1999; d) Ferrara A., The Force of the Example – Explorations in the Paradigm of Judgment, Columbia University Press, New York 2008; trad. it., tr. it. La forza dell’esempio – Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008; e) Ferrara A., Introduction, in Philosophy and Social Criticism (Special Issue dedicated to judgment), Vol. 34, n. 1-2 (2008), pp. 5-27; f) Ferrara A., Hyperpluralism and the Multivariate Democratic Polity, in The Democratic Horizon – Hyperpluralism and the Renewal of Political Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 88-108.

[33] Cfr. Habermas J., Theorie des kommunikativen Handelns – Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft , Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981, Bd. II;  trad. it. Teoria dell’agire comunicativo – Critica della ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna 1986, Vol. II. Qui Habermas descrive il processo attraverso cui gli individui utilizzando la propria ragione diventano “pubblico” e si appropriano della sfera pubblica, generalmente controllata dall’autorità, trasformandola in una sfera dove la critica è rivolta contro il potere dello Stato.

[34] Le elezioni in India sono l’espressione democratica più grande al mondo con i suoi 815 milioni di elettori. Le ultime, per il rinnovo della Camera Bassa del Parlamento (Lokh Saba), hanno avuto inizio il 7 aprile 2014 e si sono concluse il 12 maggio. La fine del conteggio dei voti è fissata per il 16 maggio. Si tratta di un evento rilevantissimo non solo perché determina il futuro di una delle più importanti ed emergenti economie del mondo ma anche per l’enorme numero delle persone coinvolte nell’intero processo. «Le elezioni nazionali indiane del 2014, le sedicesime dall’indipendenza del paese, saranno anche le più imponenti della storia della democrazia mondiale, per il numero delle persone che saranno chiamate al voto: quasi 815 milioni secondo i dati dell’Electoral Commission (EC), circa 100 milioni in più rispetto al 2009. Oltre 900 mila seggi sono distribuiti in 543 circoscrizioni, corrispondenti al numero dei parlamentari che saranno eletti. I giovani che voteranno per la prima volta sono 23 milioni e corrispondono a quasi il 3 per cento dell’elettorato totale (nel 2009 la percentuale non arrivava all’1 per cento). Le donne sono 387 milioni, gli uomini 426. Vista la complessa suddivisione amministrativa del territorio e le difficoltà legate al mantenimento dell’ordine pubblico, nei 28 stati e nei 7 territori del paese gli elettori e le elettrici andranno alle urne in 9 giorni diversi». (Fonte: http://www.ilpost.it/2014/04/07/guida-elezioni-india-2014/).

[35] Il 15 aprile 2014 infatti l’Alta Corte indiana ha sentenziato che il «riconoscimento delle persone transessuali come terzo genere non è una questione sociale o medica, ma riguarda il campo dei diritti umani». (Giudice della corte suprema K. S. Radhakrishnan annunciando la sentenza). Come l’ha definita Terrence McCoy sul Washington Post del 15 aprile 2014 è una sentenza storica (landmark judgment): «La decisione della corte suprema si applica agli individui che hanno assunto caratteristiche fisiche del sesso opposto o si presentano con un aspetto che non coincide con il genere che avevano alla nascita. […] La sentenza obbliga i governi nazionali e federali dell’India a garantire a queste persone l’accesso agli stessi programmi di welfare previsti per le altre minoranze indiane svantaggiate economicamente e socialmente». (Mia la trad.). McCoy T., India Now Recognizes Transgender Citizens as ‘third gender’, in The Washington Post del 15 aprile 2014. L’articolo è disponibile on-line all’indirizzo: http://www.washingtonpost.com/news/morning-mix/wp/2014/04/15/india-now-recognizes-transgender-citizens-as-third-gender/?tid=hp_mm. La decisione indiana è fortemente innovativa se pensiamo che in Europa solo la Germania nel 2013 ha riconosciuto il “terzo genere” anche nei documenti ufficiali. Ancora McCoy osserva: «In gran parte dell’Asia meridionale e sud-est asiatico, il linguaggio di genere è sostanzialmente molto più ambiguo rispetto a quello utilizzato in Occidente. In paesi come la Thailandia e la Cambogia, le persone transessuali non sono solitamente indicati come un uomo o una donna ma come kathoey. La decisione dell’India segue le decisioni di altri paesi della regione indiana che hanno riconosciuto un “terzo genere”. L’anno scorso, il vicino Nepal ha dato la possibilità di una terza opzione di genere sui documenti ufficiali per la sua popolazione transessuale. L’Occidente per quanto riguarda queste misure è ancora indietro. Solo lo scorso anno, la Germania è diventato il primo paese europeo a riconoscere un terzo genere, permettendo ai genitori dei neonati di segnare sul certificato di nascita: “maschio”, “femmina” o “indeterminato”». (Mia la trad.) [Ibidem].

 

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