Recensione: IL DIVINO PLATONE, di Stefano Cazzato

Pasquale Amato

Per una coincidenza che Jung avrebbe definito “sincronica”, il libro di Stefano Cazzato mi è capitato tra le mani quando avevo appena finito di leggere Filosofia e poesia di Maria Zambrano (ed. Pendragon, Bologna 2018), in cui la filosofa spagnola analizza i segni della profonda ferita a suo parere inflitta alla riflessione occidentale dal rifiuto platonico della poesia a favore della razionalità, pur sospettando che Platone stesso, con una certa “doppiezza”, proprio nell’atto di condannarla riaffermasse, per negazione, il valore della poesia.

È proprio a partire da tale condanna che Cazzato, esaminando specifici brani dei dialoghi platonici, individua e segue le tracce di una costante nostalgia che sembra indurre Platone, subito dopo la perdita del suo maestro, al recupero di quel talento poetico che gli insegnamenti dello stesso Socrate lo avevano convinto ad abbandonare. In ogni caso, credo che il richiamo alla Zambrano trovi un senso più generale nell’evidente espressione del comune bisogno, implicita nello scritto di Cazzato – al di là del riferimento a Platone, e da esso rafforzata –, di promuovere un pensiero intero, un atteggiamento filosofico cioè che si avvalga tanto della logica quanto della sensibilità poetica.

Le argomentazioni di Stefano Cazzato si dipanano attraverso le evidenze che la produzione platonica fornisce alla sua tesi di fondo, agganciate a quella sorta di autocritica che, nella Lettera VII, Platone fa sul percorso filosofico fin lì compiuto, e nella quale Cazzato identifica elementi significativi di un ripensamento provocato dal dolore per la morte di Socrate e dall’esigenza di divino che spinge il filosofo a cercare appoggi nella tradizione mitologica e misterica.

Noi lettori, più o meno preparati, possiamo tra l’altro cogliere una preziosa occasione per usufruire di una ricca panoramica – originale e tutt’altro che superficiale – dei dialoghi platonici, tra i quali Cazzato necessariamente trasvola, con disinvolta e solida competenza, per approfondire le questioni centrali del suo studio.

Preliminare, strategico e per me di particolare interesse, il secondo capitolo dell’opera [pp. 31-42] riassume la riflessione platonica sulla possibilità limitata che l’uomo ha di conoscere “ciò che realmente è”, vista la natura difettosa dei quattro strumenti di conoscenza – i nomi (instabili e mutevoli, quindi inaffidabili), la definizione (incerta attività che combina nomi e verbi), l’immagine (soggettiva in quanto frutto del percepire e della sensazione), la conoscenza (opinabile perché riferita alla “copia” di cose di cui sappiamo poco e niente) – a cui aggiunge “una quintessenza” senza nome, esterna ai confini della ragione. La ragione umana (costituita dai quattro primi necessari elementi), e dunque la filosofia, può giungere a “una opinione vera”, che però non è la verità, la cui ricerca resta allora “incerta e problematica” e richiede di essere affidata, non al logos, ma alla visione che consegue a un’intuizione, a una illuminazione (Hannah Arendt, nota Cazzato, la assimila al nous privo di linguaggio).

Ecco perché il mito interviene in Platone con la funzione supplente di dire narrativamente, facendo leva sul verosimile, quello che la ragione universale è impotente a svelare e il linguaggio comune a dire. Max Müller diceva che la «mitologia non scompare mai del tutto» perché mai del tutto la ragione può rivelare il segreto delle cose. [p. 36]

Il ricorso a Wittgenstein diventa a questo punto ausilio imprescindibile e chiarificatore.

Resta nella conoscenza umana una difettosità o “debolezza” di fondo, un errore di impostazione che sta nel cercare in un certo modo ciò che meriterebbe di essere trovato in modo diverso. Bisogna scendere dalla scala o gettarla via per vedere rettamente il mondo. E non restare appesi alla propria soggettività. [p. 37]

Tra le righe delle tesi logico-razionali che caratterizzano i dialoghi platonici, Stefano Cazzato indaga allora nel non-detto, nell’implicita ricerca di un registro che vada oltre il logico, nella trapelante urgenza di una connessione al divino con cui Platone conta di poter raggiungere la verità delle cose.

In questo ulteriore confronto con il filosofo ateniese – è il suo quarto lavoro su Platone –, Cazzato si fa scortare e confortare da pensatori che gli sono cari: Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, Vattimo, per concludere con Simon Weil, il cui apporto consolida l’ipotesi di un Platone alla fine rivolto a una visione dell’essere indissolubile dal nesso al divino, e in tale posizione convinto della necessità di un pensiero perfezionato da componenti che superino l’assetto logico e razionale.

Senza dimenticare, pregiato, il contributo introduttivo di Lucio Saviani, che invoglia, orienta e avvia la lettura, suggerendo l’attinenza delle idee di Cazzato con un’implicita trattazione del limite e, per contro, dell’ispirazione (ambizione) all’oltre, al mistero.

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