a partire da una ateologia
Pasquale Amato
2. Il volontario e l’involontario (III)
2.2. Decidere, agire, consentire (II)
2.2.3. Il consentimento
Ricœur afferma: «Il consentimento è il percorso asintotico della libertà verso la necessità»[1]. Basterebbe questa definizione per darci lo spessore di problematicità del terzo momento delle articolazioni del volontario e dell’involontario: il nodo dell’argomentazione è la necessità; la posta in gioco, un’ardua conciliazione della libertà e della natura.
I precedenti illustri sono noti: gli Stoici, la cui grandezza Ricœur associa proprio alla meditazione sulla necessità per farne un momento della libertà; Martin Heidegger, che in Sein und Zeit definisce il suo dasein legandolo alla nozione di “situazione”, di “mondo”.
Ed è il mondo stesso, fondamentalmente, la direttiva del consentimento, come risultante dei tre “fatti” della necessità corporea: il carattere, l’inconscio, la vita.
Il carattere è lo stile con il quale il soggetto, singolarmente e irriducibilmente, guarda ai valori, ed è, dunque, il modo individuale della libertà; l’inconscio è una sorgente di motivi; la vita – è facile capirlo – è indispensabile a qualsiasi volontà («questo cuore i cui battiti ci permettono di volere, fino al giorno in cui ci tradirà»[2]) e in sua assenza nessun valore sarebbe per noi.
Ma il nostro carattere, il nostro inconscio, la nostra vita, sono intrisi delle volontà altrui, della storia degli uomini, dell’ordine della natura; in più, la comprensione dei loro rapporti con la volontà ci conduce al senso del rapporto più ampio tra natura e libertà. In definitiva, possiamo dire che queste tre figure del consentimento sono il mondo stesso.
Ricœur, con un dichiarato riferimento ad Heidegger, definisce la necessità come «situazione già fatta nella quale mi scopro implicato»[3]. Il consentimento non è una semplice considerazione, «è una contemplazione senza distanza, o meglio un’attiva adozione della necessità»[4]. Consentire al necessario, quindi, si esprime attraverso un imperativo, “e sia così”, strano in quanto riferito a un che di inevitabile: «volendo il puro fatto, lo cambio per me non potendo cambiarlo in sé»[5]. Non dico, dunque, come se fosse esterno a me, “si deve”, ma, adottandolo, dico “voglio così”.
Ora, se torniamo per un momento al decidere e al muovere, i punti di vista da cui osserviamo la volontà sono, rispettivamente, la legittimità della scelta e l’efficacia dello sforzo. Il consentimento è, invece, pazienza. È la controparte dello sforzo, «uno sforzo impotente»[6], che può far propria la necessità non in senso di possesso ma di adozione, riuscendo però a trasformare l’impotenza in un’efficacia rinnovata, anche se «disarmata e povera»[7].
Consentire è, in fondo, un movimento della mia libertà per convertire, in me e nella mia libertà stessa, ciò che è già determinato ed è per me limitante e lacerante.
Rileviamo, in questa parte dello studio, il significativo confronto con la nozione freudiana di inconscio. Lo spunto riflessivo è offerto dalla constatazione di come non si possa considerare, nell’ambito filosofico in cui Ricœur si esprime, la dimensione di «questo che di nascosto della coscienza»[8] riducendola al solo inconscio psicoanalitico.
Solo un’astrazione permette di prendere separatamente in considerazione, da un lato, l’inganno in cui viene tratta la coscienza che, non avendo «accesso al proprio fondo, è incapace di fare l’esegesi dei propri enigmi»[9], dall’altro, la possibilità del pensiero di ritirarsi «in un discorso seppellito dal corpo, mentre il corpo consegna all’altro una parola menzognera»[10]. Questa connotazione della maschera e della menzogna sviluppata da Nietzsche viene, secondo Ricœur, comunque reintegrata in quel fondo oscuro della coscienza che la psicoanalisi oggettivizza, per i suoi fini terapeutici, nell’inconscio.
Il realismo freudiano attribuisce all’inconscio – inteso come essenza dello psichico – il pensiero; una filosofia di ciò che è nascosto, avverte Ricœur, non può sostenere una mitologia dell’inconscio, ma deve riconoscere qualcosa che intride di impotenza ogni potere e non è né pensiero né corpo, «un che al di sotto [della coscienza], impensabile fuori di essa e senza di essa»[11], il cui statuto non può definire se non come «materia memoriale ed affettiva»[12], di cui l’interpretazione psicoanalitica può elaborare un senso. È solo a posteriori che il «quasi riconoscimento»[13] dell’inconscio oggetto dell’analisi può offrirci l’idea di un inconscio soggettivo le cui espressioni (sogni e sintomi) possono essere lette esclusivamente in via indiretta, nel colloquio terapeutico, in un linguaggio che è proprio della coscienza.
Il Trattato delle passioni cartesiano diventa polo di riferimento per un monito sui rischi di uno sconfinare del mito freudiano dell’inconscio fuori della funzione terapeutica. Cartesio definisce quella che Ricœur chiama «generosità»[14] i cui termini assegnano all’uomo la responsabilità piena dell’uso della propria volontà, l’impegno a non astenersi dall’esercitare tale volontà in favore delle cose che giudicherà migliori, la stima di sé in quanto libero arbitrio. È qui che, pur riconoscendo la validità pratica della rivoluzione copernicana che la psicoanalisi pone in atto (aggiudicando all’inconscio una centralità che spetta invece, nell’essere umano, alla coscienza e alla libertà), e pur riconoscendo all’analista la positiva e suggestiva immagine di «levatrice della libertà»[15], Ricœur si mostra criticamente attento all’esegesi psicoanalitica dei significati propri della coscienza. Il processo interpretativo spiega il «desiderio per i valori superiori attraverso il bisogno sublimato dei valori inferiori»[16]. Applicando indiscriminatamente la psicoanalisi a tutte le produzioni della coscienza che rientrino, non solo nell’ambito terapeutico, ma anche in quelle dimensioni creative superiori di cui la poesia è l’esempio principale, si formerebbe un senso minore rispetto al senso più alto che l’autore ha dato alla sua opera.
Con l’apertura di questa conclusione alla «serie ascendente e discontinua delle tensioni della coscienza verso il vitale, il nobile, il bello, il sacro, ecc.»[17], cioè verso l’estetico, il morale e il religioso, Ricœur mette in guardia sulla riduttiva e purtroppo diffusa visione di una coscienza considerata esclusivamente come manifestazione ermetica dell’inconscio, espressione forse del celato desiderio di chi, soffrendo il peso di essere libero, vorrebbe declinarne la responsabilità relegandola nel sotterraneo della coscienza.
Al prezzo di un immediato esaurimento di quella generosità attraverso cui la coscienza «dà senso ai suoi pensieri e accoglie i valori»[18], questa idea svilisce l’umano: l’essere uomo esige che sia «costantemente riconquistata in un surplus di libertà»[19] la certezza – indebolita dal sospetto di un enigmatico inganno ad opera dell’inconscio – di una volontà affermabile in prima persona.
Note
[1] ivi, p. 342.
[2] ivi, p. 339.
[3] ivi, p. 341.
[4] ivi, p. 340.
[5] ivi, p. 340.
[6] ivi, p. 341.
[7] ivi, p. 341.
[8] ivi, p. 386.
[9] ivi, p. 393.
[10] ivi, p. 370.
[11] ivi, p. 386.
[12] ivi, p. 387.
[13] ivi, p. 387.
[14] cfr. ivi, p. 381.
[15] ivi, p. 394.
[16] ivi, p. 400.
[17] ivi, p. 398.
[18] ivi, p. 398.
[19] ivi, p. 397.