Ganz Anderes
Alberto Iannelli
Nell’arco teso tra un agile giro di stagioni, flebile fruscio d’ali nella storia dell’uomo, cinque pensatori capitali e decisivi per le sorti del Novecento convergono, certamente principiando da differenti terreni e mirando orizzonti altri, presso l’uno della Trascendenza o, piuttosto, usando l’espressione del primo tra loro, dell’assolutamente o totalmente Altro (ganz Anderes).
È il 1917 dunque, quando Rudolf Otto, ricercando i fondamenti irrazionali del darsi del divino all’uomo, pubblica la sua opera più celebre e cruciale: Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen (Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione col razionale):
Assunto nel suo valore universale e sbiadito (il mysterium [tremendum e fascinans], aggiunta nostra) significa solamente segreto, nel senso di straniero a noi, di incompreso, di inesplicato, e in quanto mysterium costituisce quel che è da noi considerato una pura nozione analogica, ricavata dall’ambito del naturale, senza che effettivamente attinga la realtà. In se stesso però, il misterioso religioso, l’autentico mirum, è, se vogliamo coglierlo nell’essenza più tipica, il Totalmente altro, il tháteron, l’anyad, l’alienum, l’aliud valde, l’estraneo, e ciò che riempie di stupore, quello che è al di là della sfera usuale, del comprensibile, del familiare, e per questo “nascosto”, assolutamente fuori dall’ordinario, e colmante quindi lo spirito di sbigottito stupore.[1]
Undici anni dopo, il fondatore dell’antropologia filosofica, Max Scheler, ne La posizione dell’uomo nel cosmo (Die Stellung des Menschen im Kosmos), escutendo l’origine dell’irriducibile alterità della “natura umana” rispetto alla Vita stessa, raggiungerà parimenti la cifra e l’orizzonte della medesima Ulteriorità inseitale:
L’“uomo”, inteso in questo senso del tutto nuovo, è l’intenzione e il gesto della “trascendenza” stessa […]. Questi è solo un “infra”, una “frontiera”, un “passaggio”, un “apparire di Dio nel corso della vita”, e un’eterna “trascendenza della vita stessa” […]. Il fuoco, la passione di trascendersi – si chiami la méta, “superuomo” o “Dio” – costituisce l’unica sua vera umanità […]. Per quanto mi concerne, io rifiuto ambedue queste teorie, nell’atto di affermare che l’essenza dell’uomo, insieme con quella che possiamo definire la sua “posizione particolare”, trascendono ciò che chiamiamo intelligenza e facoltà di scelta, e non possono essere intese, neanche aumentando queste due facoltà quantitativamente all’infinito. Ma sarebbe altrettanto sbagliato considerare quell’elemento nuovo che rende l’uomo tale, esclusivamente come un grado essenziale […] di quella facoltà e funzioni pertinenti alla sfera psichica e vitale, e il cui studio rientrerebbe nell’ambito della psicologia e della biologia. Il principio nuovo si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come “vita” […]. Il principio nuovo si trova fuori da tutto ciò che noi possiamo definire nel senso più lato come “vita”. Ciò che fa sì che l’uomo sia veramente “uomo”, non è un nuovo stadio della vita —e neppure una delle sue manifestazioni, la “psiche” —, ma è un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell’uomo: un fatto essenzialmente e autenticamente nuovo che come tale non può essere ricondotto alla “evoluzione naturale della vita”; ma semmai, solo al fondamento ultimo delle cose stesse: a quello stesso fondamento dunque, di cui “vita” non è che una manifestazione […]. La caratteristica fondamentale di un essere spirituale, qualunque possa essere la sua costituzione psico-fisica, consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con quanto è organico, dal legame con la “vita” e con quanto essa abbraccia, e quindi altresì dal legame con la propria “intelligenza” ancora sottomessa alla tendenza. Un essere “spirituale” non più legato alla tendenza e all’ambiente, ne è “libero”, e perciò “aperto al mondo”; un essere siffatto possiede un suo “mondo”, ed è altresì capace di trasformare quei centri di “resistenza” e di reazione del suo ambiente, che originariamente anch’egli possiede (i soli per l’animale che vi è immerso extaticamente) in “oggetti” […]. Solo l’uomo, in quanto persona, è in grado di elevarsi al di sopra di se stesso come essere vivente, e, partendo da un centro che trascenda il suo mondo spazio-temporale, è in gradi di trasformare ogni cosa, compreso se stesso, in oggetto di conoscenza. Così l’uomo, come essere spirituale, è posto al di sopra del suo stesso essere vitale e del mondo.[2]
Di lì a poco, nel 1931, l’altro grande pensatore della disciplina da Scheler stesso nominalmente definita, Helmuth Plessner, in Potere e natura umana (Macht und menschliche Natur), nel tentativo di sottrarre l’antropico e la solo sua imperscrutabilità o abissalità esistenziale, la solo sua propria altresì “dimensione oscuro-potestativa”, da qualsivoglia definizione meta-storica della sua essenza, confinandone una volta e per sempre l’insé entro una struttura formale e universalmente valida, giungerà a evocare egualmente la dimensione dell’Alterità o Al-di-là radicale:
In tutti i caratteri della situazione si esprime quella situazione intermedia tra un ambiente chiuso di rimandi circolari tra riferimenti che danno e ricevono senso, ed il mondo aperto della realtà infondata: una posizione per la quale nulla stabilisce senza essere a sua volta stabilito, e nulla può essere stabilito senza a sua volta stabilire. È ben per questo che tempi precedenti al nostro hanno considerato l’uomo tra Dio e la bestia; fra la bestia – che vive in un ambiente in accordo con le sue funzioni, in una sfera di significanza puramente relativa alla sua esistenza – e Dio, come volontà e occhio a cui l’aperta infinitezza della realtà è anch’essa attualmente presente. In tale posizione intermedia, l’uomo si trova racchiuso da orizzonti, e la sua situazione è frammentata in un aldiqua e in un aldilà di quello che è di volta in volta l’orizzonte. Racchiuso eppure esposto, egli è così l’essere carente che spera, aspetta, desidera, si dà da fare, vuole, interroga […]. Questo vivere soltanto nell’autoprecedersi di una condotta di vita, esprime la sua indefinita infinitezza del dover–sempre– andare–oltre, intrecciata con la presente ed attuale infinità del mondo aperto, ovvero la sua finitudine. Ma questa finitudine non è la pura finitudine dell’animale, il quale può esaurire i suoi bisogni nel proprio mondo, mondo che è in se stesso finito. Essa è una finitudine intrecciata con l’infinitezza […]. Perciò ogni immediatezza ha luogo per lui soltanto in una mediazione, ogni purezza solo nell’intorbidimento, ogni compattezza soltanto in una frattura […]. Solo se si dirige lo sguardo sull’uomo come potere e sapere egli rimane una questione aperta, e si rinuncia a una precisa determinazione di essenza al di qua o al di là della storia passata ed a venire, che lo determini materialmente o formalmente in qualche struttura che già esiste ovunque si tratti di parlare dell’uomo […]. Essere e poter essere (vale a dire essere la propria possibilità) è “più” del solo essere; e poiché, secondo un antico principio ontologico, la possibilità è superiore alla realtà, il “può” è superiore (ovvero: “più profondo”) rispetto allo “è”, e lo “è” si basa sul “può” […]. Essere–uomo è l’altro del proprio stesso essere. Soltanto la sua trasparente visibilità in un altro regno lo attesta come aperta imperscrutabilità […]. In quanto anch’egli è l’altro da se stesso, l’uomo è una cosa, un corpo, un essente tra essenti che si trova sulla terra […]. Egli dovrà sempre servirsi di questo ‘di più’ immanente alla sua prospettiva di interiorità contro l’identificarsi della propria essenza con il corpo (quale altro di se stesso) […]. L’altro di se stesso egli lo distanzia da sé e lo rende così un altro rispetto a se stesso […]. Cosa e potere collidono costituendo nel collegamento “e” quel composto che è l’uomo, che fissa nella trasparenza l’unità, mediata dal nulla, della sua essenza aperta […]. Egli possiede una “profonda” essenza segreta: il potere dell’esistenza che si manifesta da sé (l’autopotestatività, aggiunta nostra) […]. Egli, in quanto posizione eccentrica dell’in–sé oltre–di–sé, è l’altro di se stesso.[3]
Pressoché, come detto, nel medesimo torno d’anni, Martin Heidegger, pensatore per il quale il cifrarsi destinale della Differenza, intesa a punto come irriducibile alterità da ogni ente, rappresenta, autenticamente, l’Essere stesso, ossia il Ni-ente-che-è, il fondamento a-bissale epperò entro la cui storia ogni sopraggiungenza ulteriore si dà – via via ovvero articolandosi nel Tempo – nell’orizzonte della presenza e nella distintività, parlerà, in cammino verso l’Essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes, 1929), della Trascendenza come del carattere ipseitale dell’esserci (dell’Uomo):
Nell’accezione terminologica che qui ci proponiamo di chiarire e di giustificare, la trascendenza significa qualcosa che è proprio dell’esserci umano, non però come un suo comportamento possibile fra altri, talvolta attuato, talvolta no, ma come costituzione fondamentale di questo ente che precede qualsiasi comportamento […]. Nell’oltrepassamento, l’esserci perviene anzitutto a quell’ente che esso è, e vi perviene come a se “stesso”. La trascendenza costituisce l’ipseità […]. Ciò rispetto a cui l’esserci, come tale, trascende, noi lo chiamiamo il mondo, e determiniamo ora la trascendenza come essere–nel–mondo. Il mondo è costitutivo della struttura unitaria della trascendenza; in quanto fa parte di essa, diciamo che il concetto di mondo è trascendentale […]. In che senso dimora nella trascendenza l’intrinseca possibilità di qualcosa come il fondamento in generale? Il mondo si dà all’esserci come la rispettiva totalità dell’“in vista di” se stesso […]. In questo modo l’esserci può essere in rapporto con se stesso in quanto tale, solo se oltrepassa “se stesso” nell’“in vista di”. Questo oltrepassamento “in vista di” accade solo in una “volontà” che, come tale, si progetta nelle sue possibilità. Questa volontà, che per essenza progetta e quindi getta oltre l’esserci l’“in vista di” se stesso, non può dunque essere un volere determinato, un “atto di volontà” da distinguere da altri comportamenti […]. Ogni progetto di un mondo è dunque un progetto gettato. La chiarificazione dell’essenza della finitezza dell’esserci, che prende le mosse dalla costituzione del suo essere, deve precedere tutte le “ovvie” posizioni della “natura” finita dell’uomo, tutte le descrizioni delle proprietà derivanti dalla finitezza, e quindi anche più che mai tutte le “spiegazioni” avventate circa la loro provenienza ontica. L’essenza della finitezza dell’esserci si svela nella trascendenza come libertà di fondamento. E così l’uomo, che come trascendenza esistente si slancia in avanti verso delle possibilità, è un essere della lontananza. Solo attraverso lontananze originarie che egli si forma nella sua trascendenza rispetto a ogni ente, cresce in lui la vera vicinanza alle cose”.[4]
E, ancora (in Was ist Metaphysik?, 1929), evocando precisamente la relazione tra apertura dell’ulteriorità o possibilità della differenza e nullità del fondamento autentico:
Esserci vuol dire: trovarsi ritenuti interiormente al niente. Tenendosi interiormente al niente l’essere esistenziale è già sopra e al di là dell’essente nella totalità. Questo essere “al di là e sopra” l’essente noi lo chiamiamo Trascendenza. Se l’essere esistenziale nel fondo della sua essenza non trascendesse, ossia — come ora possiamo dire — non si tenesse interiormente sin da principio nel niente, non potrebbe mai riferirsi all’essente, e però neanche a se stesso. Senza un’originaria rivelazione del niente non c’è un essere se stesso, non c’è libertà.[5]
Infine, nel 1932, Karl Jaspers, postosi sulle tracce dell’essenza del filosofare come interrogazione oltre-passante, parlerà, nella sua Metafisica, del naufragio come cifra ultima del darsi della Trascendenza:
L’esistenza è ciò che non diventa mai oggetto, è l’origine, partendo dalla quale io penso e agisco, e sulla quale io parlo in una successione di pensieri che non giungono a conoscere nulla; l’esistenza è ciò che si rapporta a se stessa, e, in ciò, alla sua Trascendenza […]. Ciò ch’è il mondo lo colgo come essere in quanto sono coscienza in generale; l’esistenza, invece, può essere colta con certezza solo nel trascendere dell’esistenza possibile […]. L’essere autentico, che non è possibile trovare in un significato conoscibile, lo si deve cercare nella sua Trascendenza, con la quale entra in relazione non la coscienza in generale, ma solo e sempre l’esistenza […]. Del mondo, che come tale non è oggettivo, possiedo solo una certezza chiarificatrice in una oggettivazione inadeguata. Questo essere non-oggettivo è l’esistenza quando, nella propria origine, mi si può rendere presente in quanto io sono me stesso; si chiama Trascendenza quando esiste nella forma oggettiva della cifra, sì da rendersi comprensibile solo all’esistenza […]. La finitezza non può essere superata se non nel naufragio stesso. Se io estinguo il tempo nella contemplazione metafisica del naufragio senza sperimentare la sua realtà, allora ritorno più decisamente alla finitezza dell’esserci. Chi invece cancella il tempo nel vero e proprio naufragio non torna indietro; inaccessibile a ciò che permane, esige dall’esserci finito di lasciare intatto l’essere della Trascendenza. Non si tratta di sapere perché c’è il mondo; forse è possibile sperimentarlo nel naufragio, ma allora non lo si può più dire. Nell’esserci, davanti all’essere in vista del naufragio, insieme al pensiero cessa anche la parola. Di fronte al silenzio che regna nell’esserci, solo il silenzio è possibile. Ma se la risposta vorrà rompere il silenzio, allora parlerà senza dire nulla […]. Solo davanti alla cifra che non si può interpretare, la fine del mondo diventa finalmente l’essere. Mentre per il sapere ogni fine è nel mondo e nel tempo, e non è mai una fine del mondo e del tempo, il silenzio, al cospetto della cifra enigmatica del naufragio universale, si trova in relazione all’essere della Trascendenza, di fronte al quale il mondo è andato perduto. Il non-essere di tutto l’essere che ci è accessibile, il non-essere che si rivela nel naufragio, è l’essere della Trascendenza.[6]
Certo, ogni comparatistica adeguatamente fondata non può prescindere dal rinvenire le possibili cause di una sorgenza concettuale comune anzitutto nella comune afferenza all’orizzonte anzitutto concettuale (nonché, come detto, crono-topico e oltracciò linguistico), per cui sarebbe sufficiente parlare di milieux e di mutue influenze.
E non certo ciò si vuol misconoscere, bensì, piuttosto, precisamente affermarlo proprio per trascenderlo in direzione di una più ambiziosa ricerca che sappia indicare il fondamento stesso di quel medesimo orizzonte loro comune fondamento all’emersione del concetto della Trascendenza.
Nondimeno, per poter ciò compiere, dobbiamo antecedere essa perimetrazione prospettivale prettamente primonovecentesca, dobbiamo antecederla ossia ampliarla in direzione dell’Origine stessa dell’Uomo e della (sua) Storia, egualmente dell’E-vento della Trascendenza o Dia-vergenza d’Orizzonte, allo scopo di indicare l’insorgenza concettuale comune da cui siamo partiti quale elettivo epifenomeno, ostensosi con necessità lungo il sentiero del Giorno, dell’enantio-articolarsi strutturalmente mono-duale della Notte originaria.
Non possiamo non ulteriormente rimandare a ΔIÁ[7] l’elevazione dei fondamenti dell’affermazione che evoca nell’Origine la coimplicazione endiadica di permanenza-e-ulteriorità nell’immediatamente auto-principiativo pro-porsi presso permanenza (= enadità) dell’Ulteriorità-da-ogni-permanenza (= diadità), nell’immanente altresì ante-(de-)posizione autoctica – e, ispeitalmente endo-di-varicativa o intro-contrastativa, auto-generativa del proprio orizzonte ultimo o sempre ulteriore di compimento – del sé dell’in-sé Trascendenza-da-ogni-posizione-che-permane o Pro-lessi estrema: precisamente essa trascendentale o sempre escate di(a)-lacerazione archea, intimamente o identitariamente coalita, della Dia-vergenza assoluta o a punto ipseitale pro-schiude, nella proto-decisione o partizione prisca (Ur-teilung) dell’Uno-in-sé-diviso, essa di-mensione della Dif-ferenza heideggeriana o dell’ascetica “protestazione” “contro tutto ciò che è soltanto vita e realtà” di Scheler, dell’eccentricità autopotestativa di Plessner o del naufragio dell’inseità dell’esistenza di Jasper, come esattamente del Totalmente Altro di Rudolf Otto, essa dimensione ex-statica ebbene esclusivamente avvenendo e autenticamente dimorando entro la quale l’Uomo stesso è ed è se stesso quale facitore di quella medesima Seinsgeschichte precisamente coinvolta nel contro-strutturarsi per epoche (ed epoché o apofaticamente) della predetta Notte originaria.
Ebbene, ciò prestamente preposto, è nostra volontà avanzare la tesi secondo la quale l’emergere comune della Trascendenza in opere e pensieri come affermato sì capitali per la storia del Novecento, e in anni sì decisivi per la contro-vicenda dell’Originario, corrisponda precisamente al pressoché incipiente lì – e ancor più qui – compiuto venire meno del dischiusivo darsi della Trascendenza, del pressoché ossia ultimo adempiersi di quell’Era, definitasi Deuteriore, in cui, viepiù nientificandosi il contenuto della posizione originaria (ovvero, ancora, dell’Oltre-passante-ogni-posizione e anzitutto o identitariamente la propria stessa prima o autocausativa), viepiù permane esclusivamente il suo stare presso posizione elevato a valore assoluto, cioè a inseità autonoma e distinta giacché Posizionalità-in-sé.
Come, la Trascendenza-in-sé emergerebbe proprio nel tempo del suo con-chiusivo venir meno, progressivamente scacciata dall’incipientemente completo distendersi, ogni posizione-di-latenza a saturare, dell’immanenza sua deuteriormente (etero-)promossa a Immanenza-in-sé o Pienezza ontica parmenidea? Ha forse ragione il poeta nel dire che “lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva” (“Wo aber Gefahr ist, waechst das Rettende auch”, F. Holderlin, Patmos, 1803)?
Certamente, ma occorre non recedere d’innanzi al portato di questo evento “soteriologico” in cui l’era della nullificazione della Trascendenza – epperò, coimplicativamente dell’identità particolare (“è questo il tempo del nichilismo inautentico, il tempo della notte del mondo, quando le singole realtà o posizioni di identità particolari sono nulla e del Nulla non ne e più nulla”[8]) –, verrà trascesa. Ma, ancora, per poter ciò fare, occorre preliminarmente porre con precisione la Trascendenza stessa presso definizione, epperò anzitutto emanciparla dall’Eternità e dalla sua aoristia identitaria.
Sempre in ΔIÁ, infatti, si sono posti:
- La “quadripartizione della fattorialità costituente l’unità co-incentrativa di ogni trascendimento”.
- L’impossibilità di infiggere il télos dell’oltrepassamento nell’assenza di perimetrazione alcuna.
La dimensione della Trascendenza è dunque immorsata, e da principio, alla sua stessa destinazione alla finitudine, ovvero alla sua propria immanenza o haecceitas. La Trascendenza originaria è trascendenza determinata.
La Trascendenza deve portarsi oltre qualcosa in direzione di qualcosa d’altro dal trasceso. Entro il punto del trascendimento deve pertanto dischiudersi iato o differenza tra soggettività e oggettività del genitivo, ovvero si dà immediata dia-vergenza nella stessa costitutivamente puntuale-diadità del trascendimento, simultanemante o in-sé e “agito” (trascendimento di qualcosa che trascende) e “patito” (trascendimento di qualcosa che è trasceso).
La Trascendenza originaria deve epperò portarsi e sempre – egualmente sinché è, epperò sinché è coalita al sé – oltre se stessa. Il suo proprio avvento, abissale, null’altro è infatti se non precisamente l’apertura – a punto trascendentale o archeo-escate – della sua profondità di compimento, ebbene il destino della sua storicità, cioè l’apertura – ipotetico/pro-lettica – dell’alterità dal suo stesso essere-qualcosa, dal suo stesso, del pari, essere qualcosa di eguale al sé o endo-concordantesi irenicamente. E questa apertura della differenza è precisamente il contenuto di quell’immanenza o vestigia prima che sta inconcussa tutto l’oltre sé e-veniente a fondare.
Stando in sé, pro-cede oltre la posizione del sé; pro-cedendo-si, riconquista l’in-sé o contenuto, trascendentale epperò, della posizione prima del sé. Nondimeno, proprio essendo Trascendenza determinata – e lo è con necessità, giacché, sempre facendo riferimento ai fondamenti espressi in ΔIÁ, se non lo fosse, ed essa non sarebbe sé, ebbene non sarebbe alcunché, e null’altro sarebbe sé, ebbene non alcunché semplicemente (ci) sarebbe – non può perennemente oscillare tra posizione del sé e superamento del sé verso l’insé del sé. Deve ossia, e simultaneamente, e ritrovare – sempre – lo stesso in-sé a ogni (e per ogni: élenchos) trascendimento, e non – mai – ritrovare lo stesso sé. Ma cosa implica per il Differente-da-ogni-posizione e sempre ritrovarsi e non mai ritrovarsi se non esattamente – sempre – ritrovarsi nel non – mai – ritrovarsi in alcuna posizione? Cosa ossia, altresì, se non il sempre ritrovarsi nel ritrovare sempre l’altro o il differente da sé? La processiva estroflessione della propria contraddittorietà rappresenta precisamente la storia o teoria eliaca dell’essere o del darsi della Differenza originaria, la meraviglia della molteplicità che sempre ci si para d’innanzi.
Non ci sentiamo tuttavia di dispiegare qui il destino di storicità o dispiegamento dell’Originario, neppure per accenni succinti. Rinviando dunque ulteriormente il gentile lettore al luogo deputato alla dimora dei fondamenti. Ci limiteremo invece a stilizzare l’avanzamento dall’Origine esclusivamente per poter dare ragione dell’affermazione che vuole l’emersione comune della Trascendenza a inizio Novecento non esclusivamente frutto di mutui influssi culturali, bensì cor-rispondente al Destino della Notte mono-duale.
Abbiamo accennato alla necessità che l’oltrepassamento del sé dell’insé pristino trovi, secondariamente, lungo l’itinerario di ricerca sempre ulteriore della differenza dal sé, nella tensione ossia all’impressione progressiva del carattere dell’opposizione al sé dell’insé Opposizione-a-sé, il sé del suo insé primo o trascendentale divenuto inseità o distinto contenuto della posizione di seità, cioè il suo stare come Altro-da-ogni stare giacché Stare-in-sé (Essere), coimplicativamente il suo essere concorde col sé in quanto Discorde-in-sé giacché Concordia(-col-sé)-in-sé (Identità), e abbiamo definito questa Era come Deuteriorità (o distendimento della Contrarietà ex-trinseca).
Procedendo oltre questa posizione testé raggiunta, affermiamo ora, sempre con spiccia anapodissi, il dimorare di una speculare necessità d’articolazione e oppositiva e diadica entro la stessa Aoristia seconda: anzitutto il sé dell’insé conseguente sta nel modo del sé, per cui sta perennemente, per poi trans-mutare nel modo dell’altro, quando l’aoristia dell’Aoristia abbandona il suo stare per avvolgere il suo divenire. È precisamente nel tempo dell’eterno e infinito divenire o trascendere, nel contro-tempo epperò del Deuteriore, che il Trascendere originario perde la sua determinazione proprio per pre-pararsi a riprendersela completamente più oltre.
Cosa pertanto, approssimandoci alla conclusione, implica l’avvenire all’essere della configurazione in cui la seità dell’inseità originaria sta, giacché inseità, nel modo d’essere concorde con la stessa inseità prima, se non precisamente l’attuarsi della massima distanza estrinseca dell’Originario da sé? E cosa, ancora, per questo Originario in sé o intrinsecamente Distanza o Contraddizione, tale configurazione annuncia se non il suo stesso portarsi presso la soglia del proprio ultimo essere perfettamente o compiutamente contraddittorio, ebbene del suo stare, insé, nel modo dell’alterità estrinseca? E, infine, cosa significa essere incontraddittoriamente in Atto per la Potenza-in-sé? Socchiudiamo per un istante l’abisso che immediatamente ci si espande innanzi nel pensare l’entelechia dell’Originario nell’attimo dell’adempimento estremo di tutta la storia della solo sua propria contraddittorietà, per concentrarci nel dare fondatezza filogenetica o eziologica all’emergenza Primonovecentesca da cui abbiamo preso avvio.
La Trascendenza (Geschichte) è l’Evento dell’Umano. Nella sua endiadicità eidetica prendono contemporaneamente e coimplicativamente dimora e l’immanenza-della-Trascendenza, il Mondo dell’Uomo, la sua Mortalità, e la trascendenza-della-Trascendenza, il suo Cielo, la sua Immortalità. L’incentro dei Quattro (Geviert) non è null’altro che l’essenza stessa dell’Umano: Trascendenza determinata, Kléos Athánatos.
La Trascendenza è pertanto la dimensione che consente all’Uomo di esistere autenticamente come l’ente che è, ossia di essere perennemente in cammino verso (Télos, Ort) la sua precisa essenza e puntuale. Ma è destino che l’Uomo – in un certo tempo – perda la propria trascendenza, precisamente perdendone l’immanenza: la Trascendenza, infatti, autenticamente intesa come oltrepassamento perfettamente determinato, non più ridotta-presso-sé, non più immorsata o coalita-al-sé, si apre sino ad annullarsi nella sconfinatezza del Perenne Stare che non mai alcunché oltrepassa né può, e ciò precisamente secondo necessità o consentaneamente alla struttura della Notte originaria.
Ma è enantio-dromicamente destino (Ge–schick) che l’Uomo non possa – per sempre o perennemente a punto – perdere la propria Trascendenza teleologica (Geschehen), giacché è l’Oltrepassamento l’Originario, e il Perenne Stare (egualmente il “Perenne Divenire”, cioè il divenire verso l’In-finito che propriamente non mai a nulla perviene, precisamente epperò perennemente così re-stando) è il Deuteriore in esso e contenuto e avvenuto.
Ecco dunque che il clangore dell’epiclesi del Trascendimento Teleologico, ebbene, ancora, l’essenza o destino dell’uomo, torna e ritorna sempre a scuoterlo ed ex-ortarlo verso sé. Ecco dunque che nel Tempo della Notte dell’Originario, la Notte originaria torna e prepotentemente a manifestarsi, abbacinando anzitutto desti pensatori, chiamandoli (e chiamandoci con loro) al profligante ultraincedere questo stesso nostro perduto tempo, gettato nella massima distanza dall’autenticità della Lichtung.
Ma trascendere la notte della Notte, distruggere l’eterno in favore dell’Eternazione-del-mortale, non altro significa se non conquistare asintoticamente l’entelechia della Notte trascendentale – la Gloria della pira di Ettore, il Crepuscolo degli Dei -; lo si sappia.
[1] SE, Milano, 2009.
[2] Armando Editore, Roma 1998.
[3] Manifestolibri, Roma 2006.
[4] Adelphi, Milano 1987.
[5] La Nuova Italia, Firenze 1979.
[6] U.Mursia & C., Milano 1972.
[7] ΔIÁ, Attraversando l’Ultimo Orizzonte e Altro della Notte. Epopea dell’Originario ed Epoche dell’Umano. Aracne, Milano 2020
[8] Il Potere del Nostro Tempo, Milano 2020.