Influenza della musica sull’uomo

Patrizia Figus

Una conoscenza antica

Vogliamo qui indagare il ruolo della musica nello sviluppo psicofisico dell’uomo.

Che la musica abbia efficacia sul corpo e sulla psiche è noto fin da tempi antichissimi, e nella nostra cultura il mito di Orfeo, risalente almeno al VI secolo a.C. conserva memoria dell’azione del suono sugli stati di coscienza.[1] Molte tracce di questa funzione sono conservate ancor oggi nella storia della musica, come nel caso degli spirituals, canti innalzati a Dio dagli schiavi neri in America. Il canto e il ritmo li aiutava a sopportare le terribili condizioni di vita cui erano sottoposti, e a darsi forza nel lavoro dei campi.

La memoria di questa funzione psicagogica, ovvero di guida dell’anima, rende questa musica intimamente legata alla cultura nera, tanto da generare scandalo quando i bianchi se ne appropriano: “ci sarà sempre qualcosa di controverso quando compositori o scrittori bianchi tentano di raccontare la storia dei neri del Sud in quell’epoca.”[2]

Un esempio recente del potere della musica sul corpo e sulla psiche è offerto anche dalla più celebre maratona del mondo, quella di New York. Dal 2007 infatti è proibito prendervi parte ascoltando musica[3], in quanto tale comportamento si configura come doping.

Inizialmente La USA track and field, ovvero la federazione statunitense di atletica, aveva fornito una spiegazione poco convincente per giustificare la novità: gli auricolari, isolando i corridori, potevano facilitare gli scontri tra loro, e renderli più suscettibili a incidenti stradali. Solo in un secondo momento è stato ufficializzato il vero motivo: l’utilizzo della musica durante la gara migliora il rendimento dell’atleta, e genera un vantaggio competitivo nei confronti dei corridori sprovvisti di musica, quindi va considerato come doping.

Questi tre esempi, la musica sciamanica di Orfeo, i canti degli schiavi, e la musica come doping, evidenziano il potere stimolante della musica sull’intera dimensione psicofisica dell’uomo: mente, emozioni, corpo.

Questi tre ambiti interagiscono come tre cervelli[4], come aspetti differenziati di una triplice unità. Anche se non possono essere del tutto compresi separatamente, questi aspetti vanno isolati nello studio, per osservare quali manifestazioni appartengano all’uno e all’altro, e quale azione eserciti la musica su ciascuno di loro.

Tuttavia, per dedicarci a questo, è utile analizzare il dibattito sull’origine della musica, poiché da esso emerge la sua azione su tutte e tre le dimensioni della psiche umana.

 

Il dibattito sulle origini della musica

Perché l’Uomo produce e si interessa così tanto alla musica? Perché non esiste popolo o cultura nota che sia priva di una tradizione musicale?[5] Questa evidenza delle ricerche etnoantropologiche potrebbe e dovrebbe essere un punto di partenza fondamentale per la riflessione. L’archeologia riscontra la medesima evidenza anche in epoche antichissime[6] con il ritrovamento di flauti d’osso risalenti a circa 40mila anni fa, all’epoca del Pleistocene Superiore. Questi ritrovamenti destano grande interesse[7], gettando luce sulla natura intrinsecamente musicale dell’uomo, sempre ed ovunque. Sempre nel tempo, ovunque nello spazio. Dove c’è società c’è musica, dove c’è un Uomo c’è musica. Perché accade questo?

Gli studiosi dibattono se la musica abbia rappresentato un vantaggio evolutivo per la nostra specie. [8]

In tal caso la nostra specie sarebbe attratta dalla musica per il fatto che le capacità musicali hanno rappresentato un vantaggio nella selezione naturale, e perché questa abilità a suo tempo ha incrementato il tasso di sopravvivenza e il successo riproduttivo dei nostri antenati, rimanendo inscritta nel nostro patrimonio genetico.

È opportuno approfondire questo dibattito, e quello sull’origine della musica, per comprendere meglio l’azione della musica sul corpo, sulle emozioni, sull’intelletto,

Per spiegare la musicalità della nostra specie esistono attualmente tre ipotesi principali: l’ipotesi adattativa, l’ipotesi il non-adattativa, e l’ipotesi culturale.

Secondo l’ipotesi adattativa le abilità naturali hanno costituito un vantaggio nella selezione naturale[9]. Secondo l’ipotesi non adattativa la musica deriva da altre abilità cognitive e da altre funzioni mentali, come il linguaggio.[10] Secondo l’ipotesi culturale la musica nasce come una tecnica, capace di organizzare e modellare la mente (Transformative Technology of Mind Theory, TTM).[11]

Partiamo dalla teoria adattativa. Essa propone vari modi in cui comportamenti musicali sarebbero stati selezionati nel corso dell’evoluzione umana.

Anzitutto potrebbero aver giocato un ruolo nel successo sessuale: come in altre specie musicali, tra cui uccelli, balene e varie specie di insetti, gli individui dotati di abilità musicale avevano migliori possibilità di trovare un partner e riprodursi.[12]

Secondo un’altra prospettiva il ruolo adattativo della musica consiste nel fatto che le abilità musicali sono fondamentali per un efficiente sviluppo mentale e per integrare diverse funzioni cognitive e motorie. Quindi il comportamento musicale avrebbe giovato alle abilità di movimento, alle facoltà cognitive e alle tendenze sociali dei nostri progenitori, favorendo la sopravvivenza e il successo evolutivo degli individui che ne erano dotati.[13]

Altri studiosi evidenziano il ruolo sociale della musica, secondo cui l’utilizzo che se ne faceva in contesti pubblici e rituali cementava la coesione del gruppo, favorendo il successo evolutivo degli individui che lo componevano. Gli studi di etno-antropologia sembrano evidenziare che presso le ultime popolazione tribali ancora esistenti sulla terra effettivamente la musica è usata quasi esclusivamente in contesti sociali.[14]

La musica potrebbe avere giocato un ruolo fondamentale anche nei confronti della nostra condizione di mammiferi. Attraverso la musica i nostri progenitori, o meglio le nostre progenitrici, potevano continuare ad accudire la prole senza bisogno di un contatto fisico diretto, liberando così gli arti e il corpo per il procacciamento del cibo, ad esempio per la raccolta, e per altre azioni relative alla sopravvivenza. In effetti uno studio comparato relativo alle ninne nanne ha dimostrato l’esistenza di strutture universali presenti in questi canti, in culture molto varie e diverse,[15] cosa che farebbe presupporre una comune origine.

Concludendo questa disamina delle ipotesi adattive, cerchiamo di mettere in rilievo un elemento che le accomuna. Tutte concordano sul fatto che la musica abbia una profonda influenza organica sulla vita umana: o a livello fisico, come richiamo sessuale e di corteggiamento (Miller), ovvero come fattore di accudimento e sopravvivenza (Trehub); o a livello emozionale, come fattore di socialità e di legami rituali (Morley); o a livello intellettivo come base di funzioni cognitive superiori (Mithen).

Non importa qui stabilire se le ipotesi adattative siano corrette. Ciò che conta è comprendere che esse mettono in luce la profonda azione dei comportamenti musicali sulle tre dimensioni dell’essere umano: fisica, intellettuale, emozionale.

Passiamo ora a prendere in esame la tesi non-adattativa della musica. Secondo questa tesi i comportamenti musicali non hanno contribuito al vantaggio selettivo della specie umana, ovvero alla sopravvivenza, riproduzione, e conseguente successo genetico, degli individui che mettevano in atto comportamenti musicali.

Una prima e netta formulazione della inutilità della musica viene da William James, nei suoi Principi di Psicologia[16]. Egli affermava che gli uomini traggono piacere dall’ascolto della musica solo incidentalmente, poiché essa stimola e solletica l’udito. Il suo testo è tra i più influenti di tutta la storia della psicologia, perciò tale idea ha avuto una forte influenza. Steven Pinker[17] ne riprende gli argomenti, sostiene che la musica risponde unicamente allo scopo di procurare piacere all’uomo, grazie al fatto che ricalca, ripropone e ampia la prosodia del linguaggio. Secondo Pinker il nostro cervello, fatto per il linguaggio, trae piacere da attività sonore che lo stimolano e lo sollecitano.

La sua è una operazione di riduzionismo: i fenomeni e gli enti analizzati vanno ricondotti e ridotti al numero minimo e sufficiente per spiegare i fatti. Quindi alcuni fenomeni sono ricondotti ad altri, che sono ritenuti semplici, fondativi, elementari.

L’interpretazione di Pinker appare come il prodotto di una cultura che svaluta le manifestazioni umane non riconducibili all’intelletto. La musica è considerata piacevole solo in quanto stimola altre funzioni intellettive superiori, considerate utili alla sopravvivenza: le funzioni del linguaggio e dell’analisi dei suoni. Egli aggiunge un altro motivo di piacere: la musica esprime sonorità che normalmente produciamo nei momenti di forte emozione, come il riso, il pianto, la felicità.

Il riduzionismo di Pinker riconduce quindi la vastità del fenomeno musical a semplice prodotto delle funzioni logico-linguistiche.

Anche in questo caso non ci esprimiamo sulla validità di questa teoria. Quel che conta è che anche questa ipotesi non-adattativa, come la precedente, si basa sull’evidenza di effetti fisiologici, emozionali e cognitivi della musica. Lo studioso canadese riconosce che essa agisce sull’allenamento e la vitalità dei sensi (esplorazione sensoriale dello spazio), sulle emozioni (analogia tra musica ed espressione emozionale), sulla facoltà di linguaggio (analisi dei suoni).

L’azione della musica sulla dimensione psicofisica dell’uomo ci porta verso l’analisi di un terzo modello di ricerca, che si sottrae alla contrapposizione tra ipotesi adattativa e non adattativa, la Transformative Technology of Mind Theory, proposta da Aniruddh Patel nel 2008. Pur prendendo in considerazione il fenomeno musicale come tecnica prodotta dall’uomo, ne indaga le ripercussioni sulla mente, in particolare le trasformazioni che essa induce nel sistema-uomo.

“[…] la musica può essere un’invenzione umana, ma se è così assomiglia alla capacità di fare e controllare il fuoco: è qualcosa che abbiamo inventato e che trasforma la vita umana. In realtà è in qualche modo addirittura più notevole del fare il fuoco, perché non solo è un prodotto delle capacità mentali del nostro cervello, ma ha anche il potere di cambiare il cervello.”[18]

Mentre nella teoria adattativa si attribuisce ai comportamenti musicali un vantaggio evolutivo, nella teoria non adattativa non si attribuisce loro alcun vantaggio biologico.

“Secondo alcuni l’universalità e l’antichità dei comportamenti musicali dell’uomo può implicare che questi ultimi abbiano avuto origine da un adattamento biologico. Il pericolo di un assunto del genere è illustrato da un’altra rimarchevole caratteristica umana, ovvero il controllo del fuoco. Questa caratteristica si riscontra in tutto il passato della nostra specie, e in ogni cultura umana. Ciò nonostante pochi sarebbero disposti a negare che si tratta di un’invenzione, piuttosto che di un adattamento biologico. L’universalità di questa caratteristica può essere spiegata dal fatto che essa risponde a esigenze universalmente tenute in gran valore dagli umani, come la capacità di cucinare il cibo, mantenere il calore, vedere al buio. L’esempio della tecnica del Fuoco ci insegna che quando riscontriamo un tratto universale e antico, non possiamo semplicemente assumere che esso sia il prodotto di una selezione naturale.”[19]

Nell’interpretazione di Patel la musica è una tecnologia inventata dall’essere umano, che di riflesso agisce in modo trasformativo sul cervello e sulla mente. Dunque, avrebbe una rilevanza biologica, in particolare un effetto positivo su funzioni come l’attenzione, il linguaggio, le capacità esecutive, senza risultare da una pressione selettiva. La musica potrebbe essere una forma di tecnologia, come la scrittura e la lettura, che una volta inventate e utilizzate comportano un riassetto complessivo della struttura neurologica e del cervello.

La questione è molto simile a quella che si pone per le capacità di letto-scrittura. Esse richiedono competenze estremamente specifiche, e prestazioni molto alte.

“Come è possibile che l’architettura cerebrale di uno strano bipede, evolutosi in cacciatore-raccoglitore, si sia adattata così perfettamente, in poche migliaia di anni, alle sfide del riconoscimento visivo delle parole? […] Una sorprendente scoperta ha recentemente dimostrato che vi è una specifica area corticale per le parole scritte, un po’ come accade per l’area uditiva della corteccia motoria, che esiste in tutti i nostri cervelli. Ancor più sorprendente, forse, è il fatto che questa area per la lettura sembra essere identica per chi legge in inglese, in giapponese, in italiano. Significa che esistono meccanismi cerebrali universali per la lettura?”[20]

Nella pratica della lettura incontriamo le stesse aree cerebrali, ma nonostante l’universalità del fenomeno nessuno teorizza che il cervello si sia evoluto a causa della lettura.  Conosciamo infatti civiltà umane interamente sviluppate, senza lettura e scrittura. Piuttosto dobbiamo ritenere che queste conquiste tecnologiche si siano innestate su un sistema cerebrale capace di supportarle.

“Le nuove invenzioni culturali possono essere acquisite solo se rispettano la nostra architettura cerebrale. Gli artefatti culturali possono deviare considerevolmente dal mondo naturale nel quale ci siamo evoluti – nulla in natura appare più remoto della pagina di un libro. Comunque ognuna di queste invenzioni deve trovare la sua nicchia ecologica nel cervello, o un circuito neurale la cui funzione iniziale sia abbastanza vicina, e la cui flessibilità sia sufficiente per essere convertita al nuovo ruolo.”[21]

Attraverso il linguaggio dell’informatica contemporanea possiamo descrivere la situazione in questi termini: le nuove applicazioni possono essere installate, e possono funzionare, soltanto se sono compatibili col sistema.

Il nostro cervello non è stato selezionato per leggere e scrivere, tuttavia ne risulta modificato, in quanto leggere e scrivere comportano una sua riorganizzazione. Allo stesso modo secondo Patel la musica non è un fattore dell’evoluzione, ma i comportamenti musicali determinano un cambiamento neuropsichico globale. Per tornare al linguaggio informatico, secondo la Transformative Technology of Mind Theory l’acquisizione della musica comporta un aggiornamento del sistema.

Due sembrano essere i punti deboli della teoria di Patel.

In primo luogo, risulta strano che un comportamento con tanti e variegati vantaggi biologici non abbia anche favorito l’individuo e la specie nella lotta per la sopravvivenza.

In secondo luogo per definire la musica un’invenzione, una tecnologia, è necessario trovare una civiltà umana priva di musica, in cui questa non sia ancora stata inventata. Infatti, diciamo che la ruota è un’invenzione, in quanto ci sono note civiltà umane che non la utilizzavano. Tuttavia le evidenze archeologiche dimostrano che fin da tempi estremamente remoti l’uomo produceva e ascoltava musica, e le ricerche etno-antropologiche dimostrano che non esiste civiltà umana senza una tradizione musicale. Quindi parlare della musica come di una tecnologia che l’uomo avrebbe inventato a un certo punto della sua storia è un azzardo, un pregiudizio che condiziona l’intera teoria. Per quanto ne sappiamo l’Uomo è sempre stato una specie musicale.

Non conosciamo alcuna civiltà senza un linguaggio, così come non conosciamo forme di vita umana prive di una tradizione musicale. Dunque, la ricerca di una di una proto-lingua è un miraggio, tanto quanto la ricerca di un proto-canto.

 

Conclusioni sulla utilità o inutilità della musica

 

In conclusione, le indagini non riescono a determinare se la musica abbia avuto origine come vantaggio adattativo, o se, una volta inventata, abbia trasformato la mente del proprio inventore. In realtà le indagini non riescono a determinare neppure se la musica abbia avuto un’origine. Pur con i limiti di queste ricerche, esse gettano luce sul riconoscimento che la musica agisce profondamente sul corpo, sull’intelletto, sulle emozioni. Questa azione modifica a fondo tutte e tre queste parti, e si fissa in tracce cerebrali evidenti e permanenti.

Il grande sviluppo delle neuroscienze, nella seconda metà del ventesimo secolo, ha spinto a studiare le tracce che la musica lascia nel sistema nervoso. Questi studi hanno raggiunto un grande livello di popolarità nel 1993, quando due studiosi della California University, Gordon Shaw e Frances Rausher, hanno osservato un aumento delle prestazioni cognitive seguito all’ascolto delle musiche di Mozart. A queste osservazioni è seguita nel 1997 la pubblicazione del libro The Mozart Effect, che ben presto divenne un successo mondiale[22].

Attraverso l’esperienza di medici, sciamani, musicisti e studiosi, Campbell espone esperienze da tutto il mondo, mostrando che la musica è un aiuto nelle malattie mentali, negli stati ansiosi, nell’ipertensione, nei dolori e nei disturbi del linguaggio. Le abilità musicali inoltre favoriscono il successo scolastico, migliorando l’apprendimento e il comportamento.

Studi successivi hanno ridimensionato la peculiarità di Mozart in questo ambito, dimostrando che gli effetti benefici e terapeutici possono provenire da molti tipi di musica, anche a partire dalle preferenze individuali e dalla cultura di partenza dell’ascoltatore.

L’evidenza di questi effetti, già tramandati dalla cultura tradizionale, ormai trova ampio riscontro in ambito accademico, e le scienze devono riconoscere che “il coinvolgimento regolare in attività musicali può esercitare effetti a lungo termine sulle funzioni cerebrali.”[23] Dunque la musica come comportamento e come tecnica umana, ha innegabilmente una rilevanza biologica, a livello individuale, e Patel porta due esempi clinici a questo riguardo.[24]

Anzitutto è dimostrato che i pazienti colpiti da ictus, e conseguente danno cerebrale, hanno tempi e prospettive di recupero più favorevoli in funzioni cognitive quali la memoria verbale e l’attenzione selettiva, se ascoltano regolarmente musica che sia loro gradita. Inoltre i pazienti si giovano di miglioramenti dell’umore clinicamente rilevanti.

In secondo luogo, sono stati studiati pazienti con deficit di linguaggio, in particolare con afasia causata da lesioni cerebrali, curata attraverso la Melodic Intonation Therapy (MIT). Poiché le aree danneggiate riguardano l’emisfero sinistro del cervello, l’approccio punta a utilizzare nell’emisfero destro le strutture residue, capaci di partecipare alla elaborazione del linguaggio, attraverso la frequente stimolazione con brevi pattern melodici e ritmici. Questo tipo di terapia sembra favorire il recupero della fluenza linguistica.

Indipendentemente dal fatto che i comportamenti musicali siano un tratto selezionato per via evolutiva, le evidenze sperimentali mostrano che essi hanno effetti a lungo termine sulle funzioni cerebrali, anche quelle non direttamente coinvolte nell’elaborazione musicale.

L’importanza di questi effetti per la vita dell’individuo sono ampiamente dimostrati e aprono grandi prospettive di ricerca in tutti i campi, dalla medicina alla psicologia, all’antropologia, fino a investire il dibattito politico su quale scuola, quale tipo di apprendimento, e attraverso quali mezzi la società possa provvedere all’educazione dei suoi membri.

“[…] La direzione importante per il lavoro futuro riguarda i bambini, poiché il loro sviluppo cerebrale è molto più malleabile di quello degli adulti. Infatti la musica può essere una tecnica particolarmente adatta a formare le loro funzioni mentali, in quanto possono esservi immersi fin da piccoli. È dunque relativamente facile coinvolgerli continuativamente in comportamenti musicali.”[25]

Gli effetti neuro psichici dei comportamenti musicali devono entrare nel dibattito pedagogico e politico sulla scuola, in quanto proprio nella scuola si determinano le condizioni psicologiche, cognitive, relazionali e culturali sulla cui base la società si forma e si evolve. Tuttavia, a un livello più basico, questi studi devono contribuire alla prevenzione e alla cura di quei disturbi che affliggono la popolazione scolastica.

È ampiamente nota l’incidenza della dislessia tra i disturbi dell’apprendimento, ma ancora non è stata adeguatamente compresa l’importanza dell’educazione dei sensi e dell’orecchio, nella prevenzione e nella cura di questo disturbo. La dislessia infatti appare correlata a un deficit uditivo, per il quale risultano carenti le capacità discriminatorie e predittive del sistema fonologico. Come avevano ben compreso Maria Montessori e Edgard Willems la preparazione dell’orecchio è anche una preparazione del cervello, e di tutto il sistema cognitivo e motorio coinvolto nell’analisi e comprensione dei concetti, nella loro espressione verbale e scritta.

Un deficit nella discriminazione uditiva comporta difficoltà linguistiche anche nel momento in cui altri fattori, come il quoziente intellettivo, il lessico, l’espressione non verbale, rientrano nella norma. Dall’altra parte un’adeguata sensibilità ai dettagli del parlato svolge un ruolo molto importante nella comprensione del discorso, e nello sviluppo del sistema fonologico. Gli studi condotti attraverso l’elettroencefalogramma mostrano in bambini normodotati l’attivazione dell’emisfero destro per una analisi puramente sonora e musicale del discorso. Dunque le attività musicali aiutano il sistema nervoso coinvolto nell’elaborazione sonora del linguaggio. [26]

È importante non focalizzare eccessivamente l’attenzione sull’aspetto terapeutico della pratica musicale, ma piuttosto sulla musica come cura della persona, come formazione interiore delle condizioni psichiche e neurologiche di uno sviluppo integrale e armonioso. La musica non deve servire a curare le malattie, ma a prendersi cura dell’uomo, anche nel momento della malattia.

Gli studi di Sylvain Moreno[27] hanno messo a confronto le capacità logico linguistiche in gruppi di bambini coinvolti in attività pittoriche e musicali, registrando in questi ultimi miglioramenti considerevoli nelle capacità logico-linguistiche.

“Musica e linguaggio sembrano condividere specifiche caratteristiche che permettono alla musica di migliorare e incrementare l’elaborazione del linguaggio.“[28]

Anche in questo caso, è necessario non focalizzare l’attenzione su questo o quel vantaggio della musica, come l’incremento linguistico, l’incremento del quoziente intellettivo, la propedeutica all’apprendimento di altre lingue, e così via.

Ciò rischierebbe di trasformare la musica in uno strumento per ottenere dal bambino e dall’uomo prestazioni sempre più performanti. Cadremmo nell’errore di utilizzare la musica per correre la maratona di New York, per favorire gli acquisti in un supermercato, per rendere il bambino più efficiente, la musica come doping. Questo errore è speculare a quello di chi considera inutile la musica. Alla presunta inutilità della musica non possiamo contrapporre la sua utilità.

Essa riveste un ruolo educativo così importante perché è una forma di cura e accudimento di sé e degli altri, del tutto gratuita, del tutto spontanea, senza scopo.

Dagli studi e dalle ricerche che abbiamo esposto emerge la profonda, naturale e spontanea correlazione tra musica e sviluppo motorio, emozionale e intellettivo dell’Uomo.

Emerge anche la sua origine misteriosa, che deve trattenerci dal volerla usare, e deve piuttosto muovere in noi una sensibilità all’ascolto, alla ricerca, all’apertura, che trovano nell’educazione il luogo in cui manifestarsi.

 


[1]G. Rouget, Musica e Trance, Einaudi, Segrate, 2019

[2]M. Lorrai, Greg Tate, un’idea collettiva di musica, articolo pubblicato sul quotidiano “Il Manifesto”, il 22 Settembre 2019. Versione on line consultata il 7 Maggio 2020 su https://ilmanifesto.it/greg-tate-unidea-collettiva-di-musica/

[3] M. Calabresi, “Divieto di iPod alla maratona”, articolo pubblicato sul quotidiano “La Repubblica”, il 2 Novembre 2007. Versione on line consultata il 7.05.2020 https://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/esteri/maratona-newyork/maratona-newyork/maratona-newyork.html

[4] P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Ubaldini Editore, Roma, 1976, p.120

[5] B. Nettl, An ethnomusicologist contemplates universals in musical sound and musical culture. in: N. L. Wallin, B. Merkers, & S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press.

[6] N.J. Conard, M. Malina, e S.C. Münzel, New flutes document the earliest musical tradition in southwestern Germany, Nature, 2009, 460, 737-740.

[7] https://www.nature.com/articles/nature08169

[8] P.D.Trimarchi, Rappresentazioni mentali della musica: studi comportamentali sull’interazione uditivo motoria durante l’analisi dell’altezza dei suoni e brain imaging funzionale nella rappresentazione del ritmo, Università Bicocca di Milano, 2009-2010, pp. 2-8

[9] S. Mithen, The Singing Neanderthals, 2005, op.cit

[10] S. Pinker, How the Mind Works. London: Allen Lane, 1997

[11] A. Patel, La Musica, Il Linguaggio, il Cervello, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2016

[12] G. Miller, Evolution of human music through sexual selection. in: N. L. Wallin, B. Merkers,

e S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[13] I. Cross, Music, cognition, culture, and evolution. in: N. L. Wallin, B. Merkers, & S. Brown

(Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[14] I. Morley, The Evolutionary Origins and Archaeology of Music: An Investigation into the

Prehistory of Human Musical Capacities and Behaviours. Ph.D dissertation, University of

Cambridge, 2003

[15] S.E.Trehub, Human processing predispositions and musical universals. in: N. L. Wallin, B.

Merkers, & S. Brown (Eds.), The Origins of Music. Cambridge, MA: MIT Press, 2000

[16] W. James, The Principles of psychology, New York, Dover Publications, 1890

[17] S. Pinker, L’Istinto del Linguaggio, op. cit.

[18] A. Patel, La Musica, Il Linguaggio, il Cervello, op. cit

[19] A. Patel,. Music, biological evolution, and the brain, in: M. Bailar Edition, Emerging Disciplines. Houston: Rice University Press, 2010, p.46 (nostra la traduzione)

 

[20] S.Stanislas Dehaene, Reading in the brain, op. cit., (nostra traduzione cap.1) testo consultato in rete su: https://www.academia.edu/38286217/

[21] S.Stanislas Dehane, op.cit. (nostra traduzione cap.2)

[22] Don Campbell, L’Effetto Mozart, Curarsi con la Musica, Baldini e Castoldi, Milano, 1999.

[23] A. Patel, Music, Biological evolution, and the brain, op.cit.p.50

[24] A. Patel, Music, Biological evolution, and the brain, op.cit. p.50 e seguenti

[25] A. Patel, Music, biological evolution, and the brain, op. cit. p. 53, (nostra traduzione).

 

[26] A.Patel, Music, biological evolution, and the brain, op.cit, p. 53

[27] S. Moreno, Can music influence language and cognition? Contemporary Music Review, Taylor & Francis on line 2009, Vol.28, pp. 329-345.

[28] S. Moreno, Can music influence language and cognition? Contemporary Music Review, op. cit, p.329, (nostra traduzione).

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